Minima Cardiniana 192

Domenica 17 novembre 2017 – III domenica d’Avvento

EFFEMERIDI DEL CAOS

CONTINUIAMO IL DISCORSO SULLA BIRMANIA

Ho scritto un paio di settimane fa in questa sede un piccolo commento a proposito  della visita del papa in Birmania e i musulmani rohingya, esprimendo solidarietà con loro e con il papa che li ha difesi. Ho ricevuto, da un lettore dei Minima Cardiniana, le generalità del quale non sono autorizzato a divulgare, una missiva che, esprimendo dissenso rispetto alle mie posizioni, le critica e propone altre prospettive in merito. Trasmetto tale missiva, integralmente trascritta, a chi sia interessato al problema: che, come qualunque altro, resta aperto. Come diceva il buon Renzo Tramaglino, “Posso aver fallato”. O magari no. O non proprio, o non del tutto. Fate un po’ voi…

 Gentile Professore,

sono un toscano di 43 anni che da 5 vive a metà fra la mia terra (Siena per la precisione) e la Birmania, dove ho un lavoro e dove mi trovo bene.

Leggo spesso e con molto interesse il suo blog, approvando quasi sempre quello che scrive, e mi chiedevo proprio che opinione avesse sulla questione dei Rohingya. Così quando ho visto il titolo “Birmania, la fatica della giustizia”, ho subito aperto l’articolo con molta curiosità.

Ma purtroppo, devo dire che stavolta è stata maggiore la delusione: proprio lei così sempre attento a “smascherare” le falsità che ci vengono propinate sul terrorismo e sul mondo islamico in generale, questa volta mi cade nella rete e si allinea alla peggiore stampa occidentale (no, voglio essere più corretto perché tanti hanno scritto di molto peggio: la migliore stampa occidentale) con tutto il suo repertorio di inesattezze e omissioni. Soprattutto omissioni.

Se ha un po’ di pazienza, le scrivo con umiltà come la vedo io da qua, restando apertissimo al confronto e senza la minima volontà di polemica ma unicamente per la stima che ho nei suoi confronti (se la reputavo “un coglione” non avrei nemmeno perso tempo a scriverle).

Allora, vado con ordine:

– “Ma la tragedia dei musulmani rohingya che vivevano nell’area occidentale del Myanmar, nel Rakhine, e che sono stati fatti oggetto di violenze che rasentano il genocidio e oltre 600.000 dei quali sono dovuti fuggire in Bangladesh”

Corretto, ma c’è la prima omissione: come è nata l’ultima ondata di violenze? E’ partita da terroristi islamici (eh sì, anche qui…..) che in agosto si sono infiltrati nello stato Rakkhine attaccando stazioni di polizia e postazioni dell’esercito birmano. Rifugiandosi poi in alcuni villaggi (già che c’erano, massacrando e tagliando teste in due villaggi induisti) facendosi poi scudo dei Rohingya contro l’esercito birmano e spingendo (loro per primi) i Rohingya ad andarsene da lì.

Probabilmente lei sa già chi sono, comunque basta fare una ricerca del gruppo terrorista ARSA (Arakan Rohingya Salvation Army) del quale esistono anche vari video su Youtube.

– Certo, DOPO c’è stata la violenta reazione dell’esercito birmano. Il quale ha reagito nell’unico modo che conosce.

Ma qui arriva la seconda omissione, un aspetto che quasi mai i media occidentali hanno menzionato: in Myanmar l’esercito è totalmente slegato e autonomo dal governo, tant’è che il Ministro della Difesa (così come quelli dell’Interno e delle Frontiere) è nominato per Costituzione dall’esercito e risponde quindi al capo delle Forze Armate.

Tutto questo rumore sulla faccenda fa certamente il gioco anche dell’esercito, che con la perfetta scusa di proteggere il popolo dagli invasori musulmani, mantiene il suo potere ed il 25% dei seggi in Parlamento assicurati dalla Costituzione (che si sono redatta e approvata da soli ai tempi della dittatura).

