Minima Cardiniana 214/2

Domenica 23 settembre. Equinozio d’Autunno

INTANTO, NEL MONDO…

KOFI ANNAN (1938-2018): I GRANDI SE NE VANNO

Kofi Annan se n’è andato sabato 18 agosto 2018.

Confessiamolo: non ci aspettavamo di amarlo, non ce n’eravamo accorti. Sarà perché in fondo, purtroppo, la fiducia che nutriamo nei confronti dell’ONU è molto limitata, e negli ultimi decenni in particolare – con il coreano Ban Ki-Mon e il portoghese Gutierrez, che si sono dovuti misurare con crisi internazionali nelle quali il loro prestigio non ha avuto per nulla modo di brillare (pensiamo alla Libia e alla Siria, ma anche alla Corea e all’America latina) – il suo peso sembra essersi dissolto.

Kofi Annan, nato nel Ghana nel 1938, aveva ottant’anni: che oggi non sono più un’età particolarmente avanzata. Non ci aspettavamo che se ne andasse, e tanto meno lui che lavorava alacremente alla direzione della Fondazione da lui fondata e che portava il suo nome. Eletto segretario generale dell’ONU nel dicembre del 1997 al posto dell’egiziano Boutros Ghali, che avrebbe aspirato legittimamente a un secondo mandato (tale la prassi ordinaria) ma aveva dovuto incassare il “veto” statunitense,  tutti si aspettavano che quel sessantenne africano avrebbe mosso passi quanto mai cauti per non incorrere nei guai del predecessore.

Nemmeno per sogno. Critico severissimo della maggior parte dei governi del suo continente e della loro arrendevolezza di fronte alle lobbies multinazionali, incrollabilmente convinto che l’Africa sarà il “continente del Terzo Millennio”, ammiratore di Gandhi e di Mandela, ad appena un anno dalla sua elezione si era portato a casa un risultato straordinario: la firma del “Protocollo di Kyoto”, l’11 dicembre del 1997, che definiva la riduzione su scala mondiale della produzione dei gas responsabili dell’”effetto serra” e del riscaldamento globale del pianeta. Di conseguenza, nel gennaio del 2000, si approvò il “Protocollo di Cartagena” sulla biosicurezza, per garantire un impegno sicuro delle biotecnologie moderne.

Ma non basta ancora. Grazie al suo impegno, e contro il parere statunitense, nel luglio del 1998 l’“Autorità Nazionale Palestinese” ottenne l’ammissione all’ONU, sia  pure a semplice titolo di osservatore speciale. Nello stesso mese venne approvato a Roma lo statuto del Tribunale Speciale Internazionale con giurisdizione sui crimini di guerra, i genocidi e i crimini contro l’umanità: quello che era accaduto nell’Iraq della prima guerra del Golfo e nei Balcani non poteva esser lasciato impunito. Intanto lavorava alla pacificazione: grazie alla sua accorta opera di mediatore, nel febbraio del 1998 era partita la mediazione oil for food che permetteva all’Iraq di Saddam Hussein, nonostante l’embargo, di vendere una certa quantità di petrolio necessaria al sostentamento di base del paese; e grazie a ciò, il rais irakeno accettava in cambio il programma d’ispezioni ONU ai siti nei quali si sospettava un’attività di preparazione delle armi di distruzione di massa che l’Iraq era sospetto di star costruendo. Vero è che gli effetti della distensione durarono poco.

Ma fu proprio nella “sua” Africa che Annan volle sperimentare l’efficacia dei provvedimenti dell’organizzazione che egli presiedeva e della quale si criticava la fragilità che la rendeva inadeguata alle sue buone intenzioni. Nel 1999, l’intervento delle forze ONU in Congo e in Sierra Leone, con migliaia di “caschi blu”, valse ad arginare in quel settore le violenze ormai divenute intollerabili: e, per il secondo di questi paesi, il “Consiglio di Sicurezza” (supremo organismo di controllo dell’ONU) dovette avallare l’istituzione di un tribunale speciale incaricato di accertare i recenti crimini di guerra commessi.

Il fatto è che il segretario generale dell’ONU stava dimostrando di non essere solo un attento e tempestivo regista d’interventi tattici: aveva una strategia di effettivo governo del pianeta. Lo dimostrò in un’occasione che tutti avevano ragione di ritenere celebrativa e formale, tra il 6 e l’8 settembre del 2000, in occasione del “Vertice ONU del Millennio”. Fu quella l’occasione durante la quale egli presentò e varò un documento che molti giudicarono velleitario ma il contenuto del quale era sconvolgente: la “Dichiarazione del Millennio”, che stabiliva formalmente quelli che egli stesso denominò i Millennium Development Goals (MDG): gli “obiettivi dello sviluppo del Millennio”, primo dei quali era l’eliminazione della povertà estrema (vale a dire della vita al di sotto dei limiti socioeconomici di sopravvivenza) entro il 2015. Ciò gli valse la lode e l’appoggio esplicito ed entusiasta di papa Giovanni Paolo II; e quindi, a ruota, il Premio Nobel per la Pace, attribuitogli il 10 dicembre del 2001, che lo premiava anche per l’assidua, coraggiosa opera d’incitamento all’equilibrio dopo la crisi apertasi con gli attentati dell’11 settembre precedente negli Stati Uniti e la sua conferma per un secondo mendato quale segretario generale dell’ONU nell’anno successivo.

Non che questa serrata attività non gli avesse procurato degli avversari. Se la sua convivenza al vertice del potere mondiale con il presidente Clinton era stata delicata, quella con Bush jr. fu drammatica: fra il 12 e il 13 novembre 2000, la conferenza dell’Aja sul clima era fallita per i contrasti tra USA da una parte ed Europa ed alcuni paesi “in via di sviluppo” dall’altra. Era un formidabile siluro contro il “Protocollo di Kyoto” di tre anni prima e anche contro i MDG, ch’erano il “fiore all’occhiello” del segretario generale. Ma l’ONU, nella quale era entrata intanto finalmente la Svizzera, proseguì la sua opera.

Vero è che il secondo mandato di Annan fu meno energico del precedente. Ormai, specie dopo la guerra in Iraq  del 2003, la situazione internazionale appariva molto compromessa se non prossima al precipitare. Dopo Annan, che lasciò il suo posto nel 2007, l’attività dell’ONU fu sempre più intralciata dall’uso del “diritto di veto” del quale dispongono i cinque paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza: e oggi la diplomazia delle grandi potenze e dei loro alleati si svolge sempre più come se l’ONU nemmeno esistesse. Le crisi libica e siriana, non meno che i problemi della migrazione asiatica e africana, lo stanno dimostrando senz’ombra di dubbio.

La generosa, forse utopistica eppure irrinunziabile idea di una governance mondiale si va purtroppo allontanando: e risorgono, difatti, i fantasmi delle “guerre fredde”, che configurano, forse – in realtà –, un terzo conflitto mondiale già in corso, come molti osservatori internazionali sostengono. Anche per questo, l’opera di energica mediazione e la figura carismatica di un personaggio come Kofi Annan, ora che se n’è inaspettatamente e precocemente andato, ci manca tanto.

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ALBINO LUCIANI, DE MEDIETATE LUNAE. UN RICORDO, QUARANT’ANNI DOPO

Lo seppi solo il 29 settembre sera. Quel giorno, evidentemente, non avevo visto alcun telegiornale. Un’occhiata ai giornali, al mattino l’avevo data: ma – per impossibile che ci sembri adesso, abituati come siamo all’azzeramento dei tempi – evidentemente non ci avevo trovato nulla (infarto miocardico: “…pareva che dormisse…”). Quell’estate avevo lavorato negli Stati Uniti ed ero tornato due giorni prima. Così avevo telefonato a mio padre e a mia madre, in vacanza in Lunigiana, e li avevo invitati a cena a Viareggio la sera del 29. Era il sessantaquattresimo compleanno del babbo, il giorno di San Michele. Eravamo sul mare, a un tavolo all’aperto, una bella sera fresca. Era l’ora del telegiornale: non stavamo guardando l’immancabile schermo acceso, ma ce ne arrivarono le parole. Papa Luciani era morto già da un po’, nella notte precedente: ma noi non lo sapevamo. Chissà perché, alzai lo sguardo verso il cielo un po’ annuvolato. Forse mi tornò in mente che qualche giorno prima, il 16, c’era stata un’eclisse parziale di luna. Quella sera, in cielo, c’era solo una falce di luna calante. Mi ricordai della “profezia” di Malachia, secondo al quale papa Giovanni Paolo I avrebbe coinciso con il pontefice indicato dal motto De medietate lunae. Naturalmente, era solo una coincidenza…

Albino Luciani era nato a Canale d’Agordo in provincia di Belluno il 17 ottobre del 1912 e apparteneva a una di quelle famiglie povere del nostro nordest italiano, legate profondamente a una religiosità tradizionale fatta di carità e di misericordia. Prete nel 1935, a ventitré anni, aveva continuato la sua attività pastorale in disparte fino al 1858, quando il suo quasi conterraneo, Giovanni XXIII, lo aveva elevato alla cattedra episcopale di una diocesi cara ad entrambi, quella di Vittorio Veneto. In quanto vescovo, aveva avviato una lunga attività di riflessione sulla vita morale e sociale della Chiesa, connessa con i mutamenti in atto; e, quando, nel 1969, era stato promosso alla cattedra patriarcale di Venezia, la sua parola era stata spesso accolta con interesse, con entusiasmo ma anche non senza critiche. Erano i tempi delle grandi sfide della Chiesa: ad esempio, sul divorzio, rispetto al quale egli aveva assunto una posizione di riserbo e prudenza, ben sapendo quanto, anche nel campo cattolico, l’insegnamento della Chiesa fosse accolto con disagio da molti fedeli.

Per quanto caratterialmente il cardinal Luciani si sentisse molto vicino a papa Roncalli, del quale forse condivideva l’umana mitezza ma anche i fermi convincimenti dogmatici, i suoi convincimenti concettuali lo portavano molto vicino a papa Montini, del quale condivideva l’ampiezza ma anche la complessità del pensiero a proposito del travaglio conciliare e postconciliare. Dopo la Mater et Magistra, la Pacem in terris e la Populorum progressio, la Chiesa non sarebbe più stata la stessa.

La famosa visita pastorale di Palo VI a Venezia, con l’episodio della stola donatagli dal patriarca Luciani, sancì una consonanza di vedute nel nome della continuità rispetto all’impegno conciliare e alla memoria di Giovanni XXIII che non tardò a tradursi in un riconoscimento che, a quel punto, era – e alcuni osservatori lo notarono – di fatto scontato. Il 5 marzo del 1973, Albino Luciani veniva insignito della porpora ed entrava a far parte del collegio cardinalizio. Chi non aveva seguito la sua attività pastorale a Venezia e non aveva letto i suoi scritti non mancò di meravigliarsi del fatto che Paolo VI contasse tanto su una personalità che pareva riservata e che molti consideravano scialba, fragile: qualcuno ascrisse scelte del genere all’indecisione e alle crisi dell’ultimo papa Montini, già minato dalla malattia (il famoso “fumo di Satana” entrato nella Chiesa e via dicendo…).

Non mancò, quindi, chi si stupì, quel 26 agosto del 1978; né chi osservò che quella di Luciani era una scelta interlocutoria, quella d’un papa che sarebbe stato “debole” (per quanto le parole usate non fossero proprio queste) all’interno di un conclave che si era rivelato ormai percorso da ostilità insanabili. Quanto a lui, con la sua umiltà sorridente, ruppe una consuetudine: non avrebbe più scelto un nome che lo collegava a un papa solo, ma a due: che per lui erano una sorta di endiadi, nel nome di una Chiesa che, dopo il concilio, non poteva più essere la stessa. Giovanni Paolo I.

Trentatré giorni di pontificato sono pochi. I dubbi e la ipotesi che seguirono la sua scomparsa trovavano una qualche conferma nel clima che pervadeva, in quei giorni, gli alti gradi della gerarchia cattolica. Certo, molto era cambiato: non a caso, papa Luciani sarebbe stato – almeno fino a oggi – l’ultimo papa italiano, rompendo una tradizione ininterrotta dal XVI secolo. Che con il Vaticano II, il duello Riforma-Controriforma fosse arrivato, de facto, al capolinea?

Sul momento, i conti nelle tasche dei fautori dell’”assassinio in Vaticano” sembravano tornare. Il complotto era riuscito (pare la tesi de Il padrino III di Francis Ford Coppola). Nel conclave successivo, aveva vinto la “destra”. Un cardinale di ferro proveniente dalla cattolica Polonia che aveva messo in crisi il comunismo, un combattente in fama di tradizionalista che aveva cominciato la sua carriera di pontefice decapitando il movimento della “teologia della liberazione” in America latina. Eppure, Karol Wojtiła aveva evidentemente non rinnegato bensì ribadito la linea della diretta eredità conciliare adottando un’altra innovazione: il nome di Giovanni Paolo II, che non solo confermava la continuità roncalliano-montiniana, ma sembrava significare che il nuovo papa si sarebbe impegnato a proseguire quel cammino che il suo predecessore aveva avuto appena il tempo d’intraprendere.

Quanto aveva in animo di fare, papa Luciani, rispetto al ruolo mondiale della Chiesa? E rispetto ai “segreti” vaticani, quelli che dai tempi di Marcinkus in poi hanno continuato di quando in quanto a emergere, interferendo – e quanto… – con i pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI? E qual è l’eredità di tutto questo groviglio di problemi che gravava sul “gran rifiuto” di papa Ratzinger nel febbraio del 2013 (ricordate il fulmine su san Pietro, celebrato da migliaia di terribili cartoline?), qual è il vero significato della “terza rivoluzione dell’onomastica pontificia”, quando all’indomani di un papa che si autonomina citando non uno bensì due predecessori, e di un altro che conferma questa scelta, eccone giungere un terzo che non solo infrange un tabù (s’era mai sentito di un papa gesuita?), bensì sceglie un nome ch’è un manifesto di povertà, Francesco. A che punto è la “svolta” avviata nella Chiesa da quell’ormai lontano 26 agosto del 1978, sessant’anni fa? Ce la siamo già lasciati dietro le spalle, o siamo ancora in pieno tournant? FC