Domenica 15 ottobre 2017 – Santa Teresa d’Avila
2 – … E LA SPAGNA?
Non amo il quotidiano Libero, anche se nella sua compagine editoriale ho qualche amico. E quel quotidiano non ama me. Tuttavia, io non mi sono mai rifiutato di parlare con chiunque: unica condizione che pongo in qualunque caso è che si rispettino le mie idee e che non mi si faccia dire cose che non ho detto e che non penso. Ecco il testo di quell’intervista: vi aggiungo soltanto qualche correzione e chiarificazione in nota quando non mi sono spiegato bene o quando il mio intervistatore – credo in perfetta buona fede – ha equivocato qualcosa o involontariemente alterato le mie dichiarazioni.
«L’Italia unita è un pateracchio. Il federalismo è nel suo dna»
«Noi e Madrid abbiamo tradito la nostra vocazione regionalista a differenza di Berlino. Una crisi cambierà la faccia dell’Europa»
Intervista a Franco Cardini di Alessandro Giorgiutti, pubblicata su “Libero” lunedì 9.10.2017.
Con lo sguardo dello «storico impuro, che non è mai rifuggito da sfide e magari trappole o provocazioni», come ha scritto di sé una volta, Franco Cardini vede nel riemergere degli indipendentismi la possibilità di un’Europa diversa da quella immaginata e costruita finora.
L’interpretazione più diffusa del recente referendum catalano sottolinea lo scontro tra regione e Stato centrale per il controllo delle risorse fiscali.
«Certamente questo aspetto conta moltissimo, fin da quando la Corte costituzionale madrilena sancì che l’autonomia catalana non si estendeva al campo economico-finanziario. La Catalogna, che da sola rappresenta il 20 per cento del Pil spagnolo, avanza la stessa obiezione mossa da croati e sloveni nell’allora Jugoslavia e dalla Lega in Italia: perché dobbiamo pagare anche per gli altri?»[1]
La crisi istituzionale è quindi solo figlia della crisi economica?
«Sarebbe sbagliato fermarsi a questa lettura. Specialmente per chi, come me, non crede nel primato dell’economia ma è un fautore del primato della politica e dell’etica.[2] Dietro il referendum catalano si agitano questioni cruciali: la domanda su che cosa sia una nazione, su quale rapporto debba esserci tra governi, nazioni e popoli… Tutti temi dei quali si dovrebbe discutere. In pochi hann o notato, peraltro, che il nazionalismo catalano non è isolato come sembra».
Che cosa intende dire?
«Be’, vicino ai catalani ci sono i valenciani e i balearici…[3] L’indipendentismo catalano si inserisce in una fascia che dai Medi Pirenei, dalla Repubblica di Andorra, scende fin qua- si all’Andalusia. Non basta: a nord dei catalani, ecco i provenzali, con cui i primi condividono una identità occitana che trova espressione in lingue affini, tradizioni comuni (l’amore per le corride, ad esempio) e una stessa bandiera, a strisce gialle e rosse».
Ma l’Europa può permettersi di riconoscere queste nuove/antiche identità?
«Se esistesse un’unità politica europea, le autonomie potrebbero trovare un loro posto al suo interno. Invece, prima ci hanno fatto credere che si sarebbe fatta l’unione politica con le nazioni uscite dal mondo sette-ottocentesco, poi ci siamo accorti che l’unione in realtà non sarebbe mai stata politica ma sarebbe rimasta quella che è ora: una unione doganale, economica, finanziaria, e nient’altro».
Un destino ineluttabile?
«Sono convinto, da professore di storia, che ci stiamo avviando verso un periodo di crisi, che potrà essere molto lunga ma che potrebbe aprire fronti che oggi non si sospettano neppure. Da questa crisi usciremo non so in quale direzione, non so se andando avanti o tornando indietro, co- me amano dire molti miei colleghi. Ma insomma, perché non immaginare la nascita di una diversa idea d’Europa, non più costituita esclusivamente, o prevalentemente, dagli Stati nazionali? Un’Europa che riscopra valori storici profondi, che erano stati dimenticati e che sono riemersi? Vede, certe cose diventano vere quando qualcuno ci crede. Oggi gli indipendentismi possono sembrare utopie, domani potrebbero diventare una realtà. Nel 1916 Lenin era solo un illuso, Trockji un signor nessuno e Mussolini un soldato che in trincea teneva un diario, peraltro molto ben scritto. Ragazzacci eversivi, assai improbabili come classe dirigente. Eppure, pochi anni dopo…»
C’è chi un tramonto dello Stato nazionale l’ha non solo annunciato ma auspicato. Richiamandosi al politologo Philippe Schmitter, già nel 2000 l’allora presidente del Consiglio Giuliano Amato immaginava un’unione europea capace di ripensare il concetto stesso di sovranità, presentandosi come espressione di un ordine post statuale, un’architettura complessa di autorità su diversi livelli, con competenze ambigue e condivise. La parentesi dello Stato nazione si stava per chiudere, saremmo tornati al Medio Evo.
«Non mi convince l’etichetta di Medio Evo, appiccicata fra l’ironico e il terroristico. Il Medio Evo aveva di qualificante, fondamentale e irrinunciabile la visione metafisica, l’ordinamento di tutti i valori alla metafisica. Quello prefigurato da Amato, invece, è un Medio Evo laicizzato, che so- miglia molto a una giungla. O a una prateria percorsa da cowboy».
Anche in Italia si parla di autonomie. Il 22 ottobre in Lombardia e Veneto si terrà un referendum per chiedere di gestire maggiori risorse. Ma forse, anche qui, i problemi vengono da lontano e chiamano in causa il Risorgimento, il modo in cui fu realizzata la nostra unità.
«L’unità fu l’esito di un accordo tra un potere politico virtualmente tirannico e reazionario, e perfino arcicattolico, come quello dei Savoia, e l’estrema sinistra giacobina di mazziniani e garibaldini. Questo pateracchio innaturale trovò un punto di convergenza nell’adozione di un modello, il centralismo di Napoleone III, che calpestava i patriottismi locali. Provenzali, bretoni, normanni, borgognoni-lorenesi, dai colpi ricevuti allora non si sono più rialzati».
Abbiamo dunque scelto un modello sbagliato, un abito che non ci andava a misura?
«Italia e Spagna sono realtà fortemente, vorrei quasi dire vocazionisticamente, policentriche, predisposte naturalmente al federalismo anche per la loro stessa conformazione idro-orografica. Se si tradisce questa realtà, si tradisce la loro stessa storia: una storia di comuni, signorie, liberi fueros, città stato, piccole o medie monarchie che s’accordavano tra loro oppure si facevano la guerra… Oggi, in Spagna, il modello centralistico è in discussione, e per la verità lo è fin dalla morte di Francisco Franco (e in misura minore lo è stato anche prima: pensi all’attentato all’ammiraglio Carrero Blanco, ucciso dall’Eta). Nell’interregno dopo la morte di Franco, il ruolo decisivo nell’elaborare la nuova costituzione fu giocato da re Juan Carlos e dall’ultimo segretario del movimiento falangista, Adolfo Suarez, peraltro politico fine ed equilibrato. Ma sulle autonomie la Carta rimase molto cauta».
Una via alternativa al centralismo napoleonico esisteva: quella tedesca.
«La Germania scelse una via senza dubbio autoritaria. Ma l’Impero degli Hohenzollern non toccò mai le libertà locali, il federalismo effettivo ereditato dal Medio Evo: dalle grandi realtà statuali come la Prussia e la Baviera, fino alle piccole città stato. La camera bassa del Secondo Reich era un parlamento solo parzialmente eletto, dominato dal Kaiser e con un potere consultivo; ma era uno specchio fedelissimo di questa realtà policentrica, come lo era il parlamento dell’Impero austroungarico nato dalla riforma del 1867, dopo la guerra austro-prussiana. Lì, insomma, si è operato veramente sulla scia della storia, e questo rimase vero per la Repubblica di Weimar, per la Repubblica federale e, a suo modo, anche per la Repubblica democratica. L’unico che provò a staccarsi da questa tradizione fu Hitler, ma piuttosto timidamente: eliminò i Länder sostituendoli con i Gaue, province più piccole e meglio controllabili, alla cui testa mise un Gauleiter, che era, insieme, prefetto dello Stato e federale del partito. Ma nemmeno egli osò mai intaccare radicalmente le libertà locali nella loro sostanza».[4]
Sul riconoscimento delle istanze indipendentiste l’Europa è apparsa nel tempo schizofrenica: da un lato il Kosovo, dall’altro la Crimea.
