Minima Cardiniana 218/1

Domenica 21 ottobre 2018. XXIX Domenica del Tempo Ordinario. Sant’Orsola Vergine e Martire

IL “DOVERE DELLA MEMORIA”. A PROPOSITO DEGLI ANNIVERSARI DA RICORDARE (E MAGARI DI MOLTI CHE INVECE VENGONO DIMENTICATI…)

Il 16 ottobre scorso cadevano due anniversari, infausti entrambi, ma di tipo molto diverso. 75 anni fa oltre mille ebrei vennero rastrellati a Roma e inviati nei Lager nazisti: pochi ne fecero ritorno. 225 anni or sono veniva assassinata, dopo un ridicolo simulacro di processo, Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena consorte di luigi XVI e regina di Francia.

Il primo anniversario è stato ricordato solennemente in tutta Italia: in particolare con un bell’articolo, LA TV fa bene alla storia, pubblicato lunedì 15 u.s. alle pp. 1 e 24 de “La Repubblica” da un mio vecchio collega e carissimo amico, Roberto Esposito, docente di filosofia teoretica nella Scuola Normale Superiore e autore del recentissimo libro Politica e negazione (Einaudi 2018).

Il secondo è stato ricordato en passant e quasi per caso a causa di un evento speciale: l’approssimarsi dell’asta gestita a Ginevra dalla Sotheby’s nel corso della quale saranno offerti alcuni gioielli appartenuti alla regina ghigliottinata. Se ci si dovesse impegnare nel cercar un nesso tra quei due eventi – e tra quei due delitti – si dovrebbe forse chiamare in causa il rapporto tra politica e fanatismo.

Dal canto mio, per quel che riguarda il caso di Maria Antonietta ripubblico qui, in edizione integrale, un articolo rievocativo edito sul “Quotidiano Nazionale”; e pongo a disposizione dei lettori di questo blog il contenuto di una “lettera aperta” inviata a Roberto Esposito a proposito di quanto egli aveva scritto su “La Repubblica” (ovviamente ho chiesto e ottenuto dal destinatario il consenso a fare quest’uso di parole e pensieri ch’erano e restano rivolte a lui e che sono anzitutto espressione di fraterna amicizia).

SULLA “NATURA CRIMINALE DEL FASCISMO” (E FORSE NON SOLO DI ESSO)

Firenze, 15.10.2018

Caro Roberto,

quando si dice la coincidenza. Stamani, quando sul treno che mi riportava a Firenze ho trovato su “La Repubblica” il tuo bell’articolo La TV fa bene alla storia, stavo appunto pensando di procurarmi il tuo ultimo libro, Politica e negazione, che mi è necessario per varie ragioni: non solo perché l’hai scritto tu, ma anche in quanto esso mi sarà indispensabile quando, il 19 prossimo a Pietrasanta e l’11 novembre a Pisa, mi succederà di presentare e di dover discutere con alcuni amici autorevoli un mio libretto, Neofascismo e neoantifascismo, che (ci sono rassegnato…) saranno in molti a scambiare per un pamphlet polemico mentre è, invece, al contrario, un tentativo – non privo di aspetti dolorosi – di fare i conti, in limite senectutis, con una sorta di “passato-che-non-passa”: dell’Italia, dell’Europa e in fondo anche mio personale. Sono fin dall’adolescenza un figlio della “Compagnia di Gesù”: i buoni Padri miei vecchi Maestri mi hanno insegnato, quando ero adolescente, come si fa un corretto “esame di coscienza”. E, ohimè, come diceva un tuo grande concittadino, “gli esami non finiscono mai”.

Sono perfettamente d’accordo con l’intento e con il taglio delle tue nobilissime parole: il nostro è un “dovere della memoria”, tanto più forte quanto più a contrastarlo si addensano non solo le insidie di certe proposte di legge ma perfino le tendenze – lo dici appunto tu – a “cancellare, o ridimensionare, la storia”; come quelle che sinistramente affiorano nel progetto di eliminare la storia tra i possibili temi dell’esame di maturità.

Tu ricordi giustamente tutto ciò alla luce dell’episodio del rastrellamento degli ebrei romani, il 16 ottobre del 1943, e delle sue nefaste conseguenze di morte. Eppure, proprio a questo riguardo, c’è un punto del tuo ragionamento che mi sembra particolarmente problematico: quello relativo alla “natura essenzialmente criminale” del fascismo. Al riguardo, mi chiedo se non si debba essere ancora più radicali.

Sai meglio di me, Roberto, che dell’orrore che ha accompagnato la Shoah non si parlerà mai abbastanza. Eppure, da modesto cultore del “mestiere di storico”, mi càpita di constatare che quanto meno nei confronti di ciò la nostra società mette in campo un notevole impegno; mentre, al contrario, mi vedo costretto a rilevare forme di negligenza, o addirittura casi di assordante silenzio, quando si tratti di denunziare altri episodi, altri crimini.

Non sono convinto che sia sufficiente al riguardo trincerarsi dietro l’assunto di una “unicità della Shoah” o di proclamare il progetto di sterminio degli ebrei messo in atto durante la seconda guerra mondiale come il più grave tra i tentati genocidi dato il suo carattere di premeditazione, di legalizzazione e di sistematicità. Premesso che certe forme di “computisteria funebre” e di classifica del “Gotha della crudeltà” di fronte a eventi orribili e imperdonabili mi sembrano francamente ripugnanti, mi chiedo se talvolta certi politici o certi opinion makers non cedano alla tentazione di “sbattere il mostro in prima pagina” (per quanto egli lo meriti) anche al fine di nascondere dietro la mole della sua  immensa mostruosità altri mostri o mostriciattoli, magari più recenti, dei quali si preferisce non parlare.

Natura essenzialmente criminale del fascismo, dunque: dimostrata soprattutto dalla sua crudele, premeditata, legalizzata e sistematica persecuzione contro gli ebrei (e anche contro rom, omosessuali e via dicendo). Eppure, analoghi caratteri di crudeltà, premeditazione, legalizzazione e sistematicità – paucis mutatis mutandis – si rilevano nella radicale eliminazione (magari col “colpo alla nuca”) dei “nemici di classe” da parte della Ceka nell’URSS degli Anni Venti, praticata come un puro provvedimento amministrativo, una “disinfestazione sociale”: dinanzi a tutto ciò (e a quel ch’è avvenuto dopo, tra “purghe” e “deportazioni”) non sarebbe forse possibile parlare di una “natura essenzialmente criminale del comunismo”? E dinanzi a secoli e secoli di schiavismo, al genocidio dei native Americans attuato attraverso la sapiente alternanza di deportazioni e distribuzione di alcool e di coperte infettate dal vaiolo, alla “guerra dell’Oppio”, alle prove generali di genocidio sistematico in Africa ai primi del Novecento, ai tre milioni di bengalesi morti di fame durante la seconda guerra mondiale in quanto i cereali dei loro raccolti servivano a sfamare l’Inghilterra e insomma dinanzi a tutti gli orrori impietosamente elencati e suffragati da indiscutibili prove storiche nella monumentale Encyclopedia of genocide coordinata da Israel W. Charny (ABC-CLIO Inc,1999; versione francese Privat, 2001), non dovremmo parlare forse di una “natura essenzialmente criminale” del capitalismo, del liberismo e del colonialismo che ne è stata una funzione, in ultima analisi di tutta la Modernità occidentale che da una parte ha concepito democrazia rappresentativa e Diritti dell’Uomo, ma dall’altra ha sottoposto il mondo alle esigenze del suo sistema rigorosamente fondato sul rapporto circolare produzione-consumo-profitto?

A meno che non si voglia o non si debba parlare di una “natura essenzialmente criminale” dell’intero genere umano, espressa, tuttavia, negli ultimi secoli dai ceti dirigenti e prominenti della nostra civiltà. A ciò, dato il Kulturpessimismus intrinseco alla mia condizione di cattolico hobbesiano e schmittiano, confesso che io sarei propenso (alludo alla natura umana corrotta dal peccato originale). Ma qui, dinanzi  allo specialista illustre di filosofia teoretica, taccio e gli cedo la parola. Se avrà la voglia e la benevolenza di rispondermi.

Con l’affetto di sempre, il tuo

Franco Cardini

PS – In una sua bellissima replica speditami in forma privata, Roberto Esposito, convenendo con me sul fatto che si possa benissimo, e legittimamente, parlare di una “natura criminale” del comunismo (quanto meno di quello “reale”) e del capitalismo, mi segnala la sostanziale differenza teoretica tra comunismo e nazionalsocialismo, nonostante le indubbie somiglianze sul piano della prassi. Il primo lavora sulla storia e sulla società, il secondo sulla natura umana e sulla vita. Si tratta di un tema d’importanza assolutamente primaria e fondamentale e al tempo stesso di un nuovo indirizzo di ricerca, più volte affiorato mai però messo veramente a fuoco e suscettibile di profondissime conseguenze. 

         Il più recente best seller di Luciano Canfora, La scopa di don Abbondio (Laterza), che qualcuno ha frettolosamente classificato nella polemica antifascista più recente e autorevole, è in realtà molto di più e molto di diverso. Quel ch’egli definisce, o meglio configura, come fascismo, non è il “fascismo eterno” di Umberto Eco, che pur viene citato, bensì – secondo un’ottica ortodossamente ancorché tutt’altro che conformisticamente marx-leninista – l’espressione storica dell’oscurantismo che può assumere forme infinite ma che permane come oscura volontà e violenta prassi volta a negare e fermare il corso della storia, cioè – a dirla con Tolstoj, “il modo dell’umanità” che, “scaturente da un’infinita quantità di volontà personali, si compie continuamente”. Il “moto storico” ha un andamento enigmatico, imprevedibile: ma “tra il cupo fatalismo persuaso dell’eterno ritorno e il pervicace ottimismo degli assertori di inarrestabili ‘sorti progressive’, la lezione che ci viene dalla storia è che, dopo l’esaurirsi di una ‘rivoluzione’, maturano immancabilmente le condizioni per una nuova scossa”. Quale “fascismo” si opporrà frontalmente a questa nuova scossa? Canfora risponde in maniera articolata, chiamando in causa il “fascismo americano” variamente ipotizzato da Brecht, da Mann e da Follett, la “fortezza Europa” di hitleriana memoria che si configurerebbe adesso di nuovo tra sovranisti italiani, paranazisti austriaci, neo-hortysti ungheresi e clericofascisti polacchi; eppure poi nel suo discorso riemergono la definizione gentiliana dei comunisti come “corporativisti impazienti” (la quale sottintendeva che i corporativisti fascisti, per converso, fossero dei comunisti prudenti e discreti?) e addirittura la “lettera ai fratelli in camicia nera” della guerra civile spagnola. Ma il fascismo che sosteneva una possibile “terza via” tra capitalismo e socialismo – una “terza via magari non o non pienamente perseguita dai “fascismi reali” – potrebbe considerarsi oggi davvero un supporto per il “fascismo americano” o per il “fascismo finanziario”? E che senso ha oggi che “gli eredi di quegli ‘impazienti’ – l’allusione è a quelli indicati da gentile, come un Paolo Fortunati protetto da Camillo Pellizzi – i quali “si sono convertiti al più acceso liberismo in economia e al ‘liberalismo’ in politica” (p. 57), permangano, tuttavia, fieramente portatori di un antifascismo duro-e-puro che li spinge a condannare e a reprimere gli stracci penduli di Casa Pound mentre non dicono una parola (anzi approvano) contro il prepotere delle multinazionali nel mondo e contro le testate nucleari piazzate in Italia contro la lettera e lo spirito della costituzione italiana nelle basi extraterritoriali USA e NATO nella penisola? Perché nella pratica – e di ciò senza dubbio Canfora non è responsabile – tutto l’”antifascismo” degli antifascisti italiani in servizio permanente effettivo si presenta sempre e soltanto per opporsi al meschino, perfino ridicolo “neofascismo” di chi, con disarmante miseria culturale, intenderebbe velleitariamente rivalutare in qualche modo il fascismo storico, quello che è stato esplicitamente tale, nonostante le sue contraddizioni  e le incertezze interpretative che si traducono in persistenti polemiche fra gli studiosi. In altri e più grossolani termini: non sarà che per quel che resta dell’autentica sinistra anticapitalista – il cui primo nemico rimane la globalizzazione egemonizzata dalle grandi lobbies multinazionali delle quali molti governi occidentali (e non solo…) sono ormai “comitati di affari” – nelle file di chi oggi si dice e si sente neofascista, insieme ai nostalgici beoti, ai picchiatori spesso a sua volta picchiati e agli anticomunisti viscerali potrebbero celarsi molti “fratelli in camicia nera” molto migliori di tanti che compongono il composito fronte “antifascista” per comoda autoreferenzialità? E se così fosse, non sarebbe compito degli antifascisti più onesti, intelligenti e decisi ad esser tali aiutarli a riconoscersi per quel che obiettivamente sono attraverso un pacato dialogo anziché demonizzarli e magari attaccarli sistematicamente incassando il consenso, l’incoraggiamento e gli applausi di tanti “antifascisti” di vario segno politico, che nella sostanza sono molto più lontani da loro di quanto non lo siano i loro obiettivi polemici?

Un’ultima, telegrafica osservazione a proposito di “senso della storia”. Alla fine del suo denso saggio, Canfora chiama in causa Giacomo Leopardi rifacendosi anche a uno scritto di Natalino Irti del 1998 per  evocare – contro l’idea dell’eterno ritorno applicata alla storia, ma anche contro il facile ottimismo progressista e il rivoluzionarismo violento, che produce reazioni uguali e contrarie, il gradualismo del “lento logorio della transizione”, con la bella immagine del “moto storico a spirale”. Tra il cinico pessimismo della storia intesa come cerchio che torna sempre al punto di partenza e  la banale concezione della “freccia del tempo” rapida, lineare, irreversibile, la spirale sembra quasi sintetizzare – almeno in apparenza – circolarità e linearità, dando l’impressione di rispettare largamente la prima eppure procedendo nel senso della seconda. Una bella immagine, appunto: sempre ammesso che la storia abbia un senso: e, che ne abbia uno almeno immanente, personalmente non sono disposto a crederlo.              

UNA REGINA DECAPITATA E UN’ASTA DA SOTHEBY’S

Le aste di Sotheby’s sono sempre o quasi un avvenimento. Se poi qualcuno di voi fa parte degli per fews che possono permetterselo, non si perda quella che si terrà a Ginevra il 12 novembre prossimo. Saranno difatti “battuti” (si dice così, in gergo) alcuni favolosi gioielli tra i quali un pendente di diamanti con una perla di eccezionale grandezza, un collier a tre giri di perle naturali con fermaglio in oro bianco e diamanti e un’elegantissima leggera corona lavorata a fiordalisi di Francia, sempre in diamanti legati in oro bianco.

La provenienza di questi preziosi è nota, legittima e documentata: ma le loro vicende sono riservate e non ancor del tutto ricostruibili sotto il profilo documentario. La catena delle nostre informazioni manca di qualche anello. La collezione appartiene oggi alla famiglia dei Borbone-Parma: il ramo dinastico iniziato da Filippo, figlio di Filippo V di Borbone re di Spagna e di Elisabetta Farnese, che nel 1748 divenne primo duca di Parma, Piacenza e Guastalla. Alla nobilissima casa, che vanta ancor oggi eredi viventi, sono imparentati i re di Spagna e gli Asburgo-Lorena. Ignoriamo se all’asta sarà inviata l’intera collezione e sono riservati i motivi che hanno indotto i nobilissimi proprietari di essa a rivolgersi a Sotheby’s. Intanto, i pezzi destinati alla vendita sono esposti al pubblico nelle sedi Sotheby’s di Londra e di New York.

Ma la storia di quegli oggetti sarebbe degna di un romanzo di Alexandre Dumas. C’entra difatti la bella, calunniata e sfortunata Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena, la consorte di re Luigi XVI, la quale va ricordata proprio perché esattamente 225 anni or sono, il 16 ottobre 1793, venne ghigliottinata a Parigi dopo un vergognoso simulacro di processo: e il coraggioso splendore del suo dignitoso comportamento dinanzi alla morte impose rispetto ai suoi stessi assassini.

A Sotheby’s si venderanno e si compreranno difatti alcuni gioielli appartenuti alla regina. A questo punto, molti senza dubbio penseranno all’affaire du collier, il celebre scandalo della collana incautamente acquistata da un potente e intrigante dignitario della corte di Versailles per ingraziarsi la sovrana che ha affascinato Goethe, Dumas, Carlyle e Lernet-Holenia. Chi volesse saperne di più non ha che rivolgersi al delizioso ma anche eruditissimo saggio di Benedetta Craveri, Maria Antonietta e lo scandalo della collana (Adelphi 2006). Sia detto en passant: di quello scandalo, come di molti altri che le vennero attribuiti, Maria Antonietta era del tutto innocente.

Certo, durante il suo regno aveva commesso molte leggerezze e si era resa responsabile di vari intrighi politici: pochi personaggi storici vennero comunque tanto odiati e calunniati come l’Autrichenne,colei alla quale i parigini avevano affibbiato l’epiteto di Madame Véto.

E qui comincerebbe, se avessimo lo spazio per raccontarlo, il “giallo” avvincente di una scatola di legno nella quale la regina chiuse i suoi gioielli più cari e preziosi per affidarli a mani sicure: attraverso Bruxelles, lo scrigno raggiunse Vienna e fu preso in custodia dall’imperatore Leopoldo II, fratello di Maria Antonietta. Infatti, l’uscita dei preziosi dalla corte di Parigi, che ormai era divenuta per i sovrani di Francia una prigione nella quale essi erano sorvegliati a vista, dovette collocarsi tra le fine giugno del ’91, quando i sovrani – dopo un tentativo di espatrio – furono forzati a risiedere nella capitale, e l’aprile del ’92, quando con la dichiarazione della guerra contro l’Austria le condizioni dei due regali prigionieri divennero tali da escludere che l’impresa di far uscire alcunché dai loro appartamenti fosse possibile. I particolari dell’avventura, senza dubbio romanzeschi e rocamboleschi, ci restano ignoti.

Ritroviamo i gioielli di Maria Antonietta, ormai defunta, quattro anni dopo: nel 1796, allorché la primogenita e unica superstite dei due figli della regale coppia – l’allora diciottenne Maria Teresa Carlotta, nota come Madame Royale – raggiunse a sua volta Vienna e reclamò i preziosi oggetti allora custoditi da suo cugino l’imperatore Francesco II. Più tardi sposa di Luigi Antonio, duca di Angoulême, ma priva di discendenza, Madame Royale lasciò morendo nel 1851 quella fantastica fortuna al più prossimo dei suoi parenti, il nipote Enrico, conte di Chambord: il medesimo che nel ’70 avrebbe potuto restaurare la monarchia borbonica, ma si rifiutò di ascendere al trono come Enrico V se i francesi non avessero accettato di abbandonare la bandiera tricolore per restaurare al suo posto il candido vessillo tradizionale della monarchia dei fiordalisi.

Il romantico Enrico, crudelmente satireggiato da Giosuè Carducci, morì nel 1883. Si estinse con lui il ramo principale dei Borbone di Francia: e i gioielli di Maria Antonietta, insieme con altre cose, passarono in eredità alla collaterale dinastia dei Borbone-Parma. Ma su quei favolosi oggetti s’innestarono infinite leggende, e la caccia al loro possesso durò per tutto l’Ottocento: vi prese parte anche il celebre Charles L. Tiffany. L’avventura apertasi nella fastosa, dispendiosa corte di Versailles, si concluderà nel novembre prossimo alla Sotheby’s di Ginevra. A meno che qualcuno non ne scriva un nuovo capitolo. FC