Domenica 10 dicembre – II domenica d’Avvento
E’ impressionante e commovente l’apparato liturgico-scritturale della messa di oggi: dalla lettura tratta dal profeta Isaia, 40, 1-5, 9-11, con quel “parlate al cuore di Gerusalemme” che, letto nel contesto della crisi di questi giorni appare davvero enigmatico, alla seconda lettera di san Pietro, 3. 8-14, con quella rappresentazione del “giorno del Signore” tanto violenta quanto precisa, che ha l’autentico sapore di un cataclisma nucleare (“…allora i cieli spariranno in un grande boato, gli elementi consumati da calore si dissolveranno e la terra con tutte le opere sarà distrutta”).
EFFEMERIDI DEL CAOS
UN GIOCO PERICOLOSO
Ricordo bene, come tutti coloro che lo hanno vissuto, quel 1967. Dopo una serie d’incidenti di confine e il ritiro delle truppe ONU dalla “striscia di Gaza” (mezzo secolo fa: e siamo ancora al punto di allora: se non peggio!) e l’annunzio della chiusura del golfo di Elath-Aqaba da parte dell’Egitto – che ancora di denominava Repubblica Araba Unita, per quanto il progetto di Anschluss egiziano-siriano-irakeno fosse fallito –, scoppiò rapida e feroce la “Guerra dei Sei Giorni”. Sola contro le soverchianti forze di Egitto, Siria e Giordania, Israele sbaragliò tra il 5 e il 10 giugno la lega nemica, conquistò la parte orientale di Gerusalemme (comprendente l’intera città antica, chiusa nelle cinquecentesche “mura di Solimano”), la Giudea, la Samaria e una parte della Galilea (vale a dire i territori ad ovest del fiume Giordano che nel 1950 erano stati occupati da re Abdullah I di Giordania) e l’intera penisola del Sinai fino al canale di Suez.Si poteva essere pro o contro lo stato d’Israele; si poteva approvare o avversare la sua politica: ma certo, quel formidabile exploit ci lasciò tutti ammirati; e fu davvero commovente il pianto del ministro-generale Moshe Dayan e dei suoi soldati giunti dinanzi al “Muro Occidentale” mèta bimillenaria della aliyah, il pellegrinaggio ebraico.
“Gerusalemme, piccolo fiore sulla roccia”: questa definizione, molto azzeccata se riferita alla città antica, chiusa tra le sue mura, si deve al cantautore italo-belga Salvatore Adamo, che all’evento dedicò una sua ispirata canzone, Insh’Allah! Sul momento, comunque, il mondo intero sperò in una pace ragionevole e in un rapido accordo tra Israele e il mondo arabo. Non fu così. Anzi, da allora nacque il problema di quelle aree (Giudea, Samaria, Galilea; e, distaccata dal resto, la “striscia di Gaza” sulla costa) popolate da arabo-palestinesi, che gli israeliani sostenevano (e sostengono) di dover controllare per ragioni di sicurezza strategica mentre la comunità internazionale, rappresentata dall’ONU, le considera “territori occupati”.
Facciamo un passo indietro. Il 9 novembre del 1949 l’ONU aveva votato una risoluzione che confermava a Gerusalemme lo status di città internazionale. Tuttavia israeliani e transgiordani, tacitamente concordi, preferivano concordare la spartizione dell’area cittadina tra loro anziché demandarla ad altri: così, il governo d’Israele cominciò a prendere provvedimenti – come il trasferimento del Parlamento, la Knesset – per spostare la capitale da Tel Aviv (la “Collina della Primavera”, città ebraica fondata ai primi del Novecento dai coloni attorno al centro storico della città araba di Giaffa) alla Città Santa. In quattro anni tutti gli uffici governativi si sarebbero spostati: ma già fino dal ’50 Gerusalemme era stata proclamata nuova capitale, per quanto la comunità internazionale non accettasse tale misura e continuasse a inviare a Tel Aviv i suoi ambasciatori.
Le autorità israeliane, che non hanno creato uno status speciale per gli arabi di Gerusalemme che non si sono spostati nei confini dei territori che esse considerano “controllati” (e la comunità internazionale “occupati”), ma hanno preferito restare nella loro città: essi sono ritenuti “residenti in Gerusalemme” e godono del diritto di residenza – ovviamente diverso da quello di cittadinanza – anche da quando la Città Santa è stata da esse dichiarata, nel 1980, “unita e indivisa capitale dello stato d’Israele”. In risposta l’Assemblea Generale dell’ONU, che già con la risoluzione 242 aveva invitato Israele a rientrare nei confini statuali anteriori alla guerra del giugno ’67, con la nuova risoluzione 478 ha proclamato la dichiarazione del governo israeliano “nulla e priva di validità”: e, in quanto tale violazione del diritto internazionale.