«L’Europa è una unione di paesi senza vera sovranità. È cinico dirlo, ma senza sovranità militare non esiste sovranità diplomatica, quindi non c’è sovranità politica. I nostri politici accettano il diktat per cui, quando si entra nella Ue, automaticamente si entra nella Nato, cioè in una organizzazione militare i cui alti comandi sono extraeuropei: chiamiamolo, per pietosissima buona educazione, un paradosso. Ma è questo paradosso che spiega perché poi i separatismi vengano divisi in buoni e cattivi».
E i curdi d’Iraq, che hanno tenuto il loro referendum indipendentista il 25 settembre, qualche giorno prima della consultazione catalana, sono “buoni” o “cattivi”?
«Del trattamento riservato ai curdi dovremmo vergognarci. Le potenze vincitrici della prima guerra mondiale li punirono perché, a differenza degli arabi, agli agenti inglesi e francesi avevano risposto che non avrebbero abbandonato il Sultano. Così, a guerra finita, questo popolo di lingua ed etnia iranica, che ha una forte unità religiosa (sono islamici sunniti, con una piccola minoranza di sciiti) e che ha una unità territoriale ben delimitata, nonostante i proclami dell’allora presidente americano Wilson sull’autodeterminazione dei popoli, rimase senza Stato. Oggi, poi, nonostante il loro contributo alla guerra contro il Califfo, sono riusciti a mettere d’accordo contro di loro turchi, siriani, iracheni e iraniani».[5]
I vecchi equilibri nati nel Medio Oriente dopo la Grande Guerra sembrano comunque fragilissimi.
«In quell’area dopo la guerra fu imposto il modello nazionale, cui arabi, e poi turchi e persiani, si sono adeguati pur non avendolo mai sperimentato prima. Non è stato un successo. Ora il modello sembra essere quello delle realtà etnoreligiose. Ecco, quindi, che l’Iraq verrebbe spezzato in tre tronconi: curdi al nord, sunniti al centro e sciiti al sud. Un piano che serve ai sauditi per avere una testa di ponte iracheno-sunnita e alla Nato per disporre di una piattaforma dove piazzare i missili da puntare su Teheran».
[1] Va da sé che non concordo con questo modo d’intendere i rapporti interni di una società costituita. La crisi della solidarietà all’interno di una società è di per sé un fatto gravissimo. Come poi si siano costituiti gli stati nazionali è un altro discorso.
[2] A scanso di equivoci, chi scrive non è affatto un fautore tout court e sic et simpliciter delle pretese autonomistiche catalane e tantomeno ritiene corretto e opportuno ch’esse si trasformino in un progetto indipendentistico, vale a dire – fuor di metafore eufemistiche – secessionistico. Oltretutto, gli indipendentisti in Catalogna sono senza dubbio molti, ma non arrivano al 40%. Il che non toglie che forse la costituzione del ’78 sia suscettibile di aggiornamenti sui quali la società civile spagnola possa unanimemente riconoscersi nella diversità delle opinioni. L’invio della Guardia Civil da parte di Rajoy alla vigilia del referendum era giuridicamente legittimo, am politicamente inopportuno: Lucio Caracciolo fa opportunamente notare che gli indipendentisti avrebbero dovuto far un monumento al leader di Madrid. Stesso discorso per la minacciata misura costituzionale della sospensione dell’autonomia alla Catalogna come ritorsione: che esercitare misure legali sia cosa legittima da parte di un governo è fuori di dubbio, ma la prudenza e l’opportunità politica sono altra cosa.
[3] E’ stato notato al riguardo che valenciani e balearici non amano granché i loro cugini catalani. E’ vero: e per questo valenciani e catalani reagiscono talora alle scelte dei catalani preferendo restar solidali con il corpo civile spagnolo. Ciò non toglie che anche valenciani e balearici appartengoano all’universo occitanico che corrisponde a una di quelle che Sergio Salvi chiamerebbe “nazione negata”. Negata dallo sviluppo sette-novecentesco degli stati nazionali quale esso si è affermato.
[4] O, perlomeno, non osò molto a lungo farlo. Alla fine della guerra naturalmente questo quadro era mutato.
[5] Il risultato sarà, di questo passo, che i curdi finiranno per far il giovo degli USA e dell’attuale governo israeliano.