EFEMERIDI DEL CAOS
UN ALTRO IMBROGLIO?
Giungono dal mondo curdo-siriano, ormai al centro di quella che pare la fase finale della lotta contro il Daesh, notizie discordanti e un po’ confuse. Da una parte la città di Raqqa, ormai ultima roccaforte dei miliziani del califfo al-Baghdadi, sembrerebbe quasi completamente caduta (col tragico bilancio però di più di 3000 morti, la stragrande maggioranza civili) nelle mani del FSD, il complesso delle forze miste curde e siriane che operano a quel che sembra con l’appoggio statunitense e alle quali hanno dato un forte contributo le ormai leggendarie milizie femminili curde. Dall’altro, però, la città curdo-irakena di Kirkuk, nota per i suoi pozzi petroliferi, è stata attaccata da reparti militari irakeni e da milizie irakeno-sciite. L’attacco sarebbe la risposta del governo di Baghdad al referendum per un Kurdistan democratico indetto il 25 settembre scorso dal leader curdo-irakeno Massud Barzani e al quale hanno come sappiamo reagito negativamente – e coralmente – i quattro paesi che hanno al loro interno regioni curde: Turchia, Siria, Iraq e Iran. Il referendum curdo-irakeno ha messo in moto quattro governi uno dei quali, la Turchia, era e per molti versi resta in contrasto con gli altri tre. La convergenza, giustificata strumentalmente dal comune interesse a non favorire il cammino curdo verso l’indipendenza, è obiettivamente molto discutibile e politicamente costituisce un errore. I governi di Damasco, di Baghdad e di Teheran sono probabilmente caduti in un tranello volto a traghettare il mondo curdo da posizioni di parziale accordo e di sostanziale amicizia con loro – fermo restando che, fra le quattro potenze interessate al territorio curdo, la più ostile all’indipendenza curda era e resta la Turchia – e a rilanciare la strategia della destabilizzazione del Vicino Oriente ora che il Daesh ha evidentemente fallito allo scopo per il quale era stato creato, quello della creazione di un nuovo soggetto territoriale in grado di contribuire all’assedio politico (e, in prospettiva, militare) dell’Iran.Era chiaro fino dal 2014 che il califfo al-Gaghdadi puntava a enucleare dal corpo territoriale dell’Iraq un’entità politica irakeno-sunnita, posta al centro del paese dove gli arabo-sunniti sono la grandissima maggioranza, in modo da costituire una futura spina nel fianco dell’Iran e di sistemare alla frontiera con esso una congrua quantità di postazioni missilistiche. Per far ciò, si sarebbe dovuto smembrare definitivamente l’Iraq, oltre alla vicina Siria.
E’ stata la resistenza anti-Daesh, condotta soprattutto dalle milizie curde, dall’esercito regolare siriano e dai volontari iraniani, a battere sul terreno il califfo. La “grande coalizione” guidata dagli statunitensi ha condotto invece una straordinaria quantità di raids aerei (il presidente Obama non aveva intenzione di perdere più nemmeno un uomo nel Vicino Oriente, per paura di veder precipitare i consensi elettorali), dispendiosissimi e che si sono ridotti ad arare il deserto e a sterminare dei civili innocenti ma non hanno nemmeno scalfito le milizie del Desh. E’ una delle prime cose che insegnano in tutte le accademie militari, che una forza aerea da sola non può battere una forza terrestre se prima un’antagonista forza terrestre non l’ha obbligata a concentarsi in un’area territoriale circoscritta. D’altronde, le operazioni molto meno numerose e più limitate dell’aeronautica russa sono state ben più efficaci di quelle degli statunitensi e dei loro alleati, come si è visto nella liberazione di Mosul.
Ma Washington è corso ai ripari. Da parecchi mesi i servizi statunitensi hanno lavorato per convincere i curdo-irakeni a portar subito avanti le loro pretese indipendentiste. Un Irak curdo indipendente potrebbe evidentemente essere un modello catalizzatore per le altre tre aree curde, quella siriana, quella irakena e quella iraniana.
D’altronde, combattendo contro il Daesh, i curdi si sono guadagnati il diritto a un’indipendenza che sognano da un secolo. E proprio qui comincia la mistificazione di cattive ed errate costruzioni storico-politiche come quella messa in giro martedì 17 settembre sul “Corriere della Sera” dall’ineffabile, immarcescibile, intramontabile giornalista e saggista Bernard-Henri Lévy (internazionalmente noto come BHL), che instancabilmente si affanna a difendere tutte le scelte liberal-liberiste e occidentaliste possibili. BHL si è sempre schierato in prima linea nelle crisi internazionali: nei casi georgiano e quindi ucraino contro i russi, nell’aggressione alla Siria del 2011 contro Assad, sempre e comunque contro l’Iran. Le sue posizioni sono sempre concordi e funzionali con quelle dei neocons e theocons americani, del governo Nethanyahu, del regno arabo-saudita.
Ebbene: in che cosa consiste l’Appello diffuso da BHL sul “Corriere”? Molto semplice: stop immediato all’aggressione governativa al Kurdistan irakeno (il che sotto il profilo giuridico si sostiene un po’ a fatica. Dal punto di vista di Baghdad l’intervento militare è una questione interna all’Iraq, un po’ come un’eventuale azione – che Dio non voglia – di Madrid nei confronti della Catalogna sarebbe comunque un affare interno spagnolo). USA e Spagna denunzino la situazione ed eventualmente si chieda l’intervento delle Nazioni Unite. Così, in caso gli altri curdi si aggregassero alla causa di Barzani, si aprirebbe un nuovo grande focolaio di disordine e di destabilizzazione a danno di Iraq, Siria, Iran e magari anche di quella Turchia il cui leader Erdoğan sta un po’ troppo flirtando con Mosca e con Teheran per cercar un equilibrio. Un equilibrio che BHL e i suoi amici evidentemente non vogliono, dato che il loro obiettivo – condiviso da Bush, da Nethanyahu e dai sauditi – non è la pacificazione dell’area, ma la cerazione di crescenti difficoltà all’Iran. Questa la ragione per cui anche il governo israeliano ha espresso il suo appoggio agli indipendentisti curdo-irakeni.
La malafede di BHL raggiunge l’apice quando egli ipocritamente aggiunge che “per anni i curdi sono stati lasciati soli, su un fronte lungo mille chilometri, a svolgere le funzioni di nostro baluardo contro la barbarie”. Appunto: sono stati lasciati soli dal mondo occidentale e appoggiati, nella lotta al Daesh, quasi esclusivamente da siriani lealisti, dal governo di Damasco e da volontari iraniani. Ma c’è di più e di peggio. Nel 1918, quando si trattò (da parte delle potenze vittoriose e dei loro leaders, il presidente statunitense Wilson in testa. di liberare gli stati nazionali da secolari catene in seguito alla vittoria del mondo liberale sugli imperi, i curdi – che da buoni sunniti si erano rifiutati di cedere alle provocazioni britanniche che li incitavano a ribellerasi al sultano d’Istanbul come avevano fatto gli arabi – furono appunto puniti con la divisione in quattro parti del loro territorio nazionale, assegnato a quattro stati diversi. Negli Anni Settanta, durante la “guerra dimenticata” fra Irak e Iran – nella quale gli occidentali appoggiavano Saddam Hussein – lasciammo che il dittatore di Baghdad bombardasse e gasasse tranquillamente i curdi: era nostro alleato contro lo “stato-canaglia” di Khomeini.
Ma, ora che serve, ecco che la causa per anni dimenticata dell’unità e della libertà dei curdi viene accolta e fatta propria da Trump e dai suoi alleati di fatto sul fronte vicino-orientale, israeliani e sauditi. Una spudoratezza incredibile, un cinismo ignobile. All’errore di Siria, Irak e Iran, che dell’indipendenza curda dovrebbero farsi sostenitori a costo di sostenere il costo apparentemente alto di una diminuzione della loro sovranità territoriale, si affianca il cinismo del governo statunitense e dei suoi complici. L’obiettivo è sempre e comunque l’Iran: pur di creargli difficoltà, ora che il Daesh si sta esaurendo dopo aver solo in modesta misura compiuto la funzione per al quale i suoi mandanti e finanziatori lo avevano creato e sostenuto, si creino pure altri fronti, si suscitino altri focolai di destabilizzazione. Ma così il risultato sarà solo un incremento a una guerra sempre più dilagante. E’ evidente che tale è lo scopo di lorsignori. FC