Gli episodi di violenza dalla parte birmana sono quindi da attribuire esclusivamente all’esercito e NON al governo di Aung San Suu Kyi.

– Già, Aung San Suu Kyi: quella tragedia è qualcosa di più di una sconfitta per lei. E’ una macchia sul suo onore, sulla sua vita, sulla missione che si era assunta.”

Mi scusi, ma qui io la vedo in modo totalmente opposto: Aung San Suu Kyi si è presa subito a cuore della questione (ben prima degli episodi dello scorso agosto) chiedendo una commissione Onu che indagasse e stilasse un rapporto sulla situazione nello Stato Rakkhine, cercando (e ottenendo) il consenso sulla persona di Kofi Annan da parte di tutti i paesi a maggioranza musulmana dell’area (Malesia, Indonesia ecc….). Terminati i lavori e ricevuto il Piano di Sviluppo e di Pace (criticato naturalmente dai militari) lei lo ha immediatamente accolto, istituendo una commissione governativa presieduta da lei per implementarlo. Piano che prevede il rientro dei Rohingya che si sta preparando in queste settimane, e la stabilizzazione dell’area mediante progetti di sviluppo, per i quali ha chiesto la collaborazione degli industriali del suo paese, di ong straniere e di tutte le istituzioni civili. In pratica, è l’unica che si sta dando da fare per trovare una soluzione pacifica al problema e migliorare le condizioni di vita nella regione (stia tranquillo: il Nobel 1991 è ancora in buone mani!).

– “Ora, il comune di Oxford ritira la decorazione che le aveva concesso

Una delle più grosse bischerate (fra le tante) del mondo occidentale, per rimanere in gergo toscano. E le spiego dopo perché, anche se la prima domanda che mi verrebbe da fare è: serve a qualcosa??

Fortunatamente la Signora (come viene ancora chiamata qua) se ne infischia e va avanti per la sua strada facendo quello che ritiene giusto fare per il bene del paese. Diceva S. Caterina da Siena: “E’ meglio perdere la reputazione che la carità”. Come vede, per me da questa vicenda la figura di Aung San Suu Kyi ne esce addirittura ingigantita!

– E ora le domande: perché tutto questo? Chi c’è dietro i terroristi dell’Arsa? Chi ha interesse a cacciare i Rohingya e colpire Aung San Suu Kyi?

Ecco, qui speravo veramente che mi venisse incontro lei, spesso rivelatore di motivazioni tenute nascoste dai media occidentali. E invece proprio qui mi è venuto maggiormente a mancare….

Allora provo a ipotizzare qualcosa io, precisando che non si tratta tanto di opinioni personali ma di notizie e di colloqui avuti con persone ben più informate di me: iniziamo col dire che lo Stato Rakkhine per la sua posizione è uno stato strategico e fa gola a molti, primi fra tutti i paesi arabi con Arabia Saudita in testa (eccoli, ancora loro!!) nonché alla Cina. C’è un intreccio di interessi su quella terra ed è molto probabile che dietro i terroristi dell’Arsa si nasconda qualche ricco emirato che punta ad impadronirsi della zona e magari (chissà…) a stabilirvi in futuro uno stato islamico. Forse è per questo che cercano di cacciare i Rohingya da lì: perché vogliono entrarci loro. Del resto, mi pare molto simile a quel che accade in Egitto con i Sufi, mi corregga se sbaglio….. (è proprio sicuro di voler parlare di pulizia etnica? A me pare un concetto estremamente fuori luogo in questo caso).

Quindi, da una parte i terroristi appoggiati da chissàchi, dall’altra l’esercito che gongola per mantenere il suo potere e indebolire la figura di Aung San Suu Kyi.

