Minima Cardiniana 221/1

Domenica 11 novembre 2018. XXXII Domenica del Tempo Ordinario. San Martino di Tours

PETRA

Petra, nell’attuale Giordania sudoccidentale, a 120 chilometri circa a nordest del centro balneare di Aqaba sul Mar Rosso, divenne famosa anzitutto da quando, nel 1812, fu scoperta dal geografo ed esploratore Johann Ludwig Burckhardt, un eccentrico viaggiatore ventottenne che si era convertito all’Islam e che, in abiti beduini, sarebbe arrivato alcuni mesi dopo alle fonti del Nilo. Pochi anni dopo, nel 1828, la città e il pittoresco sistema di canyons scavati dall’azione millenaria dell’acqua sulle rocce al centro del quale essa si trovava furono visitati da due francesi abili disegnatori: Léon de Laborde e Louis-Maurice Linant de Bellefonds, futuro ingegnere capo dei lavori del canale di Suez. Da allora la città divenne mèta di viaggiatori e di turisti; la sua fama esplose, tuttavia, dopo ch’essa fu scelta quale cornice scenografica per il film di Steven Spielberg Indiana Jones e l’ultima crociata (1989).

Le antiche popolazioni d’idioma semitico che fino dal II millennio a.C. abitavano l’area settentrionale della penisola arabica, ricchissima di minerali e soprattutto di rame, chiamavano Raqmu (“il Variegato”) tutto il massiccio montuoso di roccia cristallina mischiata a granito verdegrigio e a porfido rossastro che, inciso da millenari corsi d’acqua a tumultuoso regime torrentizio, venne occupato dalle genti edomite. I colori delle vene rocciose che formano fantastici disegni dal giallo al porpora al bruno sono ancora oggi la caratteristica principale delle vallate torrentizie (wadi) e degli stretti passaggi (siq) incassati tra ripide pareti di roccia.

Secondo il racconto biblico (Libro dei Numeri, 20, 17-21), verso il XIII secolo a.C., gli edomiti avrebbero contrastato gli ebrei provenienti dall’Egitto al seguito di Mosè. Nella tradizione musulmana, il profeta, percotendo con la sua verga prodigiosa la roccia, avrebbe fatto scaturire da essa una sorgente distinta in dodici fonti, chiamata Ain Musa (appunto, “Sorgente di Mosè”: ne parla il Corano, 2, 57).

Quell’anello montuoso di aspre rocce che ospitava e proteggeva un sistema di piccola valli alle quali si accedeva attraverso stretti cunicoli spesso invasi da tumultuose acque torrentizie sembrava fatto apposta per ospitare e difendere piccole, ricche comunità nomadi che vivessero di scambi lungo il sistema di piste carovaniere adiacenti: ch’erano appunto quelle che configuravano la “Via delle Spezie” o (“degli Aroma”), la quale fino dalla preistoria metteva in comunicazione il golfo di Aden all’estremo sud della penisola arabica, dove approdavano le navi provenienti dall’Oceano indiano, con i porti egiziani e siriaci del Mediterraneo. Se ne resero conto nel VI secolo a.C. i nabatei, una popolazione semitica di mercanti-predoni che, al centro dell’area di Raqmu, avrebbero creato un’opulenta città carovaniera che seppe convivere con l’impero persiano, i regni ellenico-siriaci nati dalla conquista di Alessandro Magno, i re-sacerdoti ebrei della monarchia asmonea e infine i romani. Organizzati in regno sotto saggi e lungimiranti monarchi come Areta IV (8 a.C. – 40.d.C.), i nabatei furono inquadrati nell’impero romano sotto Traiano, che nel 106 d.C. fondò appunto nella regione detta “Nabatene” la provincia dell’Arabia chiamata Petraea appunto dal nome attribuito in latino a quel favoloso centro demico incoronato e protetto dalle colossali rocce dai mille colori.

Sopravvissuti ancora tutelando la loro indipendenza di frontiera tra persiani, romano-bizantini e arabi musulmani, i nabatei dovettero alla fine cedere sotto la violenza dei cataclismi naturali: fu probabilmente una serie di terremoti a distruggere gli splendidi monumenti della loro città. Oggi molti di essi sono stati restaurati, mentre incredibilmente belle sono le tombe rupestri scavate nella viva roccia delle pareti montane che attorniano la città: alcune di esse hanno la monumentalità e la grandezza di templi e di palazzi.

I crociati, che nel corso del XII secolo ancora visitavano quei luoghi, vi fondarono alcuni avamposti, uno dei quali, con parola eloquente, era denominato dagli arabi al-Wuhaira, “la Rovina”. Il castello crociato di al-Wuhaira, in parte restaurato anche grazie alla missione archeologica dell’Università di Firenze coordinata da Guido Vannini, è divenuto, oggi, una delle tappe dei turisti che sempre più fanno di Petra una delle loro mète privilegiate a livello mondiale. Poi quel luogo fiabesco scomparve, dimenticato da tutti: solo Burckhardt  avrebbe fatto risorgere dall’oblìo, al principio dell’Ottocento, quell’antica “città perduta”.

Franco Cardini