Domenica 21 ottobre 2018. XXIX Domenica del Tempo Ordinario. Sant’Orsola Vergine e Martire
OCCIDENTE, MODERNITA’, MONDO MUSULMANO. REPETITA STUFANT, SED IUVANT (O ALMENO SPERO)
Ricevo ancora molti messaggi a proposito di Occidente, Europa, Islam, crociate, jihad, natura dell’islam, “scontro di civiltà” eccetera. Evidentemente non sono stato abbastanza chiaro. Riassumo, augurandomi che sia la volta buona.
Premessa
A proposito dei rapporti tra quello che siamo ormai abituati a definire “Occidente” e il mondo musulmano sussistono alcuni malintesi di fondo che è bene chiarire e che benissimo sarebbe cancellare una volta per tutte. Quando oggi noi parliamo di “Occidente” non intendiamo evidentemente alludere a un punto cardinale; e non vogliamo neppure necessariamente collegarci a un’idea diffusa, generica finché si vuole ma dalle forti e profonde radici e dall’intenso valore sul piano dell’immaginario, secondo la quale “Occidente” e “Oriente” sarebbero mondi tra loro diversi e per alcuni aspetti contrapposti, destinati ora a incontrarsi ora invece a scontrarsi. Per impostare in modo adeguato il nostro tema è necessario tener bene a mente un triplice ordine di premesse.
Primo: “l’Occidente”, “il mondo occidentale”, vale a dire fino al XV secolo l’Europa alla quale si sono andati aggiungendo fra Cinque e Settecento i continenti americano e oceanico, è vissuto dall’antichità fino a circa i secoli XIII-XVI nella parziale ignoranza del mondo che si poteva definire “orientale” (e di cui l’Islam faceva parte) ma anche, nei suoi settori più colti e avveduti, nell’idea che l’altra parte del mondo fosse la più antica, la più potente, la più ricca, la più colta. Tale rapporto ha cominciato a mutare negli ultimi secoli del cosiddetto medioevo fino a un completo rovesciamento: la causa di questo fenomeno risiede in un vorticoso progresso economico, accompagnato da una sempre più massiccia serie di scoperte geografiche e d’invenzioni scientifiche e tecnologiche, le quali hanno gradualmente interessato l’intero pianeta – soggetto, frattanto, alle conquiste militari e coloniali degli europei –, imponendo la fine di un pianeta distinto in “civiltà a compartimenti stagni” e imponendo, con l’“economia-mondo”, quel complesso e articolato fenomeno oggi denominato “globalizzazione” (o “mondializzazione”), al quale l’intera popolazione mondiale partecipa ma del quale gli occidentali hanno fino ad oggi avuto l’indiscussa leadership.
Secondo: la civiltà occidentale dei secoli che si è convenuto di definire “moderni”, e che quindi è stata chiamata anche tout court “Modernità”, si è distinta per alcuni elementi caratteristici: a.il progressivo sviluppo dell’individualismo, vale a dire della centralità dell’individuo, della sua volontà-arbitrio, della sua libertà e dei suoi diritti (elaborati in modo da poterli addirittura considerare “naturali”), nonché dei suoi corollari: primato della finanza, dell’economia e della tecnologia; sviluppo di un’etica fondata sull’utilitarismo, ipertrofizzazione (a dirla con Erich Fromm) dell’“Avere” rispetto all’“Essere”; imposizione di un ciclo economico “produzione-consumo-profitto” che per definizione non ha altro scopo se non la perpetua riproduzione di sé stesso; quindi di una prospettiva di accumulo di capitale lo scopo della quale è l’accumulo stesso; b.la relativizzazione del Divino rispetto alla vita e alla storia, l’eliminazione di qualunque carattere teleologico trascendente alla vita e all’ordine cosmico naturale (spogliati entrambi, cioè, di un senso finalistico e ridotti a puri valori meccanici); quindi, il ridimensionamento della religione che fino ad allora aveva avuto un valore e un significato centrale nella società: il Cristianesimo; c. l’assegnazione per contro – una volta negato valore teleologico sia alla vita, sia all’ordine cosmico – di un valore teleologico immanente alla storia, da precisare, tuttavia, attraverso il serrato dibattito filosofico e politico che ha presieduto, a partire dal XVIII secolo, alla nascita di quelle ideologie delle quali, tuttavia, si annunzia adesso, all’inizio del III millennio, la “crisi” se non la “morte” (salvo assistere a casi di metabolizzazione e di riproposizione di loro nuove forme). Tutto ciò ha costituito il nucleo del “processo di secolarizzazione”, tipico ed esclusivo della Modernità occidentale (quello che Giovanni Paolo II ebbe a definire “processo di desacralizzazione”. La Modernità non nega di per sé il Divino, per quanto al suo interno possano essersi presentati esperimenti di società fondate sull’ateismo: si limita a vivere e ad agire – fu papa Benedetto XVI a denunziarlo con rigore – “come se Dio non fosse” (secondo un noto aforisma del Sessantotto, “Padre Nostro, che sei nei cieli – restaci!”).
Terzo: quello che arrivati a questo punto potremmo definire l’“Occidente-Modernità” si è gradualmente e progressivamente imposto a tutte le civiltà umane dando luogo non già – se non episodicamente e apparentemente – a quel fenomeno che Samuel Hungtinton ebbe a definire, in un best sellerdel 1996,The Clash of Civilizations,bensì all’imposizione di una sola “civiltà leader”, quella occidentale appunto, che ha imposto all’umanità intera il suo modello politico (la “democrazia rappresentativa”), etico-sociale-produttivo (il liberismo, evoluto in quello che Edward Luttwak ha definito in un libro del 1999 Turbo-capitalisme delle principali protagoniste del primato dell’economia sulla politica: le lobbies multinazionali, che stanno progressivamente svuotando in tutto il mondo le istituzioni pubbliche per ridurle a loro “comitati di affari”). Oggi, in tutto il pianeta, le élites dirigenti studiano in Università occidentali o organizzate all’occidentale; gli stati esprimono governi nella stragrande maggioranza dei casi espressione di una selezione fondata sul sistema della “democrazia rappresentativa” o di una più o meno credibile parodia di essa; la circolazione monetaria è controllata da organismi quali il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale; la koinè diàlektos del sistema che ne è risultato è l’inglese adottato nei grandi consessi internazionali, nelle lobbies,nei centri di diffusione delle informazioni e di organizzazione del consenso, nelle comunicazioni di ogni tipo (dalle tradizionali alle informatico-telematiche). Rispetto alla civiltà espressa dall’“Occidente-Modernità” e adottata da tutti i ceti dirigenti mondiali, le altre sono state tutte ridotte a “civiltà di nicchia”, che è indispensabile tutelare in quanto costituiscono una ricchezza insostituibile dell’umanità ma che non sono in grado d’imporre valori metafisici o etici né scelte finanziario-economiche né ways of life ad essa alternativi.
E’, d’altronde, non meno chiaro che il mondo musulmano, che almeno dal Settecento aveva dovuto adattarsi alla definitiva perdita della sua “superiorità” sull’Occidente, ch’era stata evidente almeno fino al Cinquecento, è entrato in crisi almeno a partire dalla prima guerra mondiale soprattutto a causa di una serie di eventi: fine del califfato ottomano; sviluppo di varie forme di nazionalismo e addirittura di esperienze socialiste, espressioni tutte di una “modernizzazione” economico-tecnologica ma anche politica sul modello occidentale; galoppante imporsi di forme economiche e di strumenti tecnologici di tipo nuovo in seguito alle scoperte d’importanti giacimenti petroliferi in area araba e iraniana; creazione in pieno mondo arabo vicino-orientale di un’entità sionista eretta in stato, suo conflitto con i paesi arabi circostanti, sua trasformazione in potenza nucleare; istanze politiche dei paesi occidentali, dopo la seconda guerra mondiale, tese da un lato alla rinunzia formale alle vecchie forme di dominazione colonialista ma dall’altro decise a imporre una “decolonizzazione” che come segreto ma energicamente perseguito scopo perseguiva sia il mantenimento dell’egemonia politica, sia una “ricolonizzazione” finanziaria, economica e tecnologica.
Nell’Islam asiatico e anche africano, soggetto, peraltro, anche di una forte diaspora in Europa, America e perfino Oceania, si era andata creando almeno dalla fine del Settecento a contatto con la cultura occidentale una situazione d’incertezza e di disagio riassumibile in estrema sintesi nella dicotomia tra chi avrebbe voluto accogliere il più possibile il modello politico, economico e tecnologico occidentale anche pagando il prezzo di una certa rimessa in discussione, se non dei principi, quanto meno di tradizioni e consuetudini religiose, e chi, invece – pur non intendendo respingere in toto, salvo casi-limite che pur si dettero e che anzi sono negli ultimi tempi in crescita –, accettava sì di aprirsi alle esperienze occidentali ormai egemoni nel mondo ma intendeva salvaguardare al massimo l’identità islamica. In altre parole, bisognava “modernizzare l’Islam” o “islamizzare la Modernità”? Dopo vari decenni d’incubazione e vari esperimenti, tutti falliti anche per l’intervento diretto o indiretto delle potenze occidentali – si pensi al “socialismo arabo”, ostacolato e infine distrutto nonostante la sua “laicità” che lo rendeva interlocutore importante per il mondo occidentale, o all’esperimento di Mossadeq in Iraq –, la crisi interna all’Islam e quella relativa ai suoi rapporti con il mondo non-musulmano è esplosa anche in concomitanza con due fattori: primo, l’aggravarsi e il cronicizzarsi della crisi israeliano-palestinese, allargata a crisi ebraico-araba ed ebraico-musulmana; le conseguenze in area musulmana della dinamica dei rapporti tra Occidente egemonizzato dagli USA e mondo influenzato dalle egemonie russa e cinese (“guerra fredda” prima, crisi sovietica e ridefinizione della potenza russa poi); secondo, il crescente peso finanziario ma anche politico-economico dell’Arabia saudita, leader del mondo fondamentalista che ruota attorno alla setta wahabita, ben decisa ad alimentare la fitna (“guerra civile”) contro l’Islam sciita e la sua potenza-guida: l’Iran.
Possiamo assumere come punti di partenza di questa nuova fase ancora in corso, tre fenomeni presentatisi a partire dagli Anni Settanta-Ottanta del Novecento: l’instaurazione della “repubblica islamica” in Iran a partire dal 1° febbraio del 1979; la “guerra di liberazione” in Afghanistan all’indomani dell’intervento sovietico nel dicembre del medesimo anno in sostegno del regime socialista di Kabul; la creazione in seguito a tali eventi di formazioni fondamentaliste nel mondo musulmano sunnita e il determinarsi, al loro interno, di nuclei terroristici intesi a combattere al tempo stesso l’Occidente “ateo” e l’Islam “moderato” nonché quello “blasfemo” (cioè lo sciismo). Lo jihad contro i primi due e la fitna contro il terzo stanno alimentando, nell’opinione pubblica occidentale, le istanze di chi si dichiara scettico sulla feconda prosecuzione del dialogo islamocristiano e addirittura gli isterismi di quanti invocano necessarie e indiscriminate “nuova crociate” senza peraltro rendersi conto di quanto intricati e profondi siano i rapporti di collaborazione e di complicità tra le élites finanziarie occidentali e quelle arabo-sunnite che finanziano direttamente e indirettamente sia il jihadfondamentalista (si pensi all’ISIS, da poco scomparsa “misteriosamente” dopo essere stata protagonista tra 2104 e 2017 circa delle scene vicinorientali), sia la fitna wahabita.
Con ciò, tutto sarebbe detto. Ma qualcuno, di memoria corta o di cognizioni storiche insufficienti, può non aver chiaro il quadro al quale si è fatto riferimento. Allora ricapitoliamo: perché, com’è noto, repetita stufant, sed iuvant.
Le vicende successive all’11 settembre 2001 hanno fatto riemergere una serie di pregiudizi che in realtà si erano già risvegliati progressivamente a partire almeno dal 1979, vale a dire dall’anno della fondazione della Repubblica Islamica dell’Iran, ma che prima di allora erano sembrati, almeno fin dal primo Ottocento, dimenticati o letargizzati. Fra questi, primo di tutti anche se non forse più grave, quello secondo il quale Europa e Islam sarebbero dei “nemici storici” geopoliticamente se non metastoricamente destinati a scontrarsi. Tale pregiudizio è frutto di una visione storica distorta, superficiale e retorica, che privilegia la storia delle guerre (se non addirittura delle battaglie: Poitiers, Lepanto e così via) dimenticando di contestualizzare gli episodi bellici in un ricco e profondo continuum fatto di positivi e stretti rapporti economici, commerciali, culturali, diplomatici. Altro pregiudizio è che l’Islam si sia sempre e comunque imposto solo con la forza guerriera: qui siamo per la verità dinanzi, piuttosto che a un pregiudizio, a una menzogna alla quale alcuni pubblicisti o pseudostorici hanno di recente aggiunto l’altra, ridicola, secondo la quale il cristianesimo (o addirittura l’Occidente, cristiano o postcristiano che fosse e che sia) si sarebbe al contrario dilatato sempre e soltanto grazie alla pacifica proposta agli altri dei propri positivi modelli (la pace, la tolleranza, le democrazia rappresentativa, il progresso tecnologico).Per ristabilire un minimo di verità, un breve excursusstorico può essere utile.
La “prima ondata” musulmana. I secoli VIII-XI
La marea islamica dilagò tumultuosa tra VII e X secolo dall’Arabia al Maghreb e alla Spagna a ovest, all’India e all’Asia centrale a est, all’Anatolia a nord, ai confini dell’Etiopia a sud, travolgendo ogni ostacolo, nonostante le lotte e gli scismi all’interno dell’umma: sommerse e cancellò a nord-est l’impero persiano, giungendo fino all’Indo e al Syr Darja; occupò la Siria e la Cilicia bizantine mentre, con una rapida campagna tra 640 e 647, invadeva Egitto e Libia e da li si portava con un ulteriore balzo sino al Marocco. Ai primi dell’Vlll secolo la costa settentrionale dell’Africa era interamente musulmana e le fiere popolazioni berbere, già restie ad accettare il Cristianesimo, islamizzate: quello sarebbe stato per gli arabi il “Maghreb”, l’Occidente. Sappiamo bene che, tanto nel caso dell’impero bizantino cristiano quanto in quello dell’impero persiano mazdaico l’Islam giunse a risolvere una serie di conflitti interni: le popolazioni, stanche della tirannia o della decadenza dei vecchi sistemi, accolsero i musulmani come liberatori e spesso si convertirono.
Mentre l’Islam si espandeva dal Maghreb verso sud, oltre l’Atlante, sino a sfiorare la grande curva del Niger, una spedizione arabo-berbera passava nel 711 (l’anno medesimo in cui, dall’altra parte dell’emisfero, si toccava l’Indo) le Colonne d’Ercole e s’impadroniva della Spagna visigotica da cui era facile, almeno con rapidi raids, varcare i Pirenei e puntare verso il santuario della gente franca, Tours. La tradizione franca, che attraverso l’esperienza carolingia si è imposta quale appannaggio dell’intera Europa romano-germanica, ha sostenuto che i saraceni vennero fermati dal nonno del futuro imperatore Carlo Magno, cioè da Carlo Martello, nella battaglia di Poitiers del 732 (o, probabilmente, 733). E in effetti è narrando quell’episodio che un anonimo cronista chiama per la prima volta i combattenti cristiani Europeenses.Nel XVIII secolo, Edward Gibbon avrebbe fondato, per il mondo europeo in quel momento ancor preoccupato per i residui del potenziale aggressivo ottomano, il mito di Poitiers: senza quella fortunata giornata, il muezzinavrebbe asceso i gradini delle torri di Oxford per diffondervi l’appello alla preghiera e proclamarvi il nome di Allah clemente e misericordioso. In realtà, i musulmani avevano messo stabile piede a nord dei Pirenei fin dal 714, e almeno dal 720 tenevano stabilmente la città di Narbona che fu tolta loro dai franchi solo nel 751 (o, secondo altri, nel 759). Le incursioni saracene dalla Spagna continuarono a lungo; ancora nel corso del X secolo minacciavano Provenza e Delfinato mentre già dall’890 – forse dalla Spagna, forse dall’Africa, forse dalla Sicilia – era approdata sulla costa provenzale, a Fraxinetumpresso Saint-Tropez, quella flottiglia di musulmani che dette origine alla base d’incursori che per lunghi anni minacciarono l’entroterra provenzale fino ad Aix e a Marsiglia e i passi alpini dal Delfinato alla Savoia al Piemonte fino ad Aqui. Intanto, tra 827 e 902, per iniziativa dell’emiro aghlabita di Qairawan, i musulmani conquistavano la Sicilia dove si sarebbero mantenuti per quasi due secoli ma dove avrebbero fondato una civiltà destinata a sopravvivere, per molti versi, ben oltre quella data. Altri raids corsari musulmani, verso la metà del IX secolo, avevano sfiorato la stessa Roma e creato ulteriori basi di scorreria, come quella del Garigliano; e tra gli anni Quaranta e gli anni Ottanta del medesimo secolo la costa pugliese aveva assistito al sorgere, a Bari e a Taranto, di due emirati, il primo dei quali aveva chiesto la legittimazione della sua esistenza non già agli emiri di Sicilia o a quelli d’Ifriqiya loro diretti sovrani, bensì al califfo abbaside di Baghdad. Ancora ai primi del secolo XI, Mujahid, signore di Denia e delle Baleari, minacciava la Sardegna e il litorale tirrenico.
Mentre verso Occidente e nel bacino del Mediterraneo accadevano queste cose, l’asse islamico si andava spostando verso est; e all’interno della compagine dell’umma l’elemento arabo andava perdendo progressivamente e irreversibilmente terreno. Erano lontani i tempi della conquista di Ctesifonte, la splendida capitale sasanide, nel 636-637, allorché i semplici beduini incapaci di valutare gli immensi tesori caduti nelle loro mani condivano le loro vivande con canfora – che scambiavano per sale – e si distribuivano tagliato in pezzetti il favoloso tappeto imperiale, la “Primavera di Cosroe”. L’impero era diventato troppo grande per la fiera ma numericamente ristretta aristocrazia araba; e d’altronde il carattere universalistico ed egalitario dell’umma musulmana, pur attribuendo alla tradizione araba un primato indiscutibile espresso dal ruolo privilegiato della famiglia del Profeta e dal mantenimento rigoroso di quella araba come lingua sacra (e quindi non solo della preghiera e della teologia, ma anche del diritto e della speculazione filosofica), concedeva che chiunque abbracciasse la vera fede divenisse a tutti gli effetti un fratello degli altri credenti al di là di qualunque differenza etnica, linguistica o d’altro genere. Ciò consentì per tempo ai non-arabi, soprattutto ai persiani, d’insediarsi profondamente nell’umma; e nel rapporto tra mondo arabo e mondo iranico accadde quel ch’era accaduto, nel II-I secolo a.C., in quello tra mondo romano e mondo greco: Persia capta ferum victorem cepit. Non v’è dubbio che la conquista dell’impero sasanide coincise con un’arabizzazione della Persia; alla quale corrispose, però, complementarmente, un’iranizzazione dell’Islam orientale e del califfato abbaside stesso, dove l’elemento persiano fu dominante fra i secoli VIII e X circa. È vero che in linea di principio chi voleva conservare le tradizioni mazdaiche fu libero di farlo, e la religione zoroastriana fu equiparata nella pratica (come avvenne nel Sind per buddhismo e induismo) a quella dei “popoli del Libro”; tuttavia, l’Islam era provvisto di un fascino che non si spiega tutto e soltanto con il fatto ch’era la religione dei vincitori e che il convertirvisi poteva dar accesso al ceto dirigente. D’altronde, i convertiti di fresco venivano tenuti come mawali(«clienti», «liberti») in uno stato di parziale soggezione, e si arrivava – sia pur illegittimamente – a richieder loro di continuar a pagare la jiziya,la «tassa di capitazione» imposta ai dhimmi. Ma tale situazione mutò ben presto: e del resto la stessa rivoluzione abbaside, che prese avvio dall’area orientale dell’impero, fu in parte provocata proprio dai mawali eda essi sostenuta nel nome dell’adesione al puro Islam originario che le scelte autocratiche e centralistiche degli umayyadi imitatori di Bisanzio sembravano aver tradìto.
Fu, comunque, la sintesi bizantino-arabo-iranica che creò la grande tradizione culturale musulmana, quella di al-Biruni, di Avicenna, di ar-Razi. L’Islam è stato accusato di poca originalità: esso avrebbe soltanto accolto, elaborato, sintetizzato; la sua poesia, la sua architettura, la sua filosofia, si sarebbero nutrite di lacerti metabolizzati di cultura alessandrina, persiana, ebraica, protocristiana. Eppure, dinanzi al mirabile equilibrio che questa sintesi – nelle sue infinite variabili locali – ci propone, e della quale l’arabo coranico è il sigillo mentre l’universalismo della fede ne costituisce il fondamento, non si può non concludere che l’effettiva originalità e la vera forza dell’Islam stanno proprio qui: in questa flessibile e spregiudicata capacità di assimilare e ripensare, ridefinire, riproporre, ricreare. Del resto – anche se non mancarono momenti di ritorno al rigorismo –, sotto la tenda del Profeta c’era posto per tutti: per i devoti intransigenti delle scuole coraniche più rigorose, per i filosofi e i teologi platonizzanti che ai devoti non piacevano affatto (e i mullah sciiti di Persia avrebbero in parte ereditato quest’avversione), per i mistici sufi alla ricerca della religio perennis,per i giuristi attenti ad aggirare e a smussare le durezze della sharia,per i mawali che talora custodivano ben celata nei penetrali del loro cuore qualche reliquia della loro antica fede, delle loro avite tradizioni.
Intanto, tra i secoli X e XI, irruppero nell’impero musulmano da est e da nord-est dei nuovi convertiti: i turchi, genti uraloaltaiche estranee per cultura sia agli arabi sia agli iranici indoeuropei; genti che in passato avevano aspramente combattuto la penetrazione musulmana oltre gli antichi Oxus e Jaxartes, vale a dire l’Amu Darja e il Syr Darja. Fu la dinastia originariamente turkmena dei discendenti di un khan del X-XI secolo, Selgiuq – i quali per questo si chiamarono Selgiuchidi –, a venir in soccorso all’indebolita compagine arabo-persiana: nel corso dell’XI secolo, i Selgiuchidi riuscirono ad assumere il controllo di Persia e Irak e il loro capo seppe affiancarsi al califfo abbaside assumendo, col titolo di sultano, il peso onorevole della difesa dell’Islam sunnita orientale, che – di fronte al califfo sciita del Cairo e a quello sunnita ma autonomo di Córdoba –, a Baghdad, appunto, guardava non più come a una capitale teocratico-politica, ma certo come alla sede del vicario e successore del Profeta. I sultani selgiuchidi, con il loro sistema di funzionari subalterni (agha,atabeg, beg)e con la loro costellazione di potentati turchi vassalli nella penisola anatolica, seppero sostenere con il loro valore militare e il loro coraggio il califfato che appariva esausto. Ma da allora si avviò quella rivalità sorda tra turchi e arabi che avrebbe superato la cortina dei secoli, si sarebbe adattata a molteplici migrazioni e a numerosi cambiamenti e avrebbe, infine, giocato un ruolo importante nei primi due decenni del XX secolo.
Neppure i turchi, a ogni modo, poterono – almeno, non prima del XV secolo – aver del tutto la meglio su quello che restava il grande antemurale di nord-ovest al montare dell’Islam: l’impero bizantino. L’esplosione della nuova fede aveva senza dubbio prostrato l’impero; gli aveva strappato Palestina, Siria, Armenia, parte della penisola anatolica, Egitto, Africa settentrionale, Creta, Sicilia; gli aveva sottratto la talassocrazia, senza, tuttavia, riuscire a trasformar del tutto il Mediterraneo in un “lago musulmano”. Fra VII e VIII secolo, la stessa capitale aveva dovuto subire ripetuti, pesanti assedi da parte musulmana; nel 1080, in seguito alla vittoria di Manzikert del 1071, i turchi fondarono in piena Anatolia il sultanato di Rum(così chiamato in quanto prossimo ai Romaíoí, i bizantini) con capitale in Iconio; ma, nonostante questi fieri colpi, la compagine imperiale resistette. La storia mediterranea dei secoli VII-X è, pertanto, quella di un costante fronteggiarsi tra musulmani e bizantini: e anche se gli europei occidentali forgiarono i miti di Poitiers e di Roncisvalle – il secondo poeticamente più struggente, ma storicamente ancor più falso del primo – resta il fatto che fu Bisanzio a sostenere l’urto più pesante dell’offensiva musulmana.
Il secondo millennio
Le cose mutarono, e in modo profondo, nel corso del XI secolo. Bisanzio cercava faticosamente un ubi consistam nei confronti dell’Islam che premeva da un’Anatolia ormai turchizzata: e a tal fine, se da un lato perfezionava gli strumenti della sua tradizionalmente accorta diplomazia, dall’altro cercava insistentemente in Occidente quei guerrieri barbari pesantemente armati e adusi al combattimento equestre che poi inviava come mercenari lungo i mobili confini dell’Asia minore (e tra questi mercenari v’erano, sempre più frequenti, dei normanni). L’Occidente dal canto suo si risvegliava da un lungo torpore e individuava nella Spagna, nel Mediterraneo, nel Vicino Oriente le sue immediate linee d’espansione accanto a quella continentale, volta a nord-est, che fin dall’età carolingia e ottomana aveva caratterizzato la giovane Cristianità germanica. Per i franchi, cioè gli europei occidentali, il nemico era costituito da quelli che di solito si chiamavano saraceni, “figli di Sara”; o, con maggior adesione al racconto biblico, agareni,“figli di Agar”; gli stessi che oltre i Pirenei si definivano mauri – in quanto provenienti dall’antica Mauritania – o, come dicevano castigliani e catalani con un termine destinato a grande fortuna e a complesse vicende semantiche, moros. Dovunque si movessero, gli europei s’imbattevano nei saraceni: in Spagna, dov’essi infestavano e minacciavano le vie dirette alla grande meta occidentale del pellegrinaggio: il santuario galiziano di Santiago de Compostela; nel Mediterraneo, dove le marinerie pisana e genovese erano costrette a battersi duramente per liberare le coste tirreniche dall’incubo delle incursioni corsare e per ripulire dai musulmani la Corsica e, più tardi, le Baleari (ma ciò le avrebbe condotte anche ad assalire, nel 1063, il porto di Palermo, e, nel 1087, la città di al-Mahdyyah nell’attuale Tunisia); nella penisola anatolica, dove i mercenari normanni si trovavano ad affrontare i turchi selgiuchidi e danishmenidi.
Da questa continua presenza dell’Islam, alla quale l’uso della lingua araba procurava una patina unitaria che non corrispondeva affatto alla frammentazione politica che invece la caratterizzava, la Cristianità d’Occidente traeva l’impressione di esser quasi accerchiata. In realtà, era semmai vero il contrario: l’incontro con i musulmani lungo un vasto fronte dai Pirenei al Mediterraneo al Caucaso non era determinato dall’aggressivo espansionismo di questi, che semmai aveva avuto luogo tra VII e X secolo ma che si era, ormai, arrestato, bensì dalla forza e dall’irruenza con cui gli europei dilagavano al di là delle loro frontiere abituali. Una forza e un’irruenza che si esprimevano in vario modo: dall’incremento dei pellegrinaggi a quello dei commerci, alle ripetute spedizioni dei cavalieri francesi oltre i Pirenei per partecipare a quei combattimenti che già si andavano componendo nell’organico quadro della Reconquista,sino alla diaspora normanna che conduceva gli animosi guerrieri dai capelli rossi e dai grandi scudi a mandorla allo scontro con i musulmani arabo-berberi di Sicilia e con quelli turchi d’Anatolia. Ne nacque quel che si è soliti definire, un po’ impropriamente, “spirito di crociata”, gli ideali e le pratiche connessi col quale erano destinati ad allargarsi in impensate direzioni: non solo verso la Spagna e l’Africa, com’era in fondo ovvio, bensì anche verso il nord-est europeo, e più tardi addirittura a “implodere” all’interno della Cristianità stessa con spedizioni anch’esse crociate – i partecipanti alle quali godevano di privilegi spirituali e d’immunità giuridiche – addirittura a contrastare gli eretici e perfino i nemici puramente politici del papato.
All’abuso della crociata, che si estende fino a tutto il Trecento, apportò un correttivo tra quel secolo e il successivo l’affacciarsi in Anatolia e nei Balcani di una nuova minaccia: quella costituita dai turchi ottomani i quali non solo avrebbero conquistato Costantinopoli e cancellato quel che restava dell’impero bizantino nel 1453 (consentendo, d’altronde che l’eredità imperiale ortodossa venisse raccolta dai granprincipi di Mosca, la “Terza Roma” della quale essi si proclamarono imperatori), ma per quasi tre secoli dopo quella data avrebbero terrorizzato l’Europa con il pericolo di una loro invasione, spingendola a una nuova serie di “crociate” difensive posta delle quali peraltro non era più la liberazione dei Luoghi Santi bensì la sicurezza continentale. L’avvento e l’affermazione drammatica dei turchi ottomani sulla scena eurasiatica e mediterranea, maturato nel 1453 con la conquista di Costantinopoli, segnò un’ulteriore svolta nei rapporti fra Cristianità europea e mondo musulmano. Da allora in poi per quattro secoli – a parte il caso degli inglesi, che, nel corso dell’Ottocento, entrarono per note vicissitudini coloniali in contatto con quello di tradizione moghul vivo nel subcontinente indiano –, l’Islam fu, nella sensibilità europea, qualcosa di fondamentalmente turco, con lievi appendici arabe, berbere (i celebri “corsari” barbareschi, terrore delle coste mediterranee tra Cinque e Settecento…) e tartaro-persiane.
Anche la questione crociata divenne, tra la presa di Costantinopoli del 1453 e l’assedio di Vienna di duecentotrent’anni dopo, essenzialmente il “problema turco”. È uno strano errore di prospettiva storica quello che ci fa ritenere, oggi, chiuso lo spirito di crociata con il fallimento delle spedizioni in Terrasanta relativamente consuete fra XII e XIII secolo. Mai si parlò tanto di guerre sante contro l’infedele come nell’Europa tra Rinascimento e Barocco: non a caso, la Gerusalemme del Tasso fu il più caratteristico frutto poetico della battaglia di Lepanto e della reazione europea alla minaccia turca che incombeva sui Balcani, toccava due volte – nel 1529 e nel 1683 – la stessa Vienna, dilagava nel Mediterraneo appoggiandosi al dinamismo dei corsari barbareschi contro i quali la Cristianità schierava le marinerie degli Ordini di Malta e di Santo Stefano (che, del resto, svolgevano un’attività dal canto loro non diversa da quella dei corsari).
Se nel tardo medioevo la crociata era stata un alibi formidabile nelle mani della curia papale, che, grazie a essa, poteva raccogliere elemosine e speciali imposte (le “decime”) nonché sfruttare la disciplina dei voti solennemente formulati per spedir combattenti cristiani a battersi per fini diversi da quelli del recupero dei Luoghi Santi, all’alba del mondo moderno essa – quindi, indirettamente, l’Islam – divenne il motore di una specie di primitiva configurazione “federale” d’Europa. La politica delle “sante leghe” che riunivano contro il Turco tutti i principi del continente cristiano, sotto la formale presidenza dell’imperatore romano-germanico o del papa, caratterizzò – quando la situazione internazionale lo permetteva – la strategia europea fino alla Santa Alleanza del 1684, che, sotto la presidenza di papa Innocenzo XI, riuniva Austria, Polonia e Venezia, alle quali nel 1686 si aggiunse anche la Russia, e che doveva preludere alla definitiva liberazione dalla minaccia ottomana sui Balcani e al primo affacciarsi dell’impero russo sul Mar Nero. Infatti, fu in quell’occasione che l’Ungheria venne definitivamente posta nel 1687 sotto la corona asburgica e Azov conquistata nel 1696 dallo zar Pietro il Grande. La pace di Passarowitz, stipulata nel 1718 dopo la trionfale campagna balcanica di Eugenio di Savoia, segnò l’avvio della lenta ma irreversibile decadenza dell’impero ottomano.
Insomma, se è vero che le relazioni turco-cristiane nella prima età moderna risuonano del fragordelle armi, è non meno vero che i rapporti diplomatici e commerciali erano intensi e frequenti, mentre il Mediterrraneo – “continente liquido”, come l’ha definito Fernand Braudel – pullulava di personaggi ambigui e affascinanti che da avventurieri o da schiavi passavano con disinvoltura da una parte all’altra, mutando credo (e diventando, così, “convertiti” per gli uni, “rinnegati” per gli altri); giocando, pertanto, un ruolo mediatore tra le due culture del quale, fino a tempi recenti, si è sottovalutato l’importanza. Ma dei pescatori calabresi e dei pastori albanesi divenuti reis, agha, pascià, beyo addirittura vizir, come dei piccoli cristiani catturati nelle razzie ottomane e allevati nella rigorosa disciplina dei giannizzeri, già molto si sapeva: pur considerando tutto ciò più una serie di curiosità “minori” della storia che non un dato strutturale delle vicende mediterranee, come invece sembra ormai corretto fare.
L’impero ottomano si avviò alla rapida decadenza nel corso del Settecento e non fu capace di riprendersi neppure nel secolo successivo, nonostante i vari tentativi di modernizzazione. La Persia degli shahsafawidi prima, kajiari dopo, dovette progressivamente cedere alla pressione congiunta delle rivali Inghilterra e Russia, che intanto avevano avviato nell’Ottocento il Great Game, il “Grande Gioco” della corsa alla conquista dell’Asia centrale e dell’area himalayana, che si concluse con l’ampliamento fino ai margini dell’Afghanistan dell’impero zarista e con la fondazione dell’impero coloniale britannico in India, che fagocitò quello moghul, edificato fra Quattro e Cinquecento dai successori di Tamerlano.
Speranze e frustrazioni
La spedizione in Egitto e Siria del generale Bonaparte, nel 1798-99, e l’esperienza riformatrice per molti versi aperta all’Occidente dei sultani Selim III e Mahmud II – o, in Egitto, di Muhammad Alì –, tra fine del Sette e inizio dell’Ottocento, sembrarono aprire un’epoca nuova. Ma mentre in Turchia la modernizzazione e l’occidentalizzazione apparvero – come divenne chiaro allorché, ai primi del Novecento, i vari movimenti democratici, progressisti e nazionalisti si fusero nel partito dei Giovani Turchi – un tentativo, per molti versi in extremis, di salvare l’impero ottomano apportandovi al tempo stesso un correttivo laicizzante, nei paesi arabi e soprattutto in Egitto (un mondo straordinariamente aperto all’influsso occidentale e soprattutto inglese) si andava affermando una serie di istanze a carattere innovatore che trovarono espressione nel pur composito movimento del nahda (letteralmente “risorgimento”), in qualche misura ispirato a quanto era avvenuto pochi anni prima o stava avvenendo in vari paesi europei: a cominciare dalla Grecia, assunta a modello non solo perché la sua lotta per la libertà tra 1821 e 1829 era divenuta mitica nell’àmbito del liberalismo inglese che influenzava molto i giovani intellettuali arabi, ma anche perché il suo sforzo era diretto contro l’oppressore ottomano, che neppure nel mondo arabo era amato.
Qui, però, insorgeva, per gli arabi musulmani, un ostacolo: i turchi erano pur parte dell’umma dei credenti, e il sultano portava il titolo di califfo, per quanto lo avesse assunto in modo discutibile. Occorse un lento, lungo lavoro di preparazione politica e culturale – reso più facile dalla frequenza di molti giovani dell’élite borghese e anche nobiliare araba nelle università di Parigi, di Oxford e di Cambridge – prima che l’idea di “nazione”, di caratteristico stampo occidentale moderno, facesse breccia e si radicasse. Alla luce di essa e del promesso raggiungimento dell’unità politica e di una “grande patria araba” estesa dal canale di Suez al Tigri e dall’Alto Eufrate allo Yemen, gli arabi parteciparono nel 1916, al seguito dello sceriffo hashemita Hussein, “custode della Mecca”, al teatro vicino-orientale della prima guerra mondiale; o meglio, a quel che per inglesi e francesi era lo scenario sud-orientale del conflitto contro Germania e Turchia, mentre per essi era una guerra d’indipendenza e, in prospettiva, di unità nazionale. È logico che l’Islam, che ai primi del Novecento pareva già in crisi, che sultani e “califfi” ottomani avevano ridotto a un formalismo che poteva sembrar vuoto e che gli arabi – scendendo in guerra contro i correligionari turchi e a fianco degli “infedeli” franco-inglesi – avevano a loro volta posto in qualche modo in disparte o comunque subordinato ad altri obiettivi in quel momento più cogenti, ne uscisse indebolito. Sbiadito.
Ma gli eventi successivi agli accordi Sykes-Picot, raggiunti proprio mentre scoppiava la rivolta araba contro i turchi e che prevedevano la spartizione del Vicino Oriente in due aree d’influenza – rispettivamente – francese e inglese, nonché le conseguenze della “dichiarazione Balfour” del 1917, relativa alla creazione di un «foyer nazionale ebraico in Palestina», secondo le aspirazioni del movimento sionista, allontanarono il deluso mondo arabo dall’Occidente. L’ascesa in termini di potere e di prestigio nella penisola arabica del wahabita Ibn Saud, che impedì allo sceriffo Hussein di rivendicare per sé il rango di califfo e nel 1926 convocò un congresso panislamico per farsi assegnare la custodia dei Luoghi Santi musulmani, segnò una forte ripresa dell’Islam. L’esempio saudita, ispirato al rigore proprio della setta wahabita, e i duri programmi di laicizzazione e di modernizzazione portati avanti in alcuni paesi musulmani come la Turchia di Mustafà Kemal o la Persia di Reza Shah, provocarono come contraccolpo la nascita di movimenti a carattere pietista e tradizionalista, come i “Fratelli musulmani” di Hasan al-Banna nell’Egitto degli Anni Venti. A essi, più di recente si sono andate aggiungendo le istanze radicali dei gruppi con termine improprio – poco felicemente desunto dal mondo protestante americano – definiti “fondamentalisti”: il caso più celebre dei quali è quello sciita iraniano guidato dallo ayatollah Rukhullah Khomeini. Il 1967, con la sconfitta e l’umiliazione del mondo arabo nella “guerra dei sei giorni” contro Israele, è stato il tournantdella sensibilità arabo-musulmana nei confronti della fede in rapporto con la politica e la costruzione della nazione araba. Poiché la guerra era stata perduta proprio da quei governi che nel mondo arabo rappresentavano l’ala “laica” – l’Egitto nasseriano, la Siria, la Giordania –, si andò da allora diffondendo un sia pur articolato sentimento, una sia pur non sempre chiara coscienza che solo l’Islam avrebbe potuto restituire dignità, identità, coesione, prosperità a tutti coloro che si riconoscessero nell’umma. Ciò ha fino a oggi non solo determinato la crescita sia dei tradizionalisti – che s’impegnano per un ritorno a una vita pubblica e privata ispirata ai princìpi del “puro Islam” – sia dei radicali – che si battono per mobilitare attorno all’ortodossia islamica le energie delle masse popolari, usando quasi della religione come in Occidente si è a lungo fatto dell’ideologia –, ma ha consentito in tutto il mondo, dove ormai la diffusione dell’Islam (sia in termini di “diaspora” da terre musulmane, sia di proselitismo e pertanto di conversioni) è forte, un incremento quantitativo dei credenti unito a una propaganda e a un’ostentazione della fede religiosa concepita anche come elemento di identità che si presenta con sempre maggior evidenza.
Le sfide del mondo contemporaneo
Dopo l’11 settembre 2001 e l’avvio di quella che è stata definita la “guerra contro il Terrore”, è divenuto progressivamente chiaro che in nessun modo si può parlare di “scontro di civiltà”. La stragrande maggioranza dei musulmani desidera una pacifica convivenza con gli “occidentali”, che, del resto, è lungi dal considerare estranei data che ormai quella che di solito si usa definire – molto genericamente e impropriamente – “civiltà occidentale” è divenuta la nuova koinè diàlektosdel mondo intero. Va però da sé che, come più volte era stato segnalato con lucidità ed energia esemplari da Giovanni Paolo II ed è stato adesso ribadito da papa Francesco, la miseria e l’ingiustizia che coinvolgono i quattro quinti della famiglia umana sono purtroppo il vero brodo di cultura del terrorismo: e la recente politica di guerra inaugurata dal governo statunitense e dai suoi alleati nel Medio e nel Vicino Oriente non ha fatto che portar acqua al mulino di quanti hanno interesse, da Usama b. Laden ai portavoce di quel Daesh(Dawa al-Islamiyya al Iraq wa al-Shamm, “Potere islamico sull’Iraq e sulla Grande Siria”; con sigla anglizzata, ISIS), a dimostrare che l’Occidente “dei crociati” è in blocco nemico dell’Islam. Come spesso accade, gli opposti estremismi si sostengono e si giustificano a vicenda: quello fondamentalista e terrorista islamico ha trovato un perfetto supporto nell’unilateralismo aggressivo teorizzato dai gruppi d’intellettuali e di politici americani cosiddetti “neoconservatori”, e viceversa. In particolare, con le aggressioni alla Libia e alla Siria nel 2011 e con la vicenda durata almeno tre anni (2014-2017) del Daesh, la difficoltà di tracciare una soglia definitiva fra “noi” e “loro” si è fatta evidente. Molte delle fazioni confluite nell’ISIS sono state appoggiate e finanziate dagli alleati occidentali del mondo arabo; Sauditi in testa. Negli ultimi anni è apparso quanto mai evidente che uno dei principali e più pervicaci fattori di pericolo sia per l’equilibrio all’interno del mondo musulmano sia per i rapporti fra esso e l’Occidente è costituito dalla fitna (“lotta”, “guerra civile”) che alcuni stati arabi della penisola – segnatamente, l’Arabia saudita –, non si stancano di lanciare nei confronti dell’Islam sciita e della sua potenza-guida: la repubblica islamica dell’Iran. A tale riguardo, con l’amministrazione Trump è emerso sempre più evidente il paradossale asse antiraniano e antisciita che ha come soggetti due potenze che formalmente non mantengono fra loro rapporti diplomatici, cioè Arabia Saudita e Israele, ma il cui tramite è il governo di Washington.
Gli europei e in generale gli occidentali, che guardano comprensibilmente con orrore agli episodi di terrorismo che li coinvolgono o comunque che li minacciano, dimenticano o sottovalutano che le prime vittime del conflitto in corso sono i musulmani stessi; e che spesso armi e appoggio strategico agli estremisti salafito-wahhabiti sono forniti da governi arabo-musulmani “filoccidentali” e dai nostri stessi governi che ufficialmente combattono i terroristi ma poi con essi scendono a patti. In Yemen, ad esempio, si sta consumando un massacro del quale si parla pochissimo, perché la proxy war fra Sauditi (ai quali i governi di Stati Uniti ed Europa, in strettissimo rapporto diplomatico e finanziario con loro, forniscono appoggio diplomatico e vendono le armi) e Iran (a sua volta sostenuto sia pure con discrezione da Russia e Cina) si serve dei gruppi rispettivamente sunniti e sciiti locali. Gli attentati sul suolo europeo, per quanto gravissimi, non sono che la ricaduta di quanto sta avvenendo al di là del Mediterraneo con il nostro stesso appoggio. I rapporti attuali tra Europa e Islam, insomma, andrebbero ripensati alla luce di due fattori: tenendo da una parte con lucidità presente che l’Islam non è più “Altro-da-noi” in quanto esiste ormai un “Islam europeo” fatto sì d’immigrati (magari di seconda e terza generazione) ma anche di europei convertititi, con i quali bisogna mantenere anzi consolidare un equilibrio che non è utopico bensì ormai già un dato di fatto in molte metropoli (Londra e Berlino; e sono solo due esempi); e dall’altra che è necessaria da parte dei governi e dei soggetti economico-finanziari europei la rinuncia a facili guadagni e a deleterie alleanze con paesi arabi collusi con i movimenti fondamentalisti: in Siria e in Libia, per esempio, si è fatto esattamente l’opposto; a Ryad, il presidente Trump, alla fine del 2017 ha denunziato complicità e responsabilità in senso esattamente opposto rispetto a quanto è finora emerso con chiarezza dinanzi agli occhi degli osservatori più obiettivi ed avvertiti. Guardare al mondo islamico come a una globale minaccia e continuare a ripetere il luogo comune della “guerra di civiltà” mentre nella realtà delle cose ci si collega ai sostenitori dell’islamismo radicale di cui i wahhabiti sono portatori non fa che rinviare una riflessione impellente sullo stato delle cose e sulle nostre politiche del passato e del presente. Rischiamo, al momento, un errore analogo a quello a suo tempo denunziato da Bertolt Brecht: marciare contro il nemico seguendo il nemico che marcia alla nostra testa.