Minima Cardiniana 183/1

Domenica 8 ottobre – Santa Pelagia

EFFEMERIDI DEL CAOS

L’IMBROGLIO CATALANO

Proviamo a capirci qualcosa: in fondo, non è difficile. Che cos’è la Catalogna? Che cosa vogliono (alcuni) catalani? Come reagisce il governo spagnolo, del quale la Catalogna è la regione più prospera e per molti versi più avanzata? Qual è l’apparente posta in gioco, quale quella reale? Come s’inquadra “l’affare catalano” nel contesto europeo, mediterraneo e internazionale?

La Catalogna è la regione del nord-ovest della penisola iberica, grosso modo estesa dalla repubblica pirenaica di Andorra al mare fino alla provincia di Valencia e alle Baleari: i blocchi storico-linguistici della regione sono il catalano-barcellonese, il catalano-valenciano e il catalano-balearico. La Catalogna, nel corso dei secoli VIII-IX “liberata” dall’occupazione arabo-berbera (i moros), eretta in contea di Barcellona, vassalla dell’impero carolingio, è stata annessa nei secoli XII-XIII al regno d’Aragona, per lingua e cultura affine alla vicina Castiglia. Il castigliano e il catalano, entrambe lingue neolatine, sono simili tra loro ma rispettivamente animate da forti specificità come i rispettivi popoli sono animati da una certa rivalità. I catalani si sentono in effetti (e lo sono veramente) affini alle popolazioni del versante pirenaico e delle coste meridionali della Francia, la cosiddetta Provenza-Linguadoca. Tale seconda parola, un po’ ridicola per orecchie italiane, è in realtà gloriosa: siamo nel grande paese della Langue d’Oc, che a livello di famiglia linguistica è il francomeridionale (simbolicamente dalla parola oc, “sì”, derivata dal latino hoc, “questo”), distinto e diverso dal francosettentrionale,  langue d’oïl, cioè della parola “sì” derivata dal latino “hoc illud”). In altre parole, stiamo parlando dell’Occitania, che ormai da decenni inalbera fieri sentimenti d’identità nazionale e d’irredentismo simboleggiati dalla bandiera a strisce rosso-oro e che è fiera dei suoi gloriosi resti dell’età romana e dei suoi gitani cavalieri. Un po’ meno di consenso sulla corrida, idolatrata dai provenzali-occitani di Francia e ormai in via di liquidazione in Catalogna.

Mentre la Provenza-Linguadoca appartiene dal Duecento al regno di Francia – i francesi hanno sempre represso, in età moderna, ogni movimento separatista e negato qualunque appartenenza alle varie “piccole patrie” –, per la Catalogna non è così. Abituati a una certa indipendenza fino dal medioevo – il re d’Aragona governava la Catalogna in quanto conte di Barcellona –, titolari nel Tre-Quattrocento di un autentico impero marinaro mediterraneo che dalle coste iberiche giungeva fino alle isole greche, i catalani hanno più volte tentato, nel corso dell’Otto-Novecento, più o meno blande vie indipendentiste, mentre il resto della Spagna, egemonizzato dai castigliano-leonesi, sempre vi si è opposto. Durante il regime franchista, dal 1939 al 1975, l’autonomia catalana fu esplicitamente e duramente repressa e perfino il suo idioma ufficialmente proibito (anche se naturalmente tutti continuavano a parlarlo in privato). Nel 1978, dopo un triennio d’incertezze avviato con la scomparsa del Caudillo, la catalogna accettò formalmente la monarchia borbonica all’interno della quale ricevette, con la nuova costituzione, una sostanziale autonomia. Ma da allora le richieste si fecero più pressanti e più dure. Nel 2010 la Corte Costituzionale di Madrid dichiarò illegale la pretesa di piena autonomia fiscale: a quel punto, i movimenti indipendentisti cominciarono a pensare a una vera e propria secessione, sottolineando come la Catalogna costituisse da sola il 20% del PIL di tutta la Spagna e come fossero stufi di pagare un prezzo pesantissimo per lo sviluppo delle regioni più arretrate. In altri termini, si trattava di argomenti e di proteste simili a quelle che avevano condotto anni prima Croazia e Slovenia a separarsi dal resto della Jugoslavia e a quelle inalberate dalla Lega Nord nel Settentrione d’Italia.

Fra 2012 e 2014, le manifestazioni e gli scioperi indetti dagli indipendentisti furono molti, imponenti, continui: ma era tuttavia chiaro che tra gli stessi catalani circolavano perplessità e stanchezza. Il referendum ufficioso indetto nel novembre del 2014 (e subito bocciato dalla Corte Costituente madrilena) fu stravinto dagli indipendentisti, ma l’affluenza si fermò al 37% degli aventi diritto al voto: chi non era d’accordo aveva disertato le urne, ed era la maggioranza. Oggi si può calcolare, dopo l’esito del voto di domenica 1° ottobre – anch’esso illegale per la Corte Costituzionale –, che in una regione di circa 5 milioni e mezzo di abitanti gli indipendentisti-separatisti superino di poco i 2,  quindi non arrivino al 40%.

Il fatto è che il governo di Madrid, nella sua corretta pretesa di far rispettare la legalità, ha obiettivamente agito in modo maldestro. L’intervento della Guardia Civil (polizia militare, come i nostri carabinieri e la Gendarmerie francese), i feriti degli scontri, gli spogli elettorali teatralmente svolti nelle scuola per impedire il sequestro poliziesco delle schede, tutto ciò ha esacerbato gli animi e li ha spinti nell’alto mare dello scontro diretto. Re Felipe, nel suo intervento televisivo, ha accusato i dirigenti catalanisti di essersi comportati slealmente sfruttando le libertà loro accordate e di lavorare per la distruzione del paese. Il presidente spagnolo Rajoy, del Partido Popular, non ha potuto d’altronde assumere nei confronti dei secessionisti catalani un comportamento più flessibile in quanto pressato dal partito di destra dei Ciudadanos, che gli sta col fiato sul collo e, al suo minimo cedimento, minaccia di rastrellare gran parte dei suoi voti. Per la verità, la vecchia classe dirigente catalanista (un nome per tutti: Pujol, non a torto chiacchieratissimo) appare ormai compromessa e isolata, ma i nuovi rappresentanti di essa ne sono anche diretti eredi. All’interno del catalismo, poi, vanno distinti i catalanisti moderati, senza dubbio indipendentisti ma che non vogliono uscire dalla Spagna, e i catalanisti radicali che sono, invece, separatisti.

Il sogno dei catalanisti estremi, adesso, è “uscire dalla Spagna per entrare in Europa”. Ma si tratta di  un sogno almeno per ora  irrealizzabile, destinato a durarlo a lungo: anzitutto un’Europa politicamente unita non esiste, in quanto l’Unione Europea è solo un organo di governo finanziario ed economico; e inoltre una Catalogna indipendente dalla Spagna non troverebbe, almeno nell’immediato, ospitalità nel parlamento di Bruxelles-Strasburgo. Lungi dal non entrare nell’inesistente Federazione o Confederazione Europea, non entrerebbero nemmeno nell’Unione Europea che non vuole, non può, non sa dare un giudizio sul Vicino Oriente o sull’embargo alla Russia (dove si limita ad accodarsi agli Stati Uniti), ma legifera sulla percentuale del cacao necessaria perché un prodotto dolciario possa definirsi “cioccolato” e sulla taglia degli stoccafissi.

A che cosa è servito allora il colossale sciopero barcellonese del 3 ottobre scorso? A che cosa servirà la mobilitazione ancora in corso? Con ogni probabilità, non alla causa catalanista moderata o estrema: o almeno, non direttamente. Quel che davvero è in palio, ormai, non è l’uscita della Catalogna dalla Spagna (che è lontana e forse non ci sarà mai), bensì la tenuta del governo Rajoy. Sono ormai trapelate le notizie relative all’accordo tra i leaders catalansiti, il movimento catalano Podem analogo allo spagnolo Podemos e la mobilitazione di tutta la esquerra catalana e izquierda spagnola attorno al progetto di un accordo tra i socialisti del PSOE e di Podemos allo scopo di arrivare alle elezioni anticipate e di rovesciare l’attuale governo di centrodestra sostinuendolo con uno, se non di sinistra tout court, quanto meno di centrosinistra. Altrove – ad esempio in Italia – il panorama politico è inverso, ma la convergenza – tuttavia, ancora “imperfetta” – dei partiti di centrodestra e dei “Cinque Stelle” mira a rovesciare il governo PD (e, in  ciò, i movimenti a sinistra dei “renziani” collaborano obiettivamente a tale progetto). Tutto ciò potrebbe ridar fiato al coro dei movimenti indipendentistico-minoritari di tutta Europa. In realtà, Spagna e Italia nel corso del Risorgimento hanno adottato la linea “unitaria-nazionale” e centralistica, passando sopra alla loro rispettiva tradizione policentrica: a differenza della Germania, che invece ha rispettato, prima con il Secondo Reich e quindi con Weimar e con la Repubblica federale (a parte, e solo fino a un certo punto, la parentesi nazionalsocialista), la sua storia e le sue tradizioni federalistiche.

Se l’Unione Europea è stata un prodotto della convergenza delle nazioni uscite dall’istanza nazionalistico-centralistica, quindi una “Europa dei governi”, quel che adesso i vari movimenti minoritari rappresentanti delle culture che i governi hanno trascurato o messo a tacere parrebbero sia pur embrionalmente orientati a proporre un’”Europa dei popoli” nei quali esser bavarese sia più importante di esser tedesco, esser occitano più di esser francese, esser lombardo (o magari campano) più di esser italiano. Sarebbe, certo, una rivoluzione che imporrebbe una nuova unione, su altre basi: non compimento del cammino avviato dalla rivoluzione francese e sfociato nelle rivoluzioni nazionali, ma risposta dialettica delle genti e delle tradizioni che quel cammino ha schiacciato sulla sua via. Da lontano, il glaciale e taciturno Putin sembra seguire interessato questa sia pur remota prospettiva: annuisce e, con parsimonia, persino finanzia. Oggi, chi entri nell’Unione Europea fa automaticamente ingresso anche nella NATO; che è controllata dagli americani. E se la protesta dei popoli minoritari avviasse un movimento di protesta europeo di portata autenticamente sovranista, che rivendicasse – contro la NATO e i governi europei che l’appoggiano – la sovranità politica, diplomatica e in ultima analisi militare (senza la terza, le altre due sono impossibili), quindi un “rovesciamento delle alleanze” che obbligasse gli USA a recedere dal Mediterraneo?

“L’Europa dei popoli” non è all’orizzonte: ma qua e là ne affiorano dei segnali. State certi che le cancellerie di Washington, di Londra, di Parigi, di Berlino, di Mosca, di Teheran, di Ankara e di Pechino seguono molto interessate lo sviluppo di questo movimento dall’improbabilissimo esito. Nella storia, mai dire mai.

FC