Minima Cardiniana 190/2

Domenica 3 dicembre 2017 – Prima domenica d’Avvento

2 . BIRMANIA, LA FATICA DELLA GIUSTIZIA

Poche riflessioni sul “caso-Birmania”, in relazione alla recentissima visita di papa Bergoglio  in quel paese.

Si fa presto a parlare di diritti dell’uomo, di rispetto per tutti, di pace, di tolleranza. Queste cose, quando vengono trattate sul serio, concretamente, caso per caso, divengono come la “pelle di zigrino” del noto racconto di Honoré de Balzac: ogni volta che cerchi di rimediarvi da una parte, si restringono dall’altra. E nessuno è mai innocente, nessuno può chiamarsi fuori.

Il papa lo sa. Viene da una terra difficile, che per anni è stata teatro di una feroce guerra civile: una guerra assurda, combattuta addirittura formalmente all’interno dello stesso schieramento politico perché nell’Argentina degli Anni Settanta tutti si dicevano peronisti. Qui, in questo Myanmar immerso in una lunga convalescenza dopo una dittatura militare tanto spietata quanto indisturbata e impunita (o che comunque troppo a lungo è stata tale), nulla forse c’è di più difficile di mettere a nudo le sacche residue d’ingiustizia e di assurdità.

I rohingya sono un po’ come i musulmani del Gujarat, perseguitati e massacrati dagli indù. E’ noto, e lo sanno tutti, che i fedeli di Muhammad sono dei persecutori, non dei perseguitati; degli oppressori, non degli oppressi. Anche da noi, nella nostra storia europea, sono in tanti a sapere di quel che i musulmani dovettero sopportare prima in Sicilia (dal pur “islamofilo” Federico II…), quindi in Puglia dove gli angioini massacrarono la comunità di Lucera, e infine nella Spagna dei re cattolici e di Filippo II che li obbligò a convertirsi e quindi li cacciò comunque: ma ci si stringe nella spalle. Vabbè, nella storia c’è sempre qualcuno che ci rimette…

Aung San Suu Kyi, con il suo Premio Nobel per la Pace, guadagnato nel 1991 (e non certo regalato in anticipo, come in altri casi è accaduto…), è ancora un personaggio fra i più rispettati. Il suo libro, Liberazione dalla paura, è una testimonianza esemplare del suo coraggio e della dedizione alla figura del suo grande padre, l’eroe nazionale assassinato settant’anni or sono.

Ma la tragedia dei musulmani rohingya che vivevano nell’area occidentale del Myanmar, nel Rakhine, e che sono stati fatti oggetto di violenze che rasentano il genocidio e oltre 600.000 dei quali sono dovuti fuggire in Bangladesh dove vivono in condizioni miserabili sotto l’occhio distratto di un mondo che si disinteressa a loro, quella tragedia è qualcosa di più di una sconfitta per lei. E’ una macchia sul suo onore, sulla sua vita, sulla missione che si era assunta.

Forse, la sua vera debolezza è stata quella di non denunziare la situazione in cui si è trovata a dover partecipare al governo di un paese che ha continuato a non esser libero. Prigioniera per anni di un regime che la condannava al domicilio coatto, Aung San Suu Kyi si è poi trovata prigioniera della sua fama, del suo carisma. Attorno a lei, e magari perfino abusando del suo nome, si è perpetrata una dura “pulizia etnica”. Il Segretario di Stato americano l’ha denunziata da poco: ma egli stesso, e il suo governo, lo hanno scoperto solo adesso? Da anni le organizzazioni internazionali musulmane parlavano dei rohingya: ma, si sa, i musulmani sono tutti dei terroristi o della gente che ai terroristi reggono il sacco, e se denunziano qualcosa lo fanno perché sono dei “complottisti”…

Ora, tutti ce l’hanno con Aung San Suu Kyi: perché ha taciuto, ed è troppo comodo adesso chiedere al papa comprensione per la difficile situazione del suo paese e citare le Beatitudini evangeliche. Ora, il comune di Oxford ritira la decorazione che le aveva concesso. Peraltro, lei sa bene in che tipo di paese si trova a governare in coabitazione con il presidente Htin Kyaw: è sposata con un britannico, il che secondo la costituzione del paese le impedisce di ricoprire la carica suprema. Ma questo dice anche quale tipo di paese è il Myanmar: stretto da un nazionalismo timoroso di essere travolto da giganti vicini come la Cina, l’India e il Pakistan. O di perdere quella che è stata eletta a religione nazionale, il buddhismo, a favore di altre fedi. La stessa minoranza cristiana si sente in pericolo, ed è la ragione per la quale il papa non poteva spingersi troppo oltre nel denunziare il massacro. Se non altro, il suo viaggio e le sue parole sono servite a ricordare a un Occidente buono soprattutto a commuoversi a comando che una pulizia etnica gravissima è in corso e che non la si può ignorare soltanto perché è lontana dai nostri interessi immediati e non li lede.

E magari anche a guardarsi dall’eleggere eroi, come aveva fatto a suo tempo con Aung San Suu Kyi con grande trionfalismo, quando non costa nulla, per poi pentirsene un attimo dopo. Invece che distribuire e togliere premi, bisognerebbe imparare a riflettere con maggiore profondità sui problemi e i conflitti in corso, anche quando ci paiono lontani.

Sempre sul viaggio in Birmania, per dovere di cronaca registro malumori e dicerìe diffuse. Il papa non sarebbe andato in Birmania per i rohingya né per altro, ma per tutelare gli interessi petroliferi americani. Non griderò al complottismo o roba del genere; mi chiedo solo se per caso a qualcuno sembri strano che il papa faccia il papa. Non che sia un papa “peronista”, per carità: questo lo credono soltanto certe “anime belle”. A meno che non sia davvero un servo del demonio e un precursore dell’Anticristo, come viceversa insegnano alcuni Dotti Teologi della Domenica.