Minima Cardiniana 231/2

Domenica 27 gennaio 2019 – III Domenica del Tempo Ordinario – Sant’Angela Merici – Giorno della Memoria – Duecentosessantatreesimo anniversario del genetliaco di Wolfgang Amadeus Mozart

LA MEMORIA E IL RICORDO

IL DOVERE DELLA MEMORIA, LA FATICA DELLA MEMORIA, L’ONESTA’ DELLA MEMORIA, IL PRETESTO DELLA MEMORIA, L’INGANNO DELLA MEMORIA, L’OFFESA ALLA MEMORIA 

La memoria è la garante della nostra identità. Come diceva Platone, sapere è ricordare: se non ricordiamo, non sappiamo niente: peggio, non siamo niente. Ciò vale d’altronde per la memorie e l’identità individuali. Ma resta valido anche per quelle comuni, o meglio comunitarie? Qui il discorso si fa davvero più problematico. La memoria è connessa con la coscienza di possederla e la volontà di conservarla e di potenziarla: non a caso, nell’antichità e nel medioevo – ma anche fino a tempi recenti: ricordate quell’“imparare a memoria” della nostra vecchia scuola che troppi deleteri maestrini condannavano come  “vuoto nozionismo”? – s’insegnavano interessanti sistemi mnemotecnici: mentre oggi non riusciamo a ricordar quasi nulla e siamo tutti drammaticamente agendodipendenti, computerdipendenti e cellulardipendenti.

Ma la memoria, lasciata a se stessa, si traduce in una sorta di continuum indistinto. Essa dev’essere sorvegliata, educata, razionalizzata. Da sola, non serve a nulla e svanisce presto: “L’uomo non ricorda nulla: ricostruisce di continuo”, ammoniva un grande storico, Lucien Febvre. E, difatti, la storia è questo: razionalizzazione critica della memoria.
Ma dir ciò  equivale ad affermare che, se vogliamo salvarci dallo svanire “naturale” della memoria, legato ai miserabili processi fisiologici della nostra mente e ai limiti della nostra struttura psicofisica, la memoria dev’esser selettiva. E qui nasce il problema: che cosa bisogna scegliere di ricordare, che cosa scegliere di dimenticare (o finger di aver perduto casualmente per strada)? Poiché non v’è chi non veda che la cosa è delicata, contraddittoria, allarmante. Si è parlato molto, specie negli ultimi tempi, del “dovere di ricordare”; il che non toglie, però, che, dinanzi a certi eventi, si discuta spesso anche dell’opportunità o addirittura della necessità morale di dimenticare. Allo stesso modo, i mass media ci mostrano, talora, scene terribili, esortandoci al dovere della memoria; e talaltra dichiarano candidamente – senza mostrar di aver rilevato la contraddizione – che, per esempio, determinate immagini sono troppo crude, ragion per cui è meglio non mostrarle. In molti idiomi le parole che indicano il perdono sono legate al campo semantico dell’oblìo: come a suggerire che l’unico modo sicuro di perdonare è il dimenticare. Il che, dal punto di vista cristiano, è tragico: non a caso, etimologicamente parlando, per-donare significa “donare in modo estremo e totale”, il che è esattamente il contrario dell’oblìo. La polemica, sulle prime accanita e ormai sopìta, sui libro dedicati da Giampaolo Pansa ai delitti avvenuti dopo la fine della seconda guerra mondiale, che in fondo non dicevano nulla che già non si sapesse (per quanto finora si fosse evitato di discuterne), ripropose già anni or sono il tema delle cose “che sarebbe meglio dimenticare”. Ma nel nome di quale logica e di quale etica esisterebbero cose da ricordare e cose da dimenticare, delitti inobliabili e delitti trascurabili, vittime di serie A e vittime di serie B? Forse quelle secondo le quali – come sostiene, appunto, la Chiesa sulle tracce di Agostino – non poena, sed causa facit martyrem? E, del resto, quel ch’è giusto a livello martirologico lo è anche a livello storico? Le vittime innocenti o presunte tali sono onorabili solo nella misura in cui stavano dalla parte della causa giusta, e spregevoli, invece, quando stavano da quella sbagliata? E la storia, poi, serve davvero a decidere quali parti sono quelle giuste e quali quelle sbagliate?

Rinfreschiamoci le idee: perché uno dei peggiori difetti della società civile italiana – diciamolo proprio, dal momento che stiamo parlando di memoria – è di aver la memoria corta. In Italia, una serie di eventi e di polemiche non priva di aspetti ridicoli e sconcertanti condusse anni fa alla proclamazione di due differenti giornate consacrate al ricordare: la “Giornata della memoria” del 27 gennaio, ufficialmente promossa dal Parlamento nel 2002 sulla base di una legge pubblicata sulla “Gazzetta Ufficiale” n. 177 del 31 luglio del 2000, che avevamo già imparato a considerare come una scadenza consueta nonostante fosse  recente, e che fu accolta con serietà e perfino con entusiasmo almeno ufficiale soprattutto nel mondo della scuola; e il “Giorno del Ricordo” del 10 febbraio. Per quanto, ormai, non lo si ricordi più, quando si istituì la giornata del 27 gennaio affiorò immediatamente un problema molto delicato. Si stabilì con la massima concordia di assumere a data simbolica quel tragico ma anche liberatorio 27 gennaio del 1945, quando le truppe sovietiche varcarono allibite i tristi cancelli di Auschwