Domenica 7 ottobre 2018. XXVII Domenica del Tempo Ordinario.
Celebrazione della Madonna del Rosario. 447° anniversario della battaglia di Lepanto
ATTENZIONE!
Gli Amici più attenti e più esigenti mi scuseranno: in questa mia faticosa ripresa autunnale di attività non riesco ancora bene a dosare il mio tempo: gli arretrati di lavoro sono molti e i doveri quotidiani non da meno. Questo Minimum esce quasi fuori tempo massimo: ma sono costretto a ritenere ormai il lunedì una “ruota di scorta” visto che le incombenze della Dies Dominica, che pur dovrebb’essere di riposo e di preghiera, sono pervasive. Questa settimana, poi, c’era l’anniversario calendariale di Lepanto. “Voglio proprio vedere come farà a negare questa grande vittoria cristiana!”, mi sfida un lettore per i gusti del quale io sono troppo “filoislamico”. Caro Amico, non la nego affatto: che Dio e la Beata Vergine del Rosario, patrona di quella vittoria, me ne guardino. La valuto per quella che obiettivamente fu. Lo faccia anche Lei. Facciamolo tutti.
UN ANNIVERSARIO
LEPANTO, QUATTROCENTOQUARANSETTE ANNI DOPO. “POSTVERITA’” E ABUSO DELLA STORIA”
Non che non dovessimo aspettarcelo, per carità. D’altronde, la festa della Madonna del Rosario fu istituita per volere di papa san Pio V proprio al fine di ringraziare la Vergine Maria per la vittoria di Lepanto, il 7 ottobre del 1571. Tuttavia, dopo il tanto parlare che se n’è fatto anche di recente, e soprattutto da quando alla vigilia del quattrocentoquarantesimo anniversario dell’evento è uscito il bel libro di Alessandro Barbero[1], che in pochi mesi è diventato un best seller, speravamo francamente tutti che un po’ di chiarezza fosse stata fatta anche a livello mediatico a proposito d’un’importante ma tuttavia spesso equivocata pagina di storia.
Macché. Se ne sono sentite di tutti i colori. Dall’apologia generica e sperticata di una battaglia che “al pari di quella di Poitiers”,[2] avrebbe “liberato l’Europa dall’incubo islamico” e ne avrebbe addirittura “impedito l’invasione”, siamo stati risospinti nel pieno del clima dello “scontro di civiltà”, là dove del resto una buona parte dei signori della disinformazione vogliono ormai inchiodarci da più di un quarto di secolo, cioè dalla prima guerra del Golfo. Adesso, in tantissimi hanno invocato nei soliti blogs, twitters et similia una “nuova Lepanto” per ricacciare in mare “i nuovi invasori”, che sarebbero i migranti; e c’è chi ha aggiunto che sarebbe necessaria una vittoria come quella per sistemare una volta per tutte i conti con quell’Erdoğan la massima aspirazione del quale sarebbe – udite, udite! – “vendicarsi sull’Occidente della battaglia di Lepanto”.
Rimanderemo ad altra puntata un discorso più mirato sul discusso leader turco, gli obiettivi del quale sono senza dubbio molto più concreti che non “vendicarsi” di una sconfitta subìta quasi mezzo millennio fa e che in fondo neppure lo riguarda: l’impero ottomano era una cosa completamente diversa dalla Turchia (sarebbe un po’ come dire che l’Italia si vuol vendicare sulla Tunisia per la sconfitta di Canne inflitta da Annibale ai romani)[3].
In tempi di “postverità” e di pesante abuso della storia, ribattere a ipotesi e a illazioni con argomenti che a loro volta potrebbero sembrare – specie a chi nulla conosce dei fatti in questione – soggettivi se non arbitrari sarebbe inutile. Atteniamoci ai fatti: e ripercorriamoli rapidamente prima di azzardare qualche riga conclusiva.
Nel XVI secolo, l’impero ottomano vantava sul Mediterraneo una decisa talassocrazia, che gli veniva peraltro contestata dall’impero romano-germanico e, dopo l’abdicazione di Carlo V, da suo figlio Filippo II, che, in quanto capo della monarchia di Spagna, aveva ereditato la penisola iberica, le Fiandre, i possessi italici già appartenenti alla corona d’Aragona e lo sterminato impero del Nuovo Mondo; mentre le terre germaniche e la parte dell’area balcano-danubiana dominata dalla dinastia asburgica andava, con la funzione imperiale, a Ferdinando fratello del sovrano che, stanco del mondo, aspirava ormai alla pace e guardava all’eternità.
Carlo si era misurato per decenni, sul Mediterraneo e nei Balcani, con un nemico del tutto degno di lui: il sultano Solimano, detto dai musulmani al-Qanuni (il “restauratore del diritto”) e dai cristiani “il Magnifico”. Il signore di Istanbul non aveva certo intenzione di far guerra alla Cristianità nella sua interezza. Anzi, era abilmente riuscito a dividerla alleandosi con i re di Francia Francesco I e quindi Enrico II e saggiando le difese delle due potenze marinare che sul Mediterraneo gli davano ombra, la Spagna e Venezia, ora con raids marittimi protagonisti dei quali erano spesso i suoi alleati-sudditi, i corsari barbareschi, ora con incursioni congiunte degli eserciti di terra e della sua flotta ionico-adriatica in territorio balcanico e sulle coste del “golfo di Venezia”.
La morte accidentale di Solimano, nel 1566, non fermò peraltro l’imponente macchina da guerra ottomana. Gli succedette il figlio Selim II, detto Saroch, «l’Ubriacone» (1566-1574): Quanto al suo soprannome, va ricordato che le norme coraniche riguardanti il divieto del vino, del resto piuttosto ambigue, venivano scarsamente rispettate all’interno del Gran Serraglio: non solo lì, del resto, a giudicare da tutta la poesia musulmana, soprattutto da quella persiana. Succeduto al padre alla fine d’agosto, Selim dette segno certo di continuarne l’opera. Sistemate, sia pur provvisoriamente, le cose sul fronte balcano-danubiano con la pace di Edirne del 1568, tornò a investire con foga e da più versanti lo scacchiere mediterraneo, secondo la vecchia legge ottomana dell’alternanza tattica: saggiare i fronti di resistenza cristiani ora via terra attraverso la pianura balcano-danubiana, ora via mare nel Mediterraneo orientale, con la «variabile mobile barbaresca» negli specchi d’acqua occidentale e meridionale. In un paio d’anni gli spagnoli perdevano, infatti, Tunisi, occupata nel 1569 dal geniale ammiraglio Uluç-Ali (che l’anno prima era succeduto al defunto Dragut – caduto all’inizio dell’assedio di Malta di quattro anni prima – come governatore di Algeri), mentre Venezia si vide strappare Cipro, presa fra il luglio del 1570 e l’agosto dell’anno successivo, allorché la piazzaforte di Famagosta dovette arrendersi.
Selim aveva attaccato il prestigioso possesso veneziano, l’isola di Cipro, nonostante fosse ancora in atto una tregua. Per aggirare le remore che il diritto coranico in questo caso gli opponeva, egli aveva prima inviato a Venezia un ambasciatore, il quale aveva avanzato formalmente la richiesta che Cipro venisse ceduta alla Porta. Nonostante il senato si fosse diviso, in quell’occasione, tra chi era favorevole a una guerra e chi proponeva viceversa di ceder l’isola mediante una vantaggiosa compravendita che pareva possibile, alla fine era prevalso il partito che pretendeva il confronto armato.
Le ostilità relative al possesso dell’isola di Cipro avevano avuto probabilmente – o, quanto meno, tale era la convinta e documentata opinione dei diplomatici veneziani – origine dagli intrighi e dalle rivalità dei ministri che attorniavano il sultano: in particolare tra il gran vizir Mehmed Sokollu e ilvizir Lala Mustafa, fieramente avversi tra loro; alle loro trame si era aggiunta l’influenza – variamente valutata dalle fonti – di un inquietante personaggio, l’ebreo portoghese Joao Migues, o Micas, o Miches, conosciuto anche come Josef Nassì, o Nasi, o Nacì, il «Gran Giudeo» come lo chiamavano i veneziani. Esponente autorevole degli ebrei sefarditi esuli dalla penisola iberica a Istanbul e nelle altre città dell’impero ottomano in seguito alla persecuzione che proprio in quegli anni andava divenendo, in Spagna e nella parte d’Italia soggetta a Filippo II, sempre più violenta, il Nassì, influente amico del sultano, si era prefisso come scopo supremo della sua vita la missione di colpire in qualunque modo la potenza del persecutore della sua gente, re Filippo II: per questo le sue mosse erano volte ad alimentare in ogni modo i conflitti mediterranei. Ma anche a Venezia, l’opinione che si aveva sul Nassì era pessima, ed egli sapeva benissimo di aver molti nemici nella città lagunare.
Qualunque fosse il peso del parere dei consiglieri del sultano, è un fatto obiettivo che in quel momento la conquista di Cipro, il più ricco e importante nodo produttivo e portuale di tutto il Levante mediterraneo, appariva un obiettivo importante e realisticamente conseguibile. Si sapeva molto bene che la popolazione greca cipriota, ortodossa, sopportava malvolentieri il giogo dei veneziani, pesante sotto il profilo repressivo non meno che sotto quello fiscale, ma aggravato dall’egemonica presenza del clero latino. Sembra che a sostenere l’opportunità dell’impresa fosse soprattutto Lala Mustafa, mentre di avviso diverso era il gran vizir Mehmed, che a sua volta insisteva per proseguire la guerra contro la Spagna con lo scopo di assumere il definitivo controllo dell’Africa settentrionale e nella prospettiva di una futura ripresa dell’offensiva balcano-danubiana contro l’impero per affermare ed estendere il controllo sull’Ungheria. Ma lo smacco di Malta, sfuggita a un duro assedio, una macchia sulla gloria del grande Solimano proprio alla vigilia della sua scomparsa dalla scena del mondo, aveva fatto infuriare il sultano: e sembra che la sua decisione di assalire Cipro fosse in qualche modo determinata anche dalle conseguenze di quell’evento. In tale quadro si colloca, forse, fin dall’anno successivo all’umiliazione maltese, l’investitura del «Gran Giudeo» a duca di Nasso, la più grande delle Cicladi, e di altre isole dell’Egeo. Il Migues organizzava, intanto, sempre col favore del sultano, alcune colonie ebraiche attorno a Tiberiade, in Galilea, chiamandovi gli ebrei espulsi dall’Italia.
La rete diplomatico-militare ottomana andava ormai sul serio avvolgendo il Mediterraneo. Proprio nel 1569, lo stesso anno nel quale Uluç Ali aveva occupato Tunisi, Selim II – dopo essersi assicurato la pace balcanica con l’impero, grazie al trattato di Edirne – aveva rinnovato (o inaugurato?) d’accordo con la Francia quelle «Capitolazioni» che accordavano al Re Cristianissimo una preminenza esplicita nella tutela dei pellegrini e dei mercanti in Terrasanta: col che il sovrano francese da un lato si confermava l’interlocutore euro-occidentale privilegiato per la Porta, dall’altro si proponeva all’opinione pubblica europea non già come un tiepido cristiano o in prospettiva un traditore dell’ideale crociato – per quanto accuse di questo tipo gli vennero ovviamente mosse: ma erano, per così dire, comprese nel conto –, bensì come il protettore dei cristiani o almeno dei cristiani occidentali, dei faranj, in terra del sultano. Era un colpo gravissimo al prestigio dell’impero e un affronto a quello della Monarchia di Spagna: ma a Istanbul si sapeva bene che l’aggravarsi della discordia tra i cristiani, causato dalle Capitolazioni, avrebbe contribuito appunto a render ancora più improbabile un loro futuro attacco concordato contro la compagine ottomana e, pertanto, paradossalmente, migliorato i rapporti tra essa e le singole potenze europee.
Se, quindi, nella sua politica nordafricana e francese, il sultano seguiva le indicazioni del suo vizir, nondimeno curava di non trascurare i consigli del suo amico ebreo. Il 25 marzo del 1570 erano difatti arrivate a Venezia le pesanti richieste della Porta riguardanti la resa di Cipro. Ma a quel punto si verificò qualcosa che il saggio consigliere ebreo del Gran Signore non aveva previsto: gli interessi veneziani e quelli spagnoli, ch’egli giudicava contrastanti o quanto meno comunque difficili a comporsi, si presentarono in quel frangente inaspettatamente complementari. La Serenissima aveva fino ad allora evitato di compromettersi in un’esplicita alleanza in funzione antiottomana con la Spagna per non esser coinvolta nelle questioni nordafricane. Ora, però, non le rimaneva che rivolgersi accorata all’unico che sembrava disposto a fermare gli ottomani, sia pure in uno scacchiere ch’era stato fino ad allora remoto rispetto agli interessi veneziani: a Filippo II.
La risposta del Rey Prudente fu del tipo che nessuno si sarebbe mai aspettato da parte sua: cioè entusiasta. Il fatto era che lo sbarco dei barbareschi in Andalusia, nell’estate del 1565 – durante il quale si erano assalite e incendiate chiese, profanate ostie consacrate e reliquie, uccisi preti –, era stato la causa occasionale, se non addirittura il pretesto, per indurre il sovrano a imporre ai cristianos nuevos andalusi un’assimilazione completa, anche sotto il profilo della lingua e dei costumi. Il “giro di vite” aveva presto condotto all’insorgere di situazioni insostenibili: bastava il sospetto che in qualche famiglia si continuasse a cucinare con l’olio d’oliva anziché col grasso di porco per scatenare la persecuzione. La reazione disperata dei moriscos, che giunsero a implorare l’aiuto del sultano ottomano, provocò una reazione durissima: ma la rivolta nel territorio dell’antico emirato di Granada, culminata nei moti avvenuti nel giorno di Natale del 1568 a Granada e durata fino al 1570, si trascinò endemicamente anche più tardi, fino alla definitiva espulsione degli irriducibili dal regno, che sarebbe stata attuata da Filippo III tra 1609 e 1614. I profughi scacciati si rifugiarono in Marocco oppure ad Algeri e a Tunisi, da dove dettero nuovo impulso alla lotta corsara e alla razzia di schiavi cristiani catturati in mare, appoggiati da comandanti corsari rinnegati come il terribile Morat Reis, d’origine olandese.
La reazione dei moriscos e soprattutto la prospettiva di un possibile intervento del sultano – suscettibile di tradursi, nell’immediato, in nuovi raids barbareschi – aveva risvegliato nel figlio di Carlo V, insieme con l’ira e la paura, quello spirito di crociata ereditato in gran parte dalla Reconquista e che si sarebbe affermato come uno dei caratteri fondamentali, per quanto tutt’altro che incontestati, dell’identità iberica moderna. Quel mondo che, fra XI e XIII secolo, era stato – nonostante le difficili fasi almoravide e almohade e le frequenti guerre – la terra d’elezione dell’equilibrio e della convivenza fra le tre fedi d’Abramo, si stava ormai avviando a divenire la ruvida e austera patria della cruzada propugnata dovunque giungessero i gloriosi tercios e dovunque garrisse il vessillo sangre y oro: dalle Ande al Mar di Levante al Sahara. Va peraltro ricordato che in Spagna e nei territori dell’impero tenuto dalla sua monarchia la cruzada era anzitutto, e specificamente, un’imposta che il papa aveva concesso alla corona.
Cipro seguiva, intanto, il suo destino: cadeva Nicosia il 9 settembre del 1570, cadeva Famagosta il 5 agosto del 1571; quattro giorni più tardi, il giovane fratellastro del Rey Prudente, Giovanni d’Austria – che aveva già fornito prova di sé sia al comando della flotta spagnola, sia durante la repressione della rivolta andalusa dei moriscos –, sbarcava a Napoli; poco più d’un mese più tardi, la flotta ispano-veneto-papale salpava da Messina. L’Occidente fu investito dalle notizie relative a Cipro; triste fama di ferocia e di fellonìa si acquistò il comandante ottomano, Lala Mustafa che, in spregio agli impegni assunti all’atto della resa della guarnigione veneziana di Famagosta, inflisse una lunga e orribile agonìa a quello ch’era stato l’eroico difensore dell’isola, il senatore Marcantonio Bragadin. Per la verità, i fatti relativi alla resa del Bragadin e alla sua successiva esecuzione erano andati in modo sensibilmente diverso da come furono divulgati in Occidente: e determinati, al di là del suo indubbio e ammirevole coraggio, anche dall’arroganza e dalla violenza provocatoria del senatore, alle quali il suo interlocutore turco, peraltro in effetti noto per moderazione, avrebbe risposto con uno scatto d’ira del quale si sarebbe più tardi, a più riprese e a lungo, scusato e rammaricato. La tesi più di consueto sostenuta anche da studiosi recenti è peraltro quella secondo la quale i fatti di Cipro sortirono un effetto contrario a quel che gli ottomani – che usavano seminare sistematicamente il terrore attraverso una crudeltà sapientemente ostentata – avevano immaginato. La notizia del martirio del Bragadin, sostenuto con impavido stoicismo, fece presto il giro della Cristianità: e concorse a provocare proprio quel che l’abile gran vizir Mehmed Sokollu aveva fatto fin allora il possibile per evitare e che era comunque abbastanza imprevedibile, l’alleanza tra Spagna e Venezia. Ad esse si aggiunsero altre potenze, fino a giungere a una Santa Lega che oltre a loro e al papa vedeva schierati i cavalieri di Malta, il granducato di Toscana, il ducato di Savoia e il granducato di Toscana, i cui vascelli dell’Ordine di Santo Stefano combattevano, tuttavia, sotto bandiera pontificia, in quanto il re di Spagna non aveva digerito l’unilaterale concessione pontificia della nuova corona granducale a Cosimo de’ Medici.
Il 7 ottobre del 1571, nelle acque del golfo di Patrasso, si verificò quindi quello che la Cristianità – non solo la cattolica, ma anche la riformata – salutò, almeno sul momento unanime, come un miracolo. E’ noto l’episodio di Pio V che, dopo una visione avuta in concomitanza con la vittoria, ordina che tutte le campane di Roma suonino a festa; si ricordano anche varie devozioni e manifestazioni religiose connesse già prima di allora con la guerra contro gli ottomani e turchi e la “paura del Turco”: la recita quotidiana dell’Angelus già ordinata da Callisto III in coincidenza con la vittoria di Belgrado del 1456, la «campana dei turchi» fatta sonare ogni giorno da Carlo V a mezzogiorno in Germania per ricordare l’incombente pericolo, infine appunto il Giubileo straordinario indetto nel 1571.
Siamo abituati a denominare «di Lepanto» la battaglia e la vittoria. Ad esser precisi, e com’è noto, la città che allora si chiamava Lepanto (oggi Naupatto) è a una quarantina di miglia nautiche dal luogo nel quale la battaglia fu combattuta, all’imboccatura del golfo di Patrasso. Il riferimento geografico più prossimo sarebbe quindi le isole Curzolari: e «battaglia delle Curzolari» giustamente la chiamarono i veneziani. Comunque, la vittoria fu davvero grandiosa: e il merito di essa fu a lungo conteso tra i due comandanti della flotta cristiana: il ventiseienne don Giovanni d’Austria e il settantacinquenne «Capitano da Mar» dei veneziani, Sebastiano Venier.
Il pensiero politico e storiografico più maturo e più lucido del tempo, a proposito della guerra di Cipro nel suo complesso, venne espresso da una figura di rilievo come Paolo Paruta; ma un diluvio di scritti, di poemi, di opuscoli e di opere celebrative d’ogni tipo invase la Cristianità. Alcuni stendardi strappati come trofeo ai navigli ottomani da parte dei toscani dell’Ordine di Santo Stefano, le galee del quale combattevano inquadrate nella flotta pontificia agli ordini di Marcantonio Colonna furono appesi alle pareti della chiesa pisana dell’Ordine. La corona di Spagna, come l’impero, non aveva accettato di riconoscere il nuovo titolo granducale di Toscana concesso dal papa al duca mediceo di Firenze e di Siena: per questo, le galee toscane non erano state invitate a prender posto nello schieramento navale asburgico, nonostante il granduca Cosimo facesse il possibile per convincere el Rey Prudente a rinnovare con lui un conveniente contratto di noleggio. Le trattative si trascinarono con una lentezza non abituale perfino per Filippo II: alla fine, il granduca si acconciò ad accogliere una richiesta di condotta da parte del papa. Le galee toscane combatterono comunque sotto insegna pontificia, non medicea né stefaniana. Invece, alla giornata parteciparono circa duemila soldati impegnati dalla repubblica di Lucca nell’armata spagnola su invito del plenipotenziario del regno preso la curia pontificia, don Juan de Zuñiga. La Lucchesia – non meno della vicina Garfagnana, che era però una enclave fiorentina in territorio lucchese – era importante anche per la fornitura di legname ai cantieri navali: anche da qui il suo costante rapporto con la famiglia Doria, erede del grande ammiraglio imperiale Andrea.
Alla vittoria si deve anche una straordinaria crescita di prestigio del santuario mariano di Loreto, che era già legato alla crociata dal suo stesso mito di fondazione: la Santa Casa lauretana era difatti giunta in volo alla fine del secolo XIII da Nazareth, traslata da un volo d’angeli che l’avevano in tal modo sottratta al pericolo di venir conquistata dagli infedeli tre secoli prima, allorché i sultani mamelucchi d’Egitto avevano intrapreso una campagna militare tesa a scacciare dal litorale di Terrasanta quel che restava del regno crociato di Gerusalemme. La tradizione narra, infatti, come, il 10 maggio 1291, all’atto della conquista mamelucca di San Giovanni d’Acri, la casa della Sacra Famiglia venisse miracolosamente trasportata dagli angeli sopra il colle di Tersatto, presso Fiume. Il 10 dicembre 1294, la Santa Casa apparve poi in mezzo a un bosco di lauri presso Recanati, ma essendo quel luogo infestato dai briganti, si preferì spostarsi nel podere di Simone e Stefano Antici; nemmeno quel luogo si rivelò adeguato e la santa dimora fu definitivamente, miracolosamente, collocata dagli angeli in una strada dove sarebbe poi sorto il santuario attuale. Alla Vergine lauretana, Pio V dedicò il fatto d’armi di Lepanto, aggiungendo il titolo prestigioso di Auxilium christianorum alle litanie a lei dedicate. A Lepanto e alle vicende della Lega fu adattato anche un celebre testo oracolare: i vaticini attribuiti all’imperatore d’oriente Leone il Saggio (886-912), ma anche a Daniele, a Metodio di Patara e così via, e che erano già stati usati per la caduta di Costantinopoli del 1453.
Dopo l’episodio militare, l’ammiraglio pontificio Marcantonio Colonna si recò al santuario insieme con i rematori cristiani che erano stati liberati dalla schiavitù; nel 1575 fu lo stesso Giovanni d’Austria a compiervi il suo pellegrinaggio. A Maria furono dedicate le catene dei ferri che avevano avvinto gli schiavi ora liberati: una volta fuse, col metallo ottenuto si forgiarono le cancellate del santuario. Il giorno della vittoria fu proclamato festa solenne della Madonna del Rosario, la preghiera mariana alla quale i cattolici attribuivano il merito principale della gloriosa giornata.
Tuttavia, il contesto del trionfo era molto fragile: i fatti sembravano dar ragione all’imperatore Massimiliano II, cugino di Filippo II di Spagna, che – nonostante il “patto di famiglia” che lo congiungeva ai suoi parenti e alleati Asburgo di Spagna – non aveva voluto scender in campo e, fedele a quanto aveva promesso al sultano col trattato di Edirne, aveva continuato a pagare al governo ottomano un alto tributo in danaro, come già aveva del resto fatto suo padre Ferdinando I, con lo scopo di assicurarsi una tregua nello scacchiere meridionale dei suoi territori. L’imperatore aveva declinato con ben calcolata severità, giudicandoli poco opportuni e meno ancora leali, gli inviti a denunziare la tregua stipulata con gli ottomani e a rifiutare il tributo ora che il sultano pareva messo in difficoltà: era indegno d’un principe cristiano – argomentava Sua Maestà Cesarea – mancar alla parola data, fosse pur stata data all’infedele. Pesavano tra l’altro sui suoi giudizi e sul suo comportamento le considerazioni del suo oratore a Roma, il conte Prospero d’Arco, il quale in un dettagliato memoriale confermava che solo per via di terra i cristiani avrebbero potuto ottenere durevoli risultati militari contro gli ottomani. Le campagne navali, secondo il conte d’Arco, erano costose, pericolose e foriere di risultati illusori. I fatti gli avrebbero dato ragione: per quanto il suo signore lo rimproverasse di esprimersi con tanta libertà proprio mentre le armi nei Balcani tacevano.
La pressione ottomana obbligava d’altronde l’imperatore a mantenere e ad ampliare le concessioni fatte ai protestanti nell’impero: egli sapeva di non potersi permettere di affrontare i guai che avrebbero potuto provenirgli da quella parte, con gli attestati saldamente in quell’Ungheria l’aristocrazia della quale era guadagnata al calvinismo al pari di quella francese mentre le borghesie urbane e in parte anche il contadinato erano molto influenzate dal luteranesimo. Come si diceva nella Germania del tempo, «der Türke ist der lutheranische Glück»: il Turco è la fortuna dei luterani.
Su Lepanto, battaglia vinta all’interno d’un conflitto perduto (Cipro rimase comunque soggetta alla Porta), si è a lungo impiantata un’indebita idée reçue che è necessario sfatare: essa avrebbe determinato il crollo del mito dell’invincibilità ottomana sul mare. In realtà, i carteggi tra Santa Sede, cancelleria del re di Spagna e governo della Serenissima dimostrano senza possibilità di dubbio che i membri della Santa Lega erano già da prima persuasi che, se fossero riusciti a mantenersi uniti e ad agire correttamente di conseguenza, la vittoria sarebbe stata sicuramente conseguita: nonostante il Turco fosse un nemico temibile e avesse più volte battuto i cristiani sul mare, il mito della sua inevitabile invincibilità è stato costruito a posteriori per dilatare la fama e la gloria di quella vittoria ed è parte a sua volta appunto del «mito di Lepanto».
Con tutto ciò, non c’è dubbio che la vittoria cristiana fu splendida; e la sconfitta ottomana un disastro. La flotta cristiana comandata da don Giovanni d’Austria si era presentata nelle acque di Lepanto come leggermente inferiore sotto il profilo numerico rispetto a quella sultaniale guidata dal kapudan paşa Müezzinzâde Ali – che sarebbe caduto in combattimento –, ma molto migliore sotto quello qualitativo: in particolare, la superiorità dell’artiglieria ispano-veneta rispetto a quella ottomana era schiacciante. Difficile determinare con precisione l’entità delle forze allineate dal Turco: i dati forniti dalle fonti sono oscillanti e quelli accettati dai differenti studiosi non concordano in tutto fra loro. Si va da un calcolo pessimistico di 170-180 a uno ottimisticodi 220-230 galee, cui andrebbe aggiunta una sessantina di galeotte: ma il fatto che la flotta ottomana fosse il risultato composito delle forze sultaniali e delle squadre dei principi-corsari barbareschi rende più difficile e meno sicuro il calcolo, tanto più che le tipologie nautiche erano più varie di quelle occidentali comprendendo fuste e brigantini, insomma imbarcazioni di stazza modesta, il che conferiva all’armata musulmana un aspetto di gran lunga meno ordinato. La flotta cristiana annoverava, oltre a 204 galee e a una trentina di vascelli da trasporto, 6 nuove grosse “galeazze” veneziane, che si rivelarono determinanti.
Anche il fornire qualche dato preciso sulle perdite dei due campi appare molto difficile. Le valutazioni, sia nelle fonti occidentali sia in quelle ottomane, variano alquanto; e, col passar del tempo, mutano a seconda del desiderio o della necessità di sottolineare il successo dei vincitori o di minimizzare le perdite. È stato detto che le perdite della Santa Lega ascesero a 7000 caduti e 20.000 feriti, a fronte di oltre 30.000 tra morti e feriti e 35.000 prigionieri di parte ottomana. Gli europei ci rimisero una dozzina di galee, mentre gli ottomani ne videro 62 delle loro colate a picco e altre 117 catturate insieme con 13 galeotte; inoltre, 15.000 forzati cristiani che remavano sulle imbarcazioni del Turco vennero liberati. In tutto, nei porti ottomani rientrarono un’ottantina appena di imbarcazioni, tra galee e galeotte, delle 280-290 che ne erano uscite. Alessandro Barbero ha insistito anche sui morti tra i prigionieri in seguito alle ferite riportate in battaglia o ai successivi maltrattamenti nonché alle malattie insorte e ha seguito le vicende di vari prigionieri ottomani, tra i quali non mancarono i rinnegati e i doppiogiochisti cui venne riservata varia fortuna.
L’eco della grande battaglia e della splendida vittoria si diffuse in modo eccezionale, al momento, per tutta la Cristianità e fu salutato con unanime gioia, per quanto con diversità di toni e di accenti: le polemiche tra veneziani e spagnoli, come quelle tra veneziani e genovesi, affiorarono quasi immediatamente, come del resto c’era da aspettarsi; e allo stesso modo emersero immediatamente i tentativi di appropriazione da parte di questa o di quella potenza del merito principale della gloria comune. Ma se in Francia – dove, al momento, con la guerra civile tra cattolici e ugonotti, tutti avevano altro a cui pensare – o nei paesi protestanti, dove in fondo aveva il suo peso il fatto che la giornata di Lepanto avesse un indelebile marchio papista, la memoria di quel fatto d’armi fu celebrata più in sordina ed ebbe più labile sopravvivenza, nei paesi cattolici essa restò indelebile – e tale è rimasta, sia pure con periodi d’eclisse ma anche con vari revivals, fino ai nostri giorni – anche perché, ormai, specie in Spagna e in Italia, era del tutto svanita la tensione legata al fenomeno protestante, mentre ben evidente restava il problema della minaccia ottomano-barbaresca per terra e per mare, dai Balcani al Nordafrica.
Comunque, già fin dai giorni immediatamente successivi alla vittoria, si era sparsa nella Cristianità la crescente convinzione che il formidabile vantaggio conseguito nelle acque di Lepanto non fosse stato sfruttato nel migliore dei modi a causa dell’esplicito emergere di quella divergenza di fondo tra gli alleati che, per qualche tempo, era restata occulta e latente: mentre don Giovanni d’Austria e gli spagnoli intendevano proseguire l’offensiva impegnandosi nella riconquista dell’Africa settentrionale, i veneziani insistevano sul fatto che si dovesse rioccupare Cipro. Il 10 febbraio del 1572, la Santa Lega era stata rinnovata; poche settimane dopo, il 2 marzo, Pio V inviava a tutti i fedeli una lettera nella quale conferiva alla nuova fase della lotta anti-ottomana il preciso valore giuridico e l’inequivocabile colore d’una rinnovata crociata:
«… a coloro che partono personalmente ma a spese d’altri e si sottopongono ai pericoli e alle fatiche della guerra … noi concediamo pieno e completo perdono, remissione e assoluzione di tutti i peccati di cui abbiano fatto confessione con cuore contrito, e la stessa indulgenza che i pontefici romani nostri successori solevano concedere ai crociati che andavano in soccorso della Terrasanta. Noi accogliamo i beni di coloro che partono per la guerra … sotto la protezione di san Pietro e nostra».
Intanto, però, gli Ottomani avevano consolidato il loro controllo su Cipro – le popolazioni greche ortodosse locali avevano salutato con gioia il Turco che li aveva liberati dal giogo veneziano e cattolico – e ricostruito con incredibile velocità la loro flotta. Già il 30 novembre del ’71, nemmeno due mesi dopo la spaventosa sconfitta e poco più di un mese da quando la notizia di essa era arrivata al Topkapi, il gran vizir poteva proclamare nel nome del sultano la sua intenzione, «se Dio Altissimo lo concede, d’inviare al largo la mia immensa augusta flotta, prima della benefica primavera, per il jihad sulla via di Dio».
Per la verità, tanto il gran vizir quanto il nuovo kapudan paşa sapevano benissimo che della nuova flotta sultaniale, per troppi versi improvvisata, c’era poco da fidarsi. Era lo stesso avviso di François de Noailles, ambasciatore di Francia presso la Porta. I risultati dello sforzo intrapreso da Mehmed Sokollu erano, senza dubbio, straordinari: ma il sultano, per quanto si affrettasse a far sapere che a Lepanto i cristiani gli avevano appena strappato un pelo della barba, aveva ottimi motivi di preoccupazione. Il fasciame delle sue navi era di legno non abbastanza stagionato e i suoi equipaggi improvvisati e privi d’esperienza. Per i capi dello schieramento cristiano sarebbe stato forse quello il momento d’insistere nel conflitto, di colpire ulteriormente la compagine ottomana. Ma le loro prospettive erano divergenti: i veneziani avrebbero voluto portare avanti un attacco a fondo in Adriatico, dove, senza dubbio, un pericolo ottomano incombemnte esisteva, mentre Giovanni d’Austria intendeva assicurarsi la talassocrazia del settore meridionale del Mediterraneo e riconquistare Tunisi, che gli ottomani avevano strappato quattro anni prima alla Spagna. A tale scopo, organizzò un massiccio attacco diretto contro la città nordafricana, mettendo insieme 107 galee e 31 navi con equipaggi e soldati spagnoli, italici, tedeschi. Nella compagine c’erano anche a titolo ufficiale un galeone e tre galee toscane, ormai ben accette: sia l’imperatore, sia Filippo II erano sulla strada di perdonare a Cosimo I di aver accettato il titolo granducale di Toscana dal papa, in un intricato contesto di rivendicazioni dinastiche e territoriali che risaliva al XII secolo e alla contesa eredità di Matilde di Canossa. A ogni modo, la conquista di Tunisi e di Biserta nel 1573, gloria ulteriore di don Giovanni d’Austria, fu effimera e inutile. Anzi, scatenò una furiosa reazione ottomano-barbaresca.
La Santa Lega si era intanto sciolta: esausti e contrariati, i veneziani avevano allora deciso abbandonare l’intesa con la Spagna e di concludere con Selim una pace separata: essa costò alla Serenissima repubblica di San Marco la definitiva rinunzia a Cipro e il pagamento di una indennità di guerra di 300.000 ducati.
Risultato quanto meno indiretto del “tradimento”, o comunque dell’abbandono della lotta da parte di Venezia era stato il fatto che il sultano aveva potuto concentrarsi sulla costa dell’Africa settentrionale. A metà maggio del 1574 era salpata da Istanbul una flotta ottomano-barbaresca di 280 galee e una cinquantina di altri vascelli al comando di Uluç Ali: a bordo c’erano circa 70.000 uomini sotto la guida del beylerbeyi d’Egitto, Sinan Paşa (anche se stime più prudenti parlano di 240 galee e 40.000 fra marinai e soldati). Come sembravano ormai lontani i giorni di Lepanto! Tra l’agosto e il settembre successivi quell’armata aveva cacciato di nuovo gli spagnoli da Tunisi e da Biserta. L’ammiraglio calabrese del sultano sapeva perfettamente che la sua armata messa su in fretta e furia era inaffidabile e inefficiente: i cannoni erano mal fusi, il fasciame dei vascelli poco stagionato, le ciurme raccogliticce e inesperte. Ma contava sull’effetto sorpresa e sulla fama terribile del suo nome: e riuscì. Il sogno strategico di Filippo II, stringere la temibile Algeri nella morsa tra la flotta spagnola e Tunisi conquistata, tramontava per sempre. Il conte d’Arco aveva davvero visto chiaro. I conti così aperti si sarebbero chiusi solo nel XIX secolo: ma stavolta a vantaggio della Francia, conquistatrice prima di Algeri e poi di Tunisi in una nuova, tardiva “crociata” che peraltro le destre cattoliche francesi – da Chateaubriand all’Action Française – avrebbero fatto di tutto per presentar sul serio come tale.
D’altronde, quanto era accaduto rispondeva a una sua ferrea logica. Il Rey Prudente non poteva in effetti sperare che la Serenissima continuasse a fargli da scudo sostenendo l’urto delle armate di mare ottomane mentre egli a sue spese si consolidava sul litorale nordafricano. E nella città lagunare si sapeva bene che, per quanto il Turco fosse «signor tremendo», come l’aveva definito Marin Sanudo, i rapporti economici tra la Serenissima e l’impero ottomano erano troppo intensi e troppo consistenti perché ci si potessero consentire troppo lunghe o troppo frequenti guerre. Ogni volta che combattevano tra loro, Venezia e la Porta s’infliggevano colpi reciproci che entrambe immediatamente risentivano: più danneggiavano il nemico, più facevano del male a se stesse. Veneziana oppure ottomana che fosse, Cipro giovava sia ai veneziani, sia ai turchi: chiunque le infliggesse dei danni, colpiva entrambi. Ciò non valeva del resto solo per le isole egee: era vero anche per quelle ioniche. Basti pensare a Corfù, divenuta progressivamente città-fortezza proprio in funzione antiottomana (a differenza della veneta Palma, che era stata fondata come tale, ma più in funzione antimperiale che non antiturca, nonostante le dichiarazioni ufficiali del governo veneziano). L’isola era senza dubbio una formidabile piazzaforte; ma sta di fatto che i suoi difensori e i suoi abitanti, come in tutte le Ionie veneziane, mangiavano pane cotto con farina turca. Senza grano turco, a Corfù non c’era pane. E questo è solo un aspetto, ma forse esemplare, della situazione in cui la Serenissima si trovava.
Tuttavia, gli effetti della giornata di Lepanto vanno misurati anche su altre dimensioni, nelle quali furono più duraturi. La battaglia era stata preparata da un intenso clima profetico e apocalittico, non senza la ripresa di vecchi spunti gioachimiti. La vittoria esaltò questo clima. La mulier amicta sole, et luna sub pedibus eius, et in capite eius corona stellarum duodecim dell’Apocalisse,12, 1, divenne, da allora, com’è noto, un cànone iconico-esegetico fondamentale per la rappresentazione della Vergine Maria. E il fatto che l’immagine apocalittica stia dritta sulla falce di luna – una figura che ci rinvia a una lunga serie di personaggi divini di segno notturno, lunare e mithraistico: da Artemide-Diana a Iside a una lunga serie di “dee madri” d’origine microasiaticae semitica – fu interpretato, almeno dal Cinquecento in poi, in una direzione caratteristicamente antislamica. La Vergine calpesta la luna, che si avvia a diventare almeno secondo gli europei occidentali simbolo tradizionale dell’Islam: non a caso è la Vergine del Rosario colei che intercede per la grande vittoria di Lepanto; e il 7 ottobre, giorno di tale vittoria nel 1571, per volontà di Pio V diventò la festa della Madonna delle Vittorie, da Gregorio XIII fissata come festa di nostra Signora del Rosario.
Non v’è motivo, insomma, di minimizzare né la portata, né il significato dell’episodio di Lepanto: sta di fatto, tuttavia, che Cipro era rimasta ai turchi e che la Santa Lega stipulata con tanto entusiasmo per contrastare gli ottomani non resse agli inconcludenti esiti politici del conflitto. Si continuava a giocare una partita senza vincitori né vinti: l’impressione – condivisa tanto in Europa quanto nell’impero ottomano – era, comunque, che, vincitore o vinto che riuscisse nelle singole battaglie, fosse il sultano all’attacco, mentre i cristiani restavano sull’intimidita difensiva. E resta in ultima analisi condivisibile il giudizio di chi ha fatto notare che in fondo il vero vincitore di Lepanto non fu la Lega cristiana, destinata a sfaldarsi nel giro di pochi mesi, bensì il gran vizir Sokollu, l’unico alla corte del sultano che all’inizio si era pronunziato contro il conflitto e che, pure, alla fine di esso, era il solo ancora saldamente al suo posto. Poi c’era un altro che, pur non essendo formalmente un vincitore – anzi, al conflitto non aveva partecipato –, era felicissimo della vittoria pontificio-ispano-veneziana che viceversa aveva lasciato freddini, come si è visto, l’imperatore e la corte di Francia. Si trattava dello shah safawide di Persia, musulmano sì ma sciita e a due titoli altrettanto possenti – la fitna tra sunniti e sciiti interna all’Islam e il fatto che il sultanato d’Istanbul fosse il “naturale” avversario geopolitico dell’impero d’Isfahan –, il quale non stava in sé dalla gioia e inondava le cancellerie cristiane d’Europa di appelli alla lotta comune contro il tiranno del Bosforo, nemico suo non meno che loro. Quando si dice il “conflitto di civiltà”…
FC
[1] A. Barbero, Lepanto. La battaglia dei tre imperi, Roma-Bari, Laterza, 2010. Questo libro, relativamente recente e riccamente dotato di apparati bibliografico-critici, mi esenta dall’appesantire di note le pagine che seguono: gli interessati a un approfondimento ulteriore, ricorrendo a esso potranno trovare tutto quanto servirà loro a livello tanto critico quanto erudito.
[2] Anche su Poitiers gli equivoci si sprecano. Per capirci seriamente qualcosa, cfr. A. Angelucci, Carlo Martello e la battaglia di poitiers: nuove proposte interpretative per un mito storiografico, I quaderni del m.ae.s”, X, 2007, pp. 91-120, e S. Guemriche, Abd er-Rahman contre Charles Martel. La véritable histoire de la bataille de Poitiers, Paris, Perrin, 1010
[3] Consigliamo, comunque, la lettura di S. Cağaptay, Erdoğan. Il nuovo sultano, Torino, Edizioni del Capricorno, 2018.