E il mondo occidentale cosa fa? La cosa più logica sarebbe: sostenere Aung San Suu Kyi ed il suo piano di pacificazione e stabilizzazione dell’area, come richiesto dall’Onu e come auspicato in questo scritto dell’ex premier australiano:

https://www.buzzfeed.com/kevinrudd/dont-give-up-on-aung-san-suu-kyi?utm_term=.dcMvP9Pv4&ref=mobile_share#.yn1y4J4yl

Ed invece (ma soltanto all’apparenza incredibilmente) attacca lei, e mentre si ritira la sua immagine da Oxford, proprio poche settimane fa il governo britannico firmava un accordo di miliardi di dollari con l’Arabia Saudita per la vendita di armi. Quindi: con una mano si fanno contratti miliardari con chi fomenta la destabilizzazione dell’area, con l’altra si fa un gesto plateale per apparire candidi e con le mani pulite di fronte all’opinione pubblica (ecco perché prima ho parlato di “bischerata”).

Ma anche questo ha il suo perché: il mondo occidentale si attendeva che Aung San Suu Kyi, una volta al governo, sarebbe stata un loro alleato contro il gigante cinese, proprio alle sue porte. Quando ha capito che lei (intelligentemente) non si prestava a questo gioco, l’ha abbandonata e adesso non perde occasione per colpirne l’immagine.

– “ed è troppo comodo adesso chiedere al papa comprensione per la difficile situazione del suo paese e citare le Beatitudini evangeliche.”

Sempre da fonti molto vicine ad Aung San Suu Kyi so che lei ed il Papa vanno ben d’accordo, soprattutto sulle questioni della pace. Non a caso a maggio il Vaticano ha deciso di aprire relazioni diplomatiche con il Myanmar, non a caso è avvenuta la visita del Papa che è servita soprattutto ad Aung San Suu Kyi, in cerca di un sostegno che ormai non trova più dai governi occidentali, tesi a ben altri interessi.

Alla fine, se comprensibilmente dubita di un toscano qualunque, la invito a leggere i contributi di persone sicuramente più autorevoli di me.

Prima di tutto le suggerisco il discorso tenuto dalla stessa Aung San Suu Kyi lo scorso 19 settembre a Yangon:

http://www.amiciziaitaliabirmania.it/news/testo-integrale-del-discorso-di-daw-aung-san-suu-kyi-del-19-settembre-2017/

Dopodiché la lettera della Sen. Soliani (profonda conoscitrice della situazione), pubblicata in ottobre da Avvenire: https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/il-sentiero-stretto-di-aung-san-suu-kyi

Ed infine un altro invito a non abbandonare Aung San Suu Kyi: http://www.ilfoglio.it/lettere-al-direttore/2017/08/28/news/quello-che-i-salotti-buoni-dimenticano-sul-myanmar-149850/

Con profonda stima e rispetto,

Gabriele

Mi sembra comunque che un problema sia quello della rispettabilità della signora Aung San Suu Kyi, un altro quello delle violenze compiute a danno dei Rohingya e al rischio concreto che esse – al di là della loro stessa infamia – provochino nel mondo musulmano un aumento delle simpatìe nei confronti dei fondamentalisti i quali poi, lo vogliano o no, lo sappiano o meno, finiscono con lo stare al servizio del piano statunitense-saudita-wahhabita di destabilizzazione del Vicino Oriente e di lotta non contro la “civiltà occidentale” bensì, molto concretamente, contro la compagine iraniano-sciita. Perché questo, oggi, è il punto: ed è qui che si va a finire tutte le volte che da una parte si fomenta l’islamofobia, dall’altra si fanno ricchi affari con certi paesi della penisola arabica e si sostiene la politica vicino-orientale della NATO.

La discussione comunque è aperta: chi avesse idee e informazioni al riguardo è invitato ad esprimerle.

 

E, ANCORA A PROPOSITO DI NATO…
….ecco quanto ci fa notare un osservatore dell’”Alleanza Atlantica” attento e competente come Manlio Dinucci.

Dopo 60 anni di attesa, annuncia la ministra della Difesa Roberta Pinotti, sta per nascere a dicembre la Pesco, «Cooperazione strutturata permanente» dell’Unione europea nel settore militare, inizialmente tra 23 dei 27 stati membri. Che cosa sia lo spiega il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg. Partecipando al Consiglio degli affari esteri dell’Unione europea, egli sottolinea «l’importanza, evidenziata da tanti leader europei, che la Difesa europea debba essere sviluppata in modo tale da essere non competitiva ma complementare alla Nato». Il primo modo per farlo è che i paesi europei accrescano la propria spesa militare: la Pesco stabilisce che, tra «gli impegni comuni ambiziosi e più vincolanti» c’è «l’aumento periodico in termini reali dei bilanci per la Difesa al fine di raggiungere gli obiettivi concordati». Al budget in continuo aumento della Nato, di cui fanno parte 21 dei 27 stati della Ue, si aggiunge ora il Fondo europeo della Difesa attraverso cui la Ue stanzierà 1,5 miliardi di euro l’anno per finanziare progetti di ricerca in tecnologie militari e acquistare sistemi d’arma comuni. Questa sarà la cifra di partenza, destinata a crescere nel corso degli anni. Oltre all’aumento della spesa militare, tra gli impegni fondamentali della Pesco ci sono «lo sviluppo di nuove capacità e la preparazione a partecipare insieme ad operazioni militari». Capacità complementari alle esigenze della Nato che, nel Consiglio Nord Atlantico dell’8 novembre, ha stabilito l’adattamento della struttura di comando per accrescere, in Europa, «la capacità di rafforzare gli Alleati in modo rapido ed efficace». Vengono a tale scopo istituiti due nuovi comandi. Un Comando per l’Atlantico, con il compito di mantenere «libere e sicure le linee marittime di comunicazione tra Europa e Stati uniti, vitali per la nostra Alleanza transatlantica». Un Comando per la mobilità, con il compito di «migliorare la capacità di movimento delle forze militari Nato attraverso l’Europa». Per far sì che forze ed armamenti possano muoversi rapidamente sul territorio europeo, spiega il segretario generale della Nato, occorre che i paesi europei «rimuovano molti ostacoli burocratici». Molto è stato fatto dal 2014, ma molto ancora resta da fare perché siano «pienamente applicate le legislazioni nazionali che facilitano il passaggio di forze militari attraverso le frontiere». La Nato, aggiunge Stoltenberg, ha inoltre bisogno di avere a disposizione, in Europa, una sufficiente capacità di trasporto di soldati e armamenti, fornita in larga parte dal settore privato. Ancora più importante è che in Europa vengano «migliorate le infrastrutture civili – quali strade, ponti, ferrovie, aeroporti e porti – così che esse siano adattate alle esigenze militari della Nato». In altre parole, i paesi europei devono effettuare a proprie spese lavori di adeguamento delle infrastrutture civili per un loro uso militare: ad esempio, un ponte sufficiente al traffico di pullman e autoarticolati dovrà essere rinforzato per permettere il passaggio di carrarmati. Questa è la strategia in cui si inserisce la Pesco, espressione dei circoli dominanti europei che, pur avendo contrasti di interesse con quelli statunitensi, si ricompattano nella Nato sotto comando Usa quando entrano in gioco gli interessi fondamentali dell’Occidente messi in pericolo da un mondo che cambia. Ecco allora spuntare la «minaccia russa», di fronte alla quale si erge quella «Europa unita» che, mentre taglia le spese sociali e chiude le sue frontiere interne ai migranti, accresce le spese militari e apre le frontiere interne per far circolare liberamente soldati e carrarmati.

Per liberare l’Italia dalle atomiche non basta una firma 
Manlio Dinucci

L’Ican, coalizione internazionale di organizzazioni non-governative insignita del Premio Nobel per la Pace 2017, comunica che 243 parlamentari italiani hanno firmato l’Impegno Ican a promuovere la firma e la ratifica da parte del Governo italiano del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, adottato dalle Nazioni Unite il 7 luglio 2017. All’Articolo 1 il Trattato stabilisce che «ciascuno Stato parte si impegna a non permettere mai, in nessuna circostanza, qualsiasi stazionamento, installazione o spiegamento di qualsiasi arma nucleare nel proprio territorio; a non ricevere il trasferimento di armi nucleari né il controllo su tali armi direttamente o indirettamente». All’Articolo 4 il Trattato stabilisce: «Ciascuno Stato parte che abbia sul proprio territorio armi nucleari, possedute o controllate da un altro Stato, deve assicurare la rapida rimozione di tali armi».
Impegnandosi a promuovere l’adesione dell’Italia al Trattato Onu, i 243 parlamentari si sono quindi impegnati a promuovere:

  • la rapida rimozione dal territorio italiano delle bombe nucleari Usa B-61 e la non-installazione delle nuove B61-12 e di qualsiasi altra arma nucleare;
  • l’uscita dell’Italia dal gruppo di paesi che, nella Nato, «forniscono all’Alleanza aerei equipaggiati per trasportare bombe nucleari, su cui gli Stati uniti mantengono l’assoluto controllo, e personale addestrato a tale scopo» (The role of NATO’s nuclear forces);
  • l’uscita dell’Italia dal Gruppo di pianificazione nucleare della Nato, in base all’Articolo 18 del Trattato Onu che permette agli Stati parte di mantenere gli obblighi relativi a precedenti accordi internazionali solo nei casi in cui essi siano compatibili col Trattato.

I parlamentari che hanno firmato tale impegno appartengono ai seguenti gruppi: 95 al Partito democratico, 89 al Movimento 5 Stelle, 25 ad Articolo 1-Mdp, 24 a Sinistra italiana – Sel, 8 al Gruppo misto, 2 a Scelta civica. Nel dibattito alla Camera, il 19 settembre scorso, solo i gruppi Sinistra italiana-Sel e Articolo 1- Mdp hanno chiesto la rimozione delle armi nucleari dall’Italia, come prescrive il  Trattato di non-proliferazione, e l’adesione al Trattato Onu. Il Movimento 5 Stelle ha chiesto al governo solo di «relazionare al Parlamento sulla presenza in Italia di armi nucleari e dichiarare l’indisponibilità dell’Italia ad utilizzarle». La Lega Nord ha chiesto di «non rinunciare alla garanzia offerta dalla disponibilità statunitense a proteggere anche nuclearmente l’Europa e il nostro paese». Il Partito democratico – con la mozione di maggioranza approvata nella stessa seduta anche con i voti di Gruppo misto, Scelta civica, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Alternativa popolare, Democrazia solidale – ha impegnato il governo a «continuare a perseguire l’obiettivo di un mondo privo di armi nucleari» (mentre mantiene in Italia armi nucleari violando il Trattato di non-proliferazione) e a «valutare, compatibilmente con gli obblighi assunti in sede di Alleanza atlantica, la possibilità di aderire al Trattato Onu». Il Governo ha espresso «parere favorevole» ma il giorno dopo, insieme agli altri 28 del Consiglio nord-atlantico, ha respinto in toto e attaccato il Trattato Onu. I parlamentari di Pd, Gruppo misto e Scelta civica, e quelli del M5S, che hanno firmato l’Impegno Ican differenziandosi dalle posizioni dei loro gruppi,  devono a questo punto dimostrare di volerlo mantenere, promuovendo con gli altri una chiara iniziativa parlamentare perché l’Italia firmi e ratifichi il Trattato Onu sulla proibizione delle armi nucleari.
Lo deve fare in particolare Luigi Di Maio, firmatario dell’Impegno Ican, per la sua posizione rilevante di candidato premier. Aspettiamo di vedere nel suo programma di governo l’impegno ad aderire al Trattato Onu, liberando l’Italia dalle bombe nucleari Usa e da qualsiasi altra arma nucleare.

Insomma, noi europei continuiamo a spender patrimoni per assecondari progetti di armamento (anche nucleare) gestiti ed egemonizzati da altri, e ci sono aprlamentari che, antinuclearisti a chiacchiere, si prestano a questo gioco. Bisognerebbe cominciar a chiamare questi disonesti epr nome e per cognome e diffidare chiunque dal votare, nella prossima competizione aletorale, le formazioni politiche che li candideranno di nuovo.