Minima Cardiniana 205/1

Domenica 18 marzo 2018 – V domenica di Quaresima

EFFEMERIDI DELLA CRISI

ZAR VLADIMIR

All right, Mister Trump! Chapeau, Monsieur Macron! Ausgezeichnet, Frau Merkel! La vostra tempestiva e coraggiosa discesa in campo al fianco della premier britannica contro il nuovo tiranno del Cremlino ha sortito il massimo successo. E difatti lui, Zar Vladimir, vi ha cavallerescamente presentato le armi ringraziandovi all’indomani del voto in Russia. Siete stati i suoi più efficaci agenti elettorali. Prolungando l’assurdo e insensato embargo antirusso, non farete altro che rafforzare la sua popolarità. Evidentemente, la reazione degli italiani alle “inique sanzioni” del ’35-’36 non vi ha insegnato nulla. Mala cosa, non saper un po’ di storia…

Non che nel nostro stesso paese, a proposito di Putin, ci siamo fatti mancar nulla, per carità! Alla vigilia, con qualche flebile e minoritaria eccezione, crucifige preelettorali, finissime previsioni d’insuccesso (alle urne non sarebbe andato quasi nessuno…) e ferme denunzie contro il despota moscovita erano moneta corrente nei nostri media. Valga l’autorevole e illustre esempio del “Corriere della Sera” di sabato 8 marzo scorso: dove a p. 1 Franco Venturini prevedeva che Putin “non avrà domani il coraggio politico di affrontare nelle urne una nascente opposizione” e che “i russi potrebbero decidere di punirlo, con un’affluenza tanto bassa da render fragile la sua scontata rielezione”; a p. 10 si mettevano alla gogna i “putiniani d’Italia”, banda trasversale da Salvini alla Meloni a Giulietto Chiesa (candidato alle nostre elezioni, si ricordava generosamente, con Ingroia, che ora sta passando i guai suoi a causa d’un’accusa di peculato), mentre Luigi Ippolito ribadiva che il ministro degli esteri britannico Johnson (che per ironia della sorte inalbera un arcirusso nome di battesimo, Boris) è certo che all’origine del pasticciaccio di Salisbury vi sia proprio lui, il despota…, e a p. 11 si tessevano le lodi della bella, brava, intelligente Ksenya Sobchak, ex vedette televisiva e concorrente del cattivo di turno.

Comunque, prendetela come volete, ma è definitivamente nata una stella. Magari sarà una stella effimera. Magari sarà come la stella livida dell’Apocalisse, quella che appare quando l’Angelo apre il Settimo Sigillo e il suo nome è Assenzio. Ma è una stella: è uno con il quale si debbono fare i conti, e bisogna star molto attenti facendoli. Stracciando tutte le più o meno scaramantiche o terroristiche previsioni, Putin si è incassato un risultato plebiscitario: i notiziari di stamani 19 marzo au pétit matin non sono ancora precisi – o si tratta di pura reticenza? –, ma si parla di un’alta affluenza alle urne (i russi evidentemente non sono statunitensi, né italiani) e di un 70-75% di suffragi attribuiti al presidente uscente e subito rientrante. Percentuale molto alta, quasi plebiscitaria: ma – attenzione! – non bulgara. Tanto per far paragoni, Mussolini nel plebiscito del 1929 si prese il 98%: ma si poteva votare soltanto “Sì” o “No” e c’era la milizia per le strade. Un 70% significa che brogli e intimidazioni possono anche esserci stati, non tuttavia tali da risultare determinanti: nella prossima duma, le opposizioni potranno occupare più o meno un quarto dei seggi disponibili, vale a dire uno spazio che potrebb’essere superiore a quello che potrebbero mettere insieme quelle nel parlamento italiano.

Zar Putin ha vinto di nuovo. Ormai è decisamente un personaggio di punta nel mondo: le leggende sul suo conto si accumulano, e come al solito in esse verità e menzogna, adulazione e calunnia si accumulano. E’ un uomo temuto e invidiato. Sul suo profilo privato se ne dicono di tutte: che sia un uomo freddo e violento, astuto e vendicativo, dotato di uno strapotere che va al di là delle sue qualifiche istituzionali; che abbia accumulato una fortuna immensa e tenga i suoi amici e collaboratori avvinti a lui con la catena del ricatto e della complicità; che abbia varie manìe, dalle auto di lusso alle arti marziali ai quadrupedi e in special modo i cani. Attorno a lui si va creando quella che un eccellente conoscitore delle cose russe, Giulietto Chiesa, ha definito in un suo libro Putinfobia, in fondo una variabile della ”russofobia” ch’è, dall’Ottocento, una malattia cronica dell’Occidente.

Certo è che, nell’attuale deserto della situazione internazionale che fa sembrare personaggi di grande rilievo una politicante abile e avvertita come Angela Merkel o un astuto giocoliere che tratta la politica con piglio manageriale come Macron (e non parliamo dell’energumeno dai capelli color arancio che siede alla Casa Bianca), lui è uno dei pochissimi – insieme con il capo dello stato cinese e forse, duole dirlo, con il presidente turco Erdoğan – che somiglino all’immagine dello statista. Qualcuno gli ha rintracciato anche un avo veneto, che sarebbe venuto in Russia nell’Ottocento per lavorare alla Transiberiana; fecero lo stesso, con maggior verosimiglianza, con l’argentino Perón. Chissà: comunque, nel Triveneto, i cognomi Putìn e Peròn esistono.

Vladimir Vladimirovič Putin, nato il 7 ottobre del 1952 in quella che ancora si chiamava Leningrado e che oggi è tornata a essere San Pietroburgo come ai tempi degli zar, era un militare passato ai servizi di sicurezza (il famigerato KGB): dal 7 maggio del 2012 svolge il suo terzo mendato come presidente della  Federazione Russa e quindi anche della Confederazione degli Stati Indipendenti (CSI) che raccoglie la maggior parte delle repubbliche della ex-URSS. Nel 1999 svolse l’incarico di primo ministro della stessa Federazione Russa, vale a dire di capo del governo, per incarico di colui ch’era stato il più acerrimo nemico di Mikhail Gorbaciov e che poi divenne anche nemico suo, l’inqualificabile alcolizzato Boris Eltzin. Ma, dopo l’uscita di scena di quel figuro, egli è rimasto quasi indisturbato e incontestato padrone del campo: e lo è ormai da quasi vent’anni.

Ma la sua è stata tutt’altro che una “resistibile ascesa”. Riservato, ineccepibile nel tratto, colto (parla correntemente il tedesco e bene l’inglese), abituato a dominare espressione e sentimenti, è stato a lungo un funzionario pubblico di esemplare correttezza: quando ha cominciato, affermandosi, a farsi degli avversari, era per loro troppo tardi. Impossibile ostacolarlo. Forse, il suo capolavoro politico è stato quello del 2008: esaurito il suo secondo mandato di capo dello stato e impossibilitato dal divieto costituzionale ad assolverne un terzo consecutivo, favorì la vittoria del suo “delfino” Dmitrij Medvedev, che, una volta capo dello stato, lo nominò a sua volta primo ministro il giorno stesso del suo insediamento, il 7 maggio 2008, mentre nel medesimo anno diveniva ministro dell’Unione russo-bielorussa. Ora, dopo un nuovo mandato presidenziale (il terzo), lo aspetta molto probabilmente una nuova elezione al termine di una campagna elettorale molto accesa che vede in lizza vari partiti, la maggioranza dei quali è però in vario modo favorevole al mantenimento della sua egemonia. Siamo dinanzi a una “dittatura costituzionale”? Forse: ma, in tempi di rapido mutamento in tutto il mondo di quelle che siamo abituati a considerare le “istituzioni democratiche” e di loro trasformazione in realtà sempre più oligarchiche (magari a colpi di strane riforme elettorali: ne sappiamo ben qualcosa, noialtri italiani…), perché stupirsene?

Dicono che Vladimir Vladimirovič sia un buon giocatore di scacchi: e anche in ciò nulla di strano. Il nobilissimo gioco è una sapiente metafora della politica e della guerra, ed è lo sport più diffuso in tutta l’Eurasia, dai Balcani alla Cina. Se Gorbaciov parlava – come De Gaulle – di una “casa comune europea” della quale la Russia era parte, Putin fa qualcosa di più e di diverso: da una parte stringe sempre di più i rapporti economici e diplomatici con i principali paesi dell’Asia (la Cina, l’India, l’Iraq) e guarda con grande interesse al progetto di collaborazione della cosiddetta “conferenza di Shanghai” e al New Silk Road cinese; dall’altra si rivolge ai governi dei popoli europei e li interroga sull’opportunità e sulla convenienza, da parte loro, di ostinarsi nell’alleanza atlantica anziché giocare la carta macrocontinentale.

In altri termini, il suo pare un progetto ispirato alla geopolitica segnata dalle grandi tesi di Carl Schmitt. L’Occidente, l’insieme delle terre e degli oceani uscito dalla lunga egemonia britannica prima, statunitense poi, è il Leviathan; la Russia zarista, il Behemoth continentale che rappresenta l’Oriente, aveva già contestato un’estensione verso est di questo potere. Nell’Ottocento, quello fu il Great Game; la “guerra fredda” ne costituì una ripresa dalla quale però, per congiunta volontà di Stalin e di Roosevelt nella conferenza di Yalta, l’Europa veniva divisa in due parti e se ne proibiva in pratica qualunque futuro unitario. Adesso le cose sono in parte mutate, ma Unione Europea (un organismo economico-finanziario, non politico) e NATO sembrano ancora ostinarsi nel pensare che l’unica loro carta disponibile sia quella occidentale. E se fosse altrimenti? Con Obama, Putin aveva trovato una via di dialogo che passava attraverso la distensione: e il progetto d’una rimessa in gioco internazionale dell’Iran sotto la loro guida congiunta sembrava possibile. La risposta della destra repubblicana statunitense, degli ambienti oltranzisti dell’Islam sunnita e d’Israele è stata pronta a parare il colpo. Ma i giochi non sono ancora fatti, come dimostra il successo settoriale del gioco diplomatico e militare congiunto russo-siriano-iraniano, che ha spiazzato lo stesso presidente di quella Turchia che è, da mezzo millennio, l’avversario geopolitico costante sia della Russia, sia dell’Iran.

Intanto, Vladimir Vladimirovič procede per la sua strada. Visitate la “sua” Mosca, che è diventata una città bellissima e passabilmente sicura (anche se molto costosa). Date un’occhiata alle belle torri del Cremlino, dove l’aquila imperiale bicipite e la stella rossa dominano in paradossale concordia. Putin, che secondo i suoi biografi ufficiali è stato segretamente allevato dalla madre nella sicura fede ortodossa anche al tempo dell’ateismo  ufficiale, è qualcosa di più del garante della rinata religiosità del suo paese: è quello che nel 2007 è riuscito a riconciliare il patriarcato di Mosca, che si era mantenuto fedele al regime anche durante l’Unione Sovietica, con quello in esilio che univa gli ortodossi ostili al regime. E’ stato allora che la rivista “Time” lo ha proclamato Uomo dell’Anno.

Putin sta patrocinando la riscrittura della storia nazionale russa: un paese sospeso tra Europa e Asia, animato da un “manifesto destino imperiale” che si fonda sull’eredità greco-bizantina, la fede cristiano-ortodossa, l’apporto culturale slavo, l’epopea della conquista ottocentesca dell’Asia che somiglia tanto alla marcia americana verso il Far West, il rinnovamento della rivoluzione sovietica, la vittoria contro il nazismo, la riconquistata libertà. In questo disegno trionfale entrano gli eroi variaghi del medioevo, Ivan IV il terribile vittorioso sui tartari, Pietro il Grande che ha europeizzato un popolo barbaricamente asiatico, la grande Caterina che vi ha immesso il soffio delle riforme illuministiche, Alessandro II che ha incoraggiato una borghesia nascente, lo stesso tiranno Stalin che ha guidato il paese nella Grande Guerra Patriottica del ’41-’45 alla vittoria.

Non è sempre corretto, Vladimir Vladimirovič, nella sua lotta politica; non usa sempre il fioretto. Lo hanno accusato di aver fatto scomparire alcuni avversari, e non è improbabile che sia vero. Tuttavia sta costruendo attorno a sé il consenso di un popolo che un quarto di secolo fa si sentiva perduto in balìa dei detriti tossici del fallimento comunista e del cinismo dei “consiglieri economici” occidentali, i Chicago boys, che gli succhiavano il sangue; e che con lui sente a torto o a ragione di aver riconquistato sicurezza e dignità, di aver sconfitto il terrorismo islamico che lo insidiava, di star uscendo anche dalle strette di un regime di arciricchi sfruttatori e di star recuperando alcuni tratti dello “stato sociale” che aveva caratterizzato l’Unione Sovietica. Certo, il suo è un regime economico dirigista, che accentua i tratti comunitari a spese di un’iniziativa privata che lo stato attentamente sorveglia. Una società autoritaria, un’economia “mista” che tende a favorire una specie d’interclassismo verticista. Insomma, Putin è un ”fascista”? Sono molti i suoi avversari a definirlo così.  E’ un epiteto che potrebbe anche trasformarsi nella sua rovina politica internazionale. Nasce però spontaneo anche il dubbio che sia invece l’invettiva estrema e disperata dei suoi avversari, i quali non sanno ormai come arginare il suo successo se non usando l’insulto e la calunnia: le parole usate come pietre. Ma attenzione che le pietre non diventino un boomerang.

Intanto, analizziamo nel “pezzo” che segue la geniale mossa dei Quattro Moschettieri dell’Occidente e magari avanziamo qualche previsione, augurandoci ovviamente di sbagliare.