Minima Cardiniana 199/1

Domenica 4 febbraio 2018 – San Gilberto

TEMPO DI ELEZIONI

UNO SGUARDO AL PASSATO

(TESTO DI UN’INTERVISTA RILASCIATA DA F.C. AL GIORNALISTA E SCRITTORE PAOLO DOSSENA, CON QUALCHE RITOCCO)

 Professor Cardini, cosa significarono le elezioni del 18 aprile 1948? Una scelta tra occidente democratico e oriente comunista?

Nell’immaginario degli elettori, senza dubbio. Essendo di famiglia catto-comunista, allora acerbamente dilaniata, ricordo perfettamente i manifesti nei quali il grande Boccasile riciclava per la DC le immagini di propaganda della Repubblica Sociale, col mongolo-sovietico sanguinario alle porte, e il “Garibaldi” del Fronte Popolare che, rovesciato, diventava il faccione di Stalin. In realtà, i giochi erano comunque fatti: e Stalin, fedele alla sua parola spesa a Teheran e a Yalta, aveva stabilito che l’Italia era destinata alla sfera degli americani. Nel piano statunitense-sovietico di spartizione dell’Europa anche al fine di evitarne per sempre una possibile unificazione politica, tutto era chiaro.

Le forti posizioni neutraliste nel paese e nella Democrazia Cristiana (la posizione di Giuseppe Dossetti e di Giovanni Gronchi) sono state sottovalutate? E’ vero che il premier uscente (e poi riconfermato), il democristiano Alcide De Gasperi, e il suo ministro degli esteri Carlo Sforza, fecero del loro meglio per non parlare di politica estera in campagna elettorale, conoscendo gli umori neutralisti di una parte del paese? E’ vero che queste prudenze suscitarono negli Stati Uniti riserve sul successivo ingresso italiano nella NATO?

De Gasperi, e soprattutto Sforza, non avevano dubbio alcuno sulla linea “atlantista” da scegliere. I cattolici che invece sognavano la “terza linea” neutralista, al contrario, c’erano. E c’erano neutralisti tanto a destra (molti tra gli ex-fascisti di Salò) quanto a sinistra. Si trattava di una forza eterogenea, sulla quale tuttavia si sarebbe potuto impiantare un “discorso” europeista. Purtroppo, l’incontro fra neutralismo ed europeismo non ci fu. Sino alla fine circa degli Anni Sessanta, saremmo stati tutti ingannati dal falso tertium non datur della guerra fredda. Quando negli Anni Cinquanta ero un ragazzino cattolico di estrema destra (erano da poco trascorsi i tempi di Trieste, dell’Ungheria eccetera) che sognava il matrimonio tra costruzione della patria europea e giustizia sociale commisi il più grande errore politico della mia vita: collegai automaticamente e deterministicamente quei valori, che sentivo profondamente, a una scelta anticomunista: politicamente ovvia ma provvisoria, socioeconomicamente e socioeticamente errata. Per capirlo, a me e ai pochi come me, ci vollero la crisi di Cuba e la guerra del Vietnam, a proposito della quale caddi in un primo momento anch’io nell’inganno della “crisi del Tonchino”. Ma non capimmo ancora del tutto: nei primi Anni Settanta, nonostante tutto, eravamo ancora incerti dinanzi ai fatti cileni e a quelli greci. L’impreparazione e l’ingenuità dei “bravi ragazzi della Destra” arrivavano a tanto. Il disincanto sarebbe semmai arrivato più tardi, con i ragazzi di Marco Tarchi e la “Nuova Destra”, che difatti si sarebbe liberata presto dell’etichetta di “destra” per quanto molti continuassero surrettiziamente ad appiccicarla loro.

Il Partito comunista fu neutralista per servire Stalin?

I comunisti moderati appoggiarono, magari senza saperlo e senza capirlo, la linea di Stalin favorevole alla crescita di un neutralismo pacifista in Europa occidentale che disgregasse pazientemente e lentamente l’atlantismo senza tuttavia attaccarlo di punta. Gli stalinisti alla Secchia continuarono a sognare la “seconda ondata” (esattamente come i giacobini durante il Direttorio e i Cento Giorni,  la fronda fascista dopo il ‘25, le SA nazionalsocialiste fra ’33 e ’34, i falangisti di Hedilla dopo il ’39). Ma l’ordine dal Cremlino di prendere le armi non arrivò mai, nemmeno dopo l’attentato a Togliatti. La “seconda ondata” non arriva mai. I dittatori sono sempre dei centristi.

Possiamo parlare di un’ambiguità del capo dei socialisti, Pietro Nenni, e quindi di una parte dell’Italia che ha seguito un determinato percorso storico? Ammiratore di Oriani, interventista in guerra nel 1914, collaboratore del “Popolo d’Italia” di Mussolini, fondatore del fascio di Bologna nel 1919, Nenni passò ai socialisti senza perdere una certa mentalità “giacobina” Stato-nazionale (come scrisse già Piero Gobetti nel 1924). Nel 1947 resta fedele al giacobino mito nazionale opponendosi alla cessione delle colonie, e per le sue posizioni filo-comuniste e anti-europee è insignito del premio Stalin.

Dall’adunata di San Sepolcro del 23 marzo 1919 e dalla Fiume di D’Annunzio (con la “Carta del Carnaro” di De Ambris) avrebbe potuto nascere un movimento bolscevico e magari una rivoluzione sovietica, mutatis mutandis. Ma i ceti dirigenti italiani volevano cogliere i frutti della vittoria, magari “mutilata”; poi in Italia c’erano la corona, la Chiesa cattolica, la massoneria, i forti interessi finanziari e imprenditoriali britannici. Quindi si trovò l’abile machiavellico capace d’inquadrare dei potenziali bolscevichi e trasformarli in “Guardie Bianche”: e gli si lasciò balenare la speranza del governo se ce l’avesse fatta. Era il più bravo di tutti e ce la fece: la svolta fu il 1921, la fusione tra fascisti e nazionalisti dalla quale nacque il PNF.  Nenni lo aveva capito a metà, fu progressivamente emarginato e da buon secondo di Mussolini passò a fare il buon secondo di Togliatti. Che poi Mussolini, e non solo lui, mirasse all’evoluzione del fascismo attraverso il corporativismo in una sorta di “socialismo statalista”, è abbastanza evidente: Giovanni Gentile, che pur non era certo un “fascista di sinistra”; alludeva ai comunisti definendoli dei “corporativisti impazienti”.  Vero tuttavia che la “seconda ondata” attesa dalle fronde fasciste alla Berto Ricci non arrivò mai.

E’ vero che l’Italia entrò nella NATO nonostante le prevalenti correnti neutraliste PCI PSI e sinistra DC, grazie al fatto che il ministro degli esteri Carlo Scorza presentò l’adesione alla NATO come gradino necessario per la strada per l’Unione Europea?

Da un uomo cronicamente in malafede come Carlo Sforza, degno emulo in sedicesimo del suo idolo Winston Churchill, cinico quanto e più di lui, c’era da aspettarsi di tutto. A livello indiziario si direbbe che così fece. Ignoro se su ciò vi siano prove documentarie.

Potrebbe fare un paragone tra l’europeismo di Alcide De Gasperi, Robert Schuman e Konrad Adenauer (tutti e tre cresciuti in tribolate aree di confine, zona di conflitti etnici, e tutti e tre parlanti tedesco) e la posizione più scettica dell’attuale centro-destra italiano sull’Europa? E’ una posizione coerente con l’eredità di quei tre statisti?

Temo che Schuman, De Gasperi e Adenauer (l’alsaziano e il trentino, “uomini di due patrie” – francese e tedesco l’uno, italiano e austriaco l’altro –,  con maggior buona fede ed energia di quanto non fosse possibile trovarne nel renano, restato dal canto suo sempre più Altdeutsch che europeista), nel loro sogno semisincero di una futura unità politica europea, non abbiano mai avuto veri e propri eredi. Nel centrodestra, la buona carta da spendere fino forse dall’immediato dopoguerra sarebbe stata quella di un neutralismo attivo in una posizione di “edificazione di un patriottismo europeista”. Se almeno un paese euro-occidentale avesse lanciato un’idea del genere, altri gli sarebbero venuti forse dietro esplicitamente al di qua, implicitamente e nascostamente al di là della “Cortina di Ferro”. Non avvenne: si scelse fra libertà individuale e conato di giustizia sociale, fra utopia della libertà e utopia dell’uguaglianza, fra illusione consumistica e disperazione per il fallimento del comunismo reale. Del resto, è un antico dilemma che oggi ricompare: oggi qualcuno sogna la quadratura del cerchio, per il futuro, tra sviluppo e solidarietà. Lo dice bene Vittorio Emanuele Parsi nel suo ultimo libro, Atlantic, dedicato al fallimento della società liberale. Oggi, le risorgenze micronazionaliste della destra (collegate a tutti i sovranismi meno quello fondamentale, che servirebbe: quello incentrato sull’esigenza di liberarsi dalla NATO)  sono solo ridicole.

La concezione anti-occidentale del PCI e del PSI (e dei loro omonimi europei come PCF e PCE), era ostile alla CECA, alla Comunità europea di difesa, e quindi al trattato di Roma del 1957, da cui nacque la CEE, oggi Unione Europea. Ma l’odierno centro-sinistra sembra molto più europeista del centro-destra.

Parte del  centrodestra sogna un distacco dall’Unione Europea che si appoggi magari alla Russia di Putin, ma si disinteressa (anzi, non vuole vederla e ne rifugge) della vera questione mondiale di oggi, la necessità di una profonda e urgente ridistribuzione della ricchezza mondiale (illudendosi che basti attestarsi su una sterile, miope ed egoista xenofobia): si veda l’inqualificabile indifferenza con la quale è stato accolto lo squallido meeting dei “padroni del mondo” tenutosi a Davos, nel quale si è insistito sulla necessità di mantenere le scelte del “libero mercato”, vale a dire del profitto di un’élite sempre più ristretta. Parte del centrosinistra è felice di perpetuare l’attuale situazione “europeista” (ma la definirei piuttosto “eurolandista”) di subordinazione alla NATO e ai padroni finanziari dell’euro. E’ molto probabile che tutto si traduca, dopo il 4 marzo, nell’ennesimo inciucio tradizionale della politica italiana fino dall’Italietta: serrata emergenziale al centro (Cavour-Rattazzi, poi Giolitti, poi Mussolini, poi De Gasperi, poi Craxi, poi Berlusconi) con l’alleanza Berlusconi-Renzi. In Italia bisogna che tutto resti come prima perché tutto resti come prima (variabile realista dell’aforisma di Tomasi di Lampedusa). Il recente discorso “fieramente antifascista” del presidente Mattarella tendeva a questo: Renzi “molli” quel che resta dei suoi residui compagni di strada di sinistra, Berlusconi molli quelli di Giorgia Meloni che diventeranno il capro espiatorio da sacrificare per una futura alleanza di governo pura dai “compromessi” col Male Assoluto e si riproduca l’inciucio centrista che governa il Bel Paese dai tempi di Cavour e di Rattazzi (e l’espressione più originale del quale è semmai proprio il fascismo, con tutte le sue contraddizioni). L’alternativa sono i Cinquestelle: il caos dell’incompetenza corretto dai consigli (quelli, sì, “competenti”: ma a modo loro) degli uomini dei “servizi”.