EFEMERIDI DEL CAOS
FUNERALE IN CAMICIA NERA
Chissà dove mai sono finite le mie copie dei romanzi che “Giovannino” Guareschi ha dedicato tra gli Anni Quaranta e gli Anni Cinquanta a Don Camillo. Li avevo tutti e li avevo letti ripetutamente. Per me, “ragazzo di San Frediano” nato nel 1940 in una famiglia rossa della rossa Firenze – ma con la nonna cattolica di ferro e lo zio “fascista di sinistra” alla Berto Ricci, che mi avevano lasciato entrambi più di qualcosa – e cresciuto nel clima della Guerra Fredda, quelle storie della Bassa Padana parlavano un linguaggio noto e familiare. Mi ricordo, in particolare, la pagina della morte della maestra di Brescello, la vecchietta che aveva cercato disperatamente d’insegnar qualcosa a quella zucca dura di Bottazzi Giuseppe, più tardi l’indimenticabile “sindaco Peppone” dai baffi alla Stalin cui Gino Cervi dette un’indimenticabile maschera cinematografica.
In punto di morte, la maestra aveva preteso funerali religiosi e tricolore con tanto di croce sabauda sulla bara. Scandalo e bufera nel piccolo comune rosso. Alla fine, il sindaco Peppone salomonicamente sentenzia: come sindaco, non può certo consentire lo spettacolo reazionario di esequie clericali e monarchiche. Ma, aggiunge, qui non comanda il sindaco: comandano i comunisti. E, come capo dei comunisti, Bottazzi Giuseppe sentenzia che la sua vecchia maestra il funerale col tricolore sabaudo ce l’avrà eccome, e guai a chi s’intromette.
Storie forse vere forse no, comunque plausibili ed esemplari d’una vecchia Italia che non c’è più. Un’Italia certo più semplice e ingenua, forse però anche molto più pulita di quella di adesso.
In questi giorni l’Italia sembra attraversata da una nuova ondata d’isteria: da una parte rivendicazioni “nostalgiche”, dall’altra rivendicazioni “reistenziali”. Isteriche e patetiche, le une e le altre. Fuori luogo, comunque.
Eppure, ancora qualche anno fa, Luciano Violante poteva dalla sua sponda politica rendere omaggio alla buonafede dei “ragazzi di Salò” e due vecchi socialisti come Roberto Vivarelli e Carlo Mazzantini potevano pubblicare due apprezzati libretti di memorie in entrambi i quali, con semplicità, senza iattanza e al di là di qualunque provocazione, nel dichiarare il loro sincero rispetto per i partigiani che avevano combattuto fra ’43 e ’45 “per la Libertà”, rivendicavano la dignità del loro passato di adolescenti “repubblichini” che avevano preso le armi “per l’Onore”. Credevamo di esser giunti a un ragionevole accordo sulla storicizzazione del nostro passato, al di là dell’ipotesi forse utopica della “memoria collettiva” e nei limiti d’una legittima “elaborazione del lutto” che, rispettando e ribadendo differenze e distinzioni, concedesse comunque spazio a un necessario rispetto reciproco, a una legittima reciproca comprensione che non può affatto confondersi con una superficiale e banale cancellazione delle responsabilità. Restiamo pure diversi fra noi, ma impariamo a rispettare la differenza dell’altro e ad esigere rispetto della nostra.
Forse è vero che, in quella tragica guerra civile del 1943-1945 che molti ancora si rifiutano di riconoscere come tale, assistemmo alla “morte della Patria”. Ma era e resta necessario, anzi doveroso, presentare quanto meno le armi dinanzi a una tanto illustre defunta. Da questi vecchi ricordi affidati alle pagine di Mazzantini e di Vivarelli (e d’infiniti altri, dalle molte parti della barricata: molti, dal momento che né il fronte “fascista” né quello “antifascista” furono univoci e unitari, al contrario!) spira un equilibrio morale che, ormai, nei rigurgiti di polemiche nate dalla confusione mentale e dal demagogismo elettoralistico, pare scomparso. Oggi, agli isterici che distribuiscono provocatòri saluti fascisti e minacciano ridicole neomarce su Roma rispondono altri isterici che chiedono provvedimenti legislativi liberticidi nel nome della libertà e che invocano la mutilazione di monumenti storici responsabili, in realtà, solo di essere quello che sono: vale a dire, appunto, monumenti storici. Un neofascismo cialtrone contro un neoantifascismo grottesco, che ci fanno riflettere su quante ragioni avesse Ennio Flaiano quando dichiarava che ci sono due tipi di fascismo, il fascismo e l’antifascismo.
Ebbene: risaliamo dal gorgo di queste brutture, riaffioriamo in più spirabil aere. Rientriamo nel mondo della civiltà e della dignità. Pochi giorni fa un anziano signore che ha vissuto per lunghi decenni in modo integerrimo, un cittadino e un professionista esemplare, è giunto al momento estremo della vita. E si è fermato sulla soglia, a meditare sul senso della sua esistenza: sulle sue illusioni di ragazzo, in particolare sulla sua fedeltà conservata intatta non a quel che un’idea politica e il partito che la rappresentava furono in realtà, ma a quel che essi sostenevano e pretendevano di essere e che egli aveva creduto che fossero. Fedeltà ai valori di dedizione alla patria, che vuol dire di subordinazione della propria esistenza alla vita della comunità civile di cui si fa parte; fedeltà ai valori di onore e di coerenza, che vuol dire fedeltà al senso dello stato e all’aspirazione magari ingenua a veder crescere giorno dietro giorno il proprio paese in dignità, in forza, in autorevolezza di fronte al consesso delle nazioni.
Il fascismo, nella sua realtà, non fu certo tutto ciò: o lo fu solo in parte, infine fallendo ai suoi scopi. Diciamo pure che il “fascismo reale” fu un sistema politico che si resse in buona parte sulla repressione, sul conformismo e sull’ipocrisia; e che rovinò in un immenso fallimento. Potremmo dire la stessa cosa del “comunismo reale”. Ma ciò nulla toglie al rispetto dovuto ai tanti che – accanto ai troppi ipocriti, profittatori, criminali e voltagabbana – restarono fedeli a quella tensione ideale, a quel che quei movimenti e quelle idee pretendevano di essere e che essi avevano creduto che fossero.
Un anziano signore che per tutta la vita, pur nel dolore del disincanto per ciò che in effetti è stato, ha mantenuto fede a quei magari traditi e disattesi valori con dignità, disinteressatamente, sempre pagando di persona, conferma ora la sua testimonianza e chiede ch’essa sia onorata. Dispone dunque di esser sepolto come, dentro di sé, ha sempre vissuto. In camicia nera.
Le ultime volontà di chi si congeda da questo mondo sono sacre e debbono essere rispettate. Ricordiamolo con Giovanbattista Vico e con Ugo Foscolo: sono “nozze e tribunali ed are” i tre valori che consentono all’essere umano di uscire dalla foresta della bestialità e di costruire la civiltà. E tra le are, gli altari, hanno posto anche le tombe.
Può darsi che la camicia nera sia stata obiettivamente un simbolo di violenza e di tirannia. Ma per molti che la indossarono con onestà, a testa alta e in buona fede, non fu così. Per loro fu una bandiera. Rendiamo onore a questo nostro compatriota che prende congedo da noi com’è sempre vissuto: “con la coscienza pura”, secondo la parole dedicate anni fa da Fabrizio de André a Luigi Tenco. Non è il colore della sua camicia, non sono le sue idee poltiche, non sono le sue illusioni: è il modello della sua testimonianza che noi onoriamo.
FC