Tuttavia, alle due risoluzioni dell’ONU mai è stato dato un seguito militare per costringere lo stato ad esse interessato a ottemperarvi (in altre situazioni, ciò è accaduto: si pensi all’Iraq nel 2003) in quanto un membro permanente del Consiglio di Sicurezza che controlla l’Assemblea Generale, gli USA, ha opposto a ciò il suo “diritto di Veto”. Ma, in seguito all’unilaterale dichiarazione d’Israele nel 1988, re Hussein di Giordania – al quale spettava in linea formale la sovranità su Gerusalemme e sulle aree a ovest del Giordano da suo padre occupate del ’50 – rinunziò ad essa lasciando così i cittadini palestinesi privi di una qualunque cittadinanza ufficiale. Contestualmente, nel novembre di quel medesimo anno, il Consiglio Nazionale Palestinese riunito in Algeri procedeva al formale riconoscimento dello stato d’Israele e proclamava nel contempo lo Stato indipendente di Palestina con capitale Gerusalemme: un’istituzione che il governo israeliano rifiutava di riconoscere, mentre Israele e i territori occupati erano sconvolti dalla rivolta dei palestinesi, l’Intifada.
Israele non si è mai opposta formalmente al progetto palestinese, a parte la questione di Gerusalemme capitale: il governo israeliano si è sempre limitato a dichiarare che la sua recessione da quello che esso chiama il “controllo” (e gli altri definiscono “occupazione”) dei territori palestinesi sarà successiva a un accordo bilaterale tra le parti: nessuna mediazione, a cominciare da quella – che parrebbe ovvia e legittima dell’ONU – è stata al riguardo accettata, né fino ad oggi le trattative tra il governo israeliano trasferito da Tel Aviv a Gerusalemme e la cosiddetta “Authority palestinese” (distinta in due “governi” tra loro in rapporti non sempre né del tutto amichevoli: quello di Betlemme-Ramallah-Gerico guidato dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina erede dell’al-Fatha di Arafat e quello di Gaza guidato dal partito Hamas) sono giunte a risultati apprezzabili. Anzi, si è ormai da anni a una situazione di stallo: Israele ha accolto addirittura con disappunto l’ingresso dello stato palestinese, sia pure come semplice “osservatore”, all’interno dell’ONU.
Sono stati formulati, dal ’48 ad oggi, molti piani di spartizione della Città Santa: ancor oggi, all’unilaterale proclamazione israeliana, si risponde per esempio – ed è la proposta più volte formulata dalla Santa Sede – accettando la sovranità d’Israele per la città moderna ma proponendo che almeno un limitato settore orientale di essa venga ceduto al futuro stato palestinese quand’esso avrà raggiunto la piena indipendenza, mentre la “città storica”, o “antica”, che è ben delimitabile dalla sua stessa cinta muraria e ospita tutti i veri e propri “Luoghi Santi ebraici, cristiani e musulmani”, dovrebbe godere di una sua sovranità posta sotto la tutela e la garanzia delle Nazioni Unite. Ciò non lederebbe nella sostanza il principio israeliano di sovranità, verrebbe incontro alle richieste palestinesi e consentirebbe a tutti i popoli che afferiscono alle tre religioni abramitiche – ebrei, cristiani, musulmani – di visitare liberamente la Città Santa e di pregarvi.
Perché questo è il punto. La gebusea città di Sion, fondata forse nel XVIII secolo a.C. e conquistata verso l’XI-X secolo dagli ebrei (secondo il racconto biblico del quale sono protagonisti David e Salomone), si trasformò nella capitale del regno di Giuda tra X e VI secolo; gli ebrei persero la loro capitale e la loro libertà nel VII, al tempo del babilonese Nabuchodonosor; la recuperarono nel successivo grazie al Gran Re persiano Ciro, per nuovamente perderla però nel IV quando la città cadde sotto il dominio greco-siriaco dei seleucidi, quindi nel I d.C. allorché fu conquistata da Pompeo. Città turbolenta e indocile, Gerusalemme ribelle ai romani fu distrutta parzialmente una prima volta da Tito nel 70, totalmente nel 135 dall’imperatore Adriano: da allora e fino al VII secolo fu proibito agli ebrei di risiedervi, dal momento che gli imperatori romani – pagani prima, cristiani dal IV secolo d.C. – lo interdissero. Riammessi a risiedervi prima dai persiani fra 614 e 428, poi dagli arabi musulmani da quando essi nel 638 la conquistarono strappandola all’Impero Romano d’Oriente, gli ebrei vi furono cacciati di nuovo dai crociati nel 1099. L’emiro Saladino, che batté gli europei occidentali nel 1187, li richiamò di nuovo: ed essi vi rimasero, ma in numero limitato, quando la città nel 1248 cadde sotto il dominio dei sultani mamelucchi d’Egitto e quando nel 1518 il dominio mamelucco fu sostituito con quello ottomano di Selim I, il sultano d’Istanbul.
Gli ottomani mantennero il dominio della Città Santa per quattro secoli, proteggendo anche le molte comunità cristiane ivi insediate ma concedendo sostanziosi favori agli ebrei, che cominciarono ad affluirvi in numero sempre maggiore a partire dall’Ottocento con la nascita del movimento sionista. I rapporti con la popolazione araba, sia musulmana che cristiana, furono tuttavia compromessi durante il regime del cosiddetto “mandato britannico”, fra 1918 e 1948. Da allora una moderna Gerusalemme ebraica, sotto il governo israeliano, si sviluppò a occidente dell’area urbana mentre ad oriente essa restava palestinese e tra 1950 e 1988 veniva governata dalla monarchia di Giordania. Il resto è storia ben nota: le varie intifade, il muro divisorio, le frequenti sollevazioni della popolazione araba quando sia o sembri compromessa l’entità dell’area delle moschee di Omar e al-Aqsa, principali “Luoghi Santi” musulmani della città che sorgono non lontani dalla cristiana basilica del Santo Sepolcro e dall’ebraico “Muro Occidentale”, reliquia dell’antico imponente tempio di Salomone distrutto da Adriano nel 135.
Che cos’accadrà adesso? Il presidente Trump aveva già da tempo preso le distanze dall’ONU, che mantiene le risoluzioni 242 e 478: tuttavia il suo paese, in quanto “membro permanente” del Consiglio di Sicurezza di tale organo internazionale, ha pieno diritto al mantenimento del Veto rispetto all’esecuzione di quelle risoluzioni. Il punto è che adesso è andato oltre: mentre tutti gli altri paesi del mondo, coerentemente con la scelta delle Nazioni Unite di cui fanno parte, continuano a non riconoscere Gerusalemme quale capitale dello stato ebraico e mantengono nella vecchia capitale, Tel Aviv, le loro ambasciate, il governo USA pare deciso a spostare la sua: quindi a riconoscere che Gerusalemme è “unita e indivisa”, pertanto esclusivamente capitale d’Israele. Ciò implica che, a tutt’oggi, USA e Israele negano ai palestinesi il diritto a riconoscer nella Città Santa anche la loro capitale (Santa Sede e regno d’Italia, nel ’29, si comportarono con maggior moderazione e reciproco vantaggio). Oggi siamo comunque dinanzi a un problema inedito che ha dell’assurdo: il presidente Trump, capo di uno stato, gli USA, garante dell’operato delle Nazioni Unite anche se e quando esercita il suo diritto di Veto nei confronti di una particolare delibera, è la stessa persona che, con la recentissima presa di posizione, si è opposta all’organismo internazionale che dovebbe sostenere e tutelare. Il riconoscimento della pretesa unilaterale di Israele è un autentico voltafaccia.
Certo, il fatto che Gerusalemme sia stata proclamata capitale di uno stato ebraico non significa ch’essa appartenga esclusivamente all’ebraismo. Questa distinzione è molto importante. Gerusalemme è la Città Santa della tre grandi religioni abramitiche: dell’ebraismo, del cristianesimo e dell’Islam. Nessuno può dubitare del fatto che Israele rispetterà questo carattere sacro plurireligioso. Si potevano temere reazioni più dure da parte musulmana? E da parte della Santa Sede? Per il momento, la risposta è stata piuttosto debole: una schermaglia di basso profilo fra il turco Erdogan e l’israeliano Nethanyahu, una presa di posizione poco più che formale da parte dell’Arabia saudita che notoriamente non ama Israele ma ch’è alleata sicura del principale alleato di esso, vale a dire degli USA.
Auguriamoci che nessuno stato (a cominciare dall’Italia) segua l’esempio di Trump. In questo modo il vulnus internazionale resterà contenuto. Guai se altri paesi europei seguissero l’incauto esempio: guai se potesse configurarsi qualcosa che il fondamentalismo musulmano fosse suscettibile di poter interpretare come una nuova mossa ostile dell’Occidente unito contro l’Islam. Le conseguenze, sul piano del terrorismo, potrebbero essere gravi. Ma anche così, la mossa di Trump va nella direzione del rafforzamento dell’ asse Washington-Gerusalemme che non resterà privo di conseguenze sul piano internazionale: a cominciare da un ulteriore rafforzarsi dell’altro asse, quello Mosca-Teheran-Damasco, al quale potrebbero collegarsi altri paesi musulmani e la stessa India. L’equilibrio nucleare appare già debole e compromesso: questo “strappo” diplomatico proprio non ci voleva e non giova a nessuno, nemmeno a Israele. A meno che non ci sia nel mondo qualcuno sempre più tentato di portare il gioco sino ai limiti estremi. Auguriamoci di no.
Intanto, quanto a quel che sta accadendo, verrebbe voglia di dire che tutto è come da copione. Ma allora qualcuno chiederebbe subito dov’è il copione, chi lo ha scritto, chi deve recitarlo: e magari si scivolerebbe sulla solita buccia di banana del complottismo. I piedi, invece, è bene tenerli saldamente per terra: dal momento che la situazione è, sotto il profilo storico e politico, maledettamente interessante. Cioè molto seria: per quanto non al si possa ancor definire grave.
Anzi, a dirla tutta come sta, potrebbe trattarsi dei soliti fuochi di paglia. Finora, tutto scontato. Manifestazioni in Cisgiordania e nella “striscia di Gaza”, bandiere statunitensi e israeliane incendiate, poster di Trump e di Nethanyahu dati alle fiamme, voci (non confermate) di missili che sarebbero stati indirizzati contro il territorio israeliano e, come sempre, efficacemente intercettati dallo scudo protettivo Iron Dome. Mobilitazione straordinaria delle forze armate israeliane, pressioni sui confini dei “territori occupati”, arrivo di marines nel Vicino Oriente per tutelare le sedi diplomatiche USA. Dichiarazioni dei paesi arabi e musulmani che vanno dal preoccupato all’incandescente, controdichiarazioni trionfalistiche del governo di Gerusalemme che registra come alcuni paesi (ma per ora si parla solo di Filippine e di repubblica ceca) avrebbero deciso di seguire l’esempio statunitense o addirittura di bruciare i tempi anticipandolo. Ma fra il dire e il fare c’è di mezzo un mare ben più largo di quello di Levante o del Mar Rosso. Probabilmente il can-can delle manifestazioni e delle prese di posizione, anche drammatiche, durerà qualche giorno: poi da qualche parte scoppierà un’altra bomba, oppure ci sarà un crack di borsa, o magari avremo un grande evento sportivo di portata internazionale: e volteremo pagina, salvo poi tornar a Gerusalemme alla prossima occasione. L’opinione pubblica mondiale è labile, la coscienza civica superficiale, la memoria corta: e il sistema d’informazione/disinformazione molto manipolabile. D’altronde, lo spostamento di un’ambasciata è una faccenda lunga, delicata, complessa, che richiederà tempo e che i suoi eventuali protagonisti hanno tutto l’interesse a tirar per le lunghe e a far passare il più possibile inosservata. Insomma, finora non siamo a nulla di più della normale amministrazione, magari un po’ isterizzata dai media che, si sa, debbon pur fare il loro mestiere.
Comunque, un consiglio: non fatevi distrarre dalle notizie “di colore”, anche da quelle drammatiche. Ci saranno forse scontri, forse episodi anche gravi di antisemitismo o di terrorismo, chissà che non ci scappi – che Dio non voglia – anche qualche morto. E’ evidente che sono in parecchi a sperare in qualche fatto che sposti l’attenzione dell’opinione pubblica dal fatto politicamente e diplomaticamente serio e grave ai più vari eventi-civetta, che faranno scivolare il dibattito (se non il litigio) verso orizzonti secondari: chi se la prenderà con l’Iran che auspica la riscossa palestinese (e come, con i “territori occupati” che quasi non esistono più, fagocitati dagli insediamenti dei coloni sionisti?), chi con Putin che gestisce freddamente il fronte antitrump e via discorrendo, di banalità in banalità.
Ma gli scenari politici e diplomatici veri e propri, quelli che contano, in che cosa si stanno modificando? Che cosa dobbiamo aspettarci? Salvo drammatici colpi di scena (che, sia chiaro, sono pur sempre possibili), il fatto è che la decisione di Trump ha segnato un salto di qualità nelle scelte del governo USA. Dal 1967 esso, in quanto membro permanente (insieme con Gran Bretagna, Francia, Russia, Cina) del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha “congelato” – esercitando il suo “diritto di Veto” – le risoluzioni 242 e 478 adottate dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che imponevano a Israele di rientrare nei confini anteriori alla guerra del 1967 e respingevano come illegittima sul piano del diritto internazionale la decisione del suo governo di dichiarare Gerusalemme “eterna e indivisa capitale dello stato ebraico”. La questione fondamentale, qui, era quella dell’indivisibilità: il governo israeliano, con ciò, si annetteva tutta la parte orientale del tessuto urbano di Gerusalemme, nel quale è insediata anche l’antica “città storica” con i suoi santuari, escludendo qualunque altra soluzione: sia quella dell’impianto su quel tessuto, in un’area anche territorialmente modestissima, di altre capitali (quella del futuro stato palestinese, ad esempio), sia dell’impianto al suo interno di un qualche regime di sovranità territoriale (ad esempio l’internazionalizzazione di alcuni santuari sotto la tutela e la garanzia dell’ONU). Nessuno teme che il governo dello stato ebraico intacchi minimamente i diritti di culto delle altre fedi: si ritiene tuttavia grave che i santuari cristiani e musulmani siano sottoposti all’esclusiva e insindacabile sovranità di esso.
Il parlamento statunitense, fino dal 1967, espresse avversione nei confronti delle risoluzioni ONU e si riservò il diritto di sancire lo spostamento della sua ambasciata da Te Aviv a Gerusalemme: ma, di sei mesi in sei mesi, tale decisione era stata sempre rimandata. Ora, lo “strappo” di Trump ha un significato preciso e dirompente: gli USA, che fino ad oggi gestendo il Veto a una risoluzione dell’ONU la bloccavano agendo legittimamente sul piano del diritto internazionale che accordava loro tale prerogativa, ora violano apertamente la volontà dell’Assemblea Generale dell’ONU della quale, in quanto membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, dovrebbero essere garanti. Il governo di Washington è in flagrante contraddizione con se stesso.
Ma che cosa mai potrà accadere se altri governi gli si accoderanno, decidendo a loro volta di spostare le loro ambasciate? Passi finché lo fano i cechi o i filippini. Ma se lo facesse qualche paese dell’Unione Europea e della NATO? E il pensiero – inutile nascondersi dietro un dito – corre immediatamente alla diplomazia italiana, che già in altri casi anche recenti e recentissimi si è dimostrata, come dire, “estremamente disponibile” (vi piace l’eufemismo?) nei confronti della linea diplomatica sia statunitense, sia israeliana. Date un’occhiata a blog e a twitter: qualcuno ad esempio in àmbito renziano dove allignano molti fan dei “falchi” americani o israeliani (e qualche manager che ci fa ricchi affari) , ha già entusiasticamente abbracciato questa per ora politicamente lontana e diplomaticamente avventuristica ipotesi. Quel che potrebbe entrare in ballo, a quel punto, sarebbe una spaccatura all’interno della compagine delle Nazioni Unite. Nel contesto di quel che sta accadendo, dal Vicino Oriente alla crisi aperta da 3. 8-14, missili nordcoreani, un’evenienza del genere sarebbe un altro passo avanti sulla via del salto nel vuoto. Non giochiamo con queste cose: non è proprio il caso.
In cauda venenum. Il gioco di Trump è stato considerato grossolano e imprudente. A me è parso e pare piuttosto cinico e opportunistico. Uno dei problemi degli USA di oggi sono il colossale debito. La mossa di Gerusalemme gli ha guadagnato molti buoni amici nel campo della finanza internazionale. Un aspetto della questione da tener presente e da non sottovalutare.