Minima Cardiniana 182/3

DOMENICA 1 OTTOBRE 2017 – Santa Teresa di Gesù

I DOMENICA DI OTTOBRE, DEDICATA A NOSTRA SIGNORA DEL ROSARIO

MIRACOLO AL COLOSSEO

Tibi gratias ago, Omnipotens Aeterne Deus, quia laetavisti senectutem meam. Rimpiango di non aver partecipato di persona allo splendido spettacolo che però ho avuto la consolazione di vedere e di rivedere, decine di volte, riproposto su ogni tipo di mezzo di registrazione. Il rimorso e la nostalgia per non aver personalmente assistito a un evento al quale, lo confesso, mi aveva attirato soprattutto la presenza della divina Sharon Stone mi hanno fatto invecchiare di dieci anni in un colpo solo. In cambio, però, la situazione è stata riequilibrata dalla iterata visione dello spettacolo in molte versioni registrate che amici premurosi mi hanno fatto avere, e che mi ha ringiovanito di un decennio. Sono così tornato ai 77 anni, ma con nuova gioia.

Sera di domenica 15 settembre, Colosseo riempito, atmosfera delle grandi occasioni romane. Sul palco, alla fine di un grande concerto annunziato con ececzionale spiegamento di mezzi, Andrea Bocelli annunzia che eseguirà  un inno bellissimo, che gli è particolarmente caro: l’Inno a Roma, parole liberamente tradotte dal Carmen Saeculare di Orazio, musica di Giacomo Puccini. 

E’ vero: su piano dell’originalità, una “mezza sòla”. Il “sor” Giacomo riciclò per l’occasione abbastanza disinvoltamente, la romanza Ch’ella mi creda della Fanciulla del West, che peraltro era roba sua. Ma il risultato fu straordinario.

Bocelli ci ha lasciato sena fiato, con la pelle accapponata e le lacrime agli occhi. La sua voce, appena incrinata di autentica commozione, era a sua volta commovente. L’esecuzione orchestrale inappuntabile, una solennità che un velo di lontananza spogliava di retorica marziale. Il colpo d’occhio del Colosseo notturno inarrivabile. Il pubblico silenzioso, attonito, senza dubbio in parte rapito in parte incredulo, disorientato.

C’è da domandarsi se si sia trattato di un colpo di testa di Bocelli o di qualche momento di distrazione di chissacchì tra organizzatori, dirigenti teatrali, responsabili politici, sponsors. L’ “incidente” – e d’”incidente” si può parlare – è stato all’indomani abbuiato da un assordante silenzio-stampa: solo il “Secolo d’Italia”, in un rigurgito di coraggiosa dignità ma con deludente riduttivismo, ha parlato dell’Inno “che apriva i comizi di Almirante”.

Vero che l’Inno a Roma rimase obiettivamente compromesso col regime, specie in coincidenza delle celebrazioni del Bimillenario Augusteo: divenne quasi un inno nazionale ufficioso. Ma non aveva in sé niente che lo connotasse come propriamente fascista e c’è quindi solo da congratularsi con noi stessi che Bocelli lo abbia forse di nuovo “sdoganato”. Tra l’altro, anche sul piano della glorificazione dell’Urbe imperiale, esso è assai più sobrio, meno retorico e meno roboante dei quattro versi dell’Inno di Mameli che sembrano un micropsicodramma giocato in una parrucchieria per signora:

“Dov’è la Vittoria? – Le porga la chioma

che schiava di Roma – Iddio la creò”.

La Vittoria dovrebbe, com’è noto, porger la chioma all’Italia, che appena sveglia (“s’è desta”) si è subito calcato sulla cervice un copricapo ingombrante (“dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa”).

Insomma, retorica per retorica, se quello a Roma si sostituisse a quello di Mameli come Inno nazionale, avremmo tutto da guadagnare.

Ma sotto l’evento di una quindicina di giorni fa e l’atmosfera di greve silenzio che l’ha avvolto le acque profonde di uffici e ministeri sono disorientate, sconvolte: Bocelli è un intoccabile, un mostro sacro, ma qualche funzionario comunale o nazionale ci rimetterà senza dubbio la testa. Anche perché la performance del Colosseo sembrava fatta apposta per romper definitivamente le uova nel paniere al ridicolo progetto di legge cosiddetto “contro il liberticidio”.

Conosco un po’ il suo promotore, l’onorevole Emanuele Fiano. Che è, fra l’altro, uno dei parlamentari più colti, più equilibrati, più garbati  tra quelli oggi in carica. Qualcuno potrebbe obiettare che ci vuole poco: ma tant’è. Fiano ha senza dubbio prestato orecchio agli ambienti renziani che, dopo lo “strappo” con le ex-sinistre del PD, debbono essersi chieste per un istante che cosa mai avrebbe potuto ricompattare una compagine politica ormai spintasi fino all’irreversibile divorzio. La risposta è stata. L’antifascismo. Un antifascismo da rigurgito tardivo e fuori luogo, più ridicolo ancora di quello che nel 1960, al tempo delle Olimpiadi di Roma, spinse l’allora ministro democristiano Bosco a deturpare i mosaici del Foro Italico per asportarvi le scritte fasciste che vi erano presenti: col risultato che tutti quelli che fino a lì non se n’erano nemmeno accorti si precipitarono a leggerle. Stesso esito avrà la proposta di atterrare l’obelisco dedicato al Duce di fronte al Foro Italico, sostenuta dalla presidentessa della Camera, la buona signora Boldrini. Questi gesti di damnatio memoriae sono comprensibili e talora necessari durante i momenti di violento cambio di regime: dopo, appaiono inutili, goffi, antistorici e di solito controproducenti.

Quando Zapatero si sentì, anni fa, alle strette nel suo stesso ambiente politico, cercò di ricompattare i progressisti spagnoli attorno  a un frusto e inconsistente “nuovo” obiettivo comune: l’abbattimento dei residui simboli franchisti ancor esistenti nella penisola: pochi e di solito piuttosto discreti. Era una manovra a freddo, scopertamente pretestuosa: gli fruttò solo un bel po’ di ridicolo. Oggi, in un paese dove ci sono già la XXIII “disposizione transitoria  e definitiva” della Costituzione, la legge Scelba e quelle che puniscono l’apologia di  fascismo, d’una nuova normativa non v’era né si sentiva proprio alcun bisogno; evidentemente c’è ancora chi vuol percorrere questa frusta strada. Continuiamo così, signora Boldrini: continuiamo a farci del male.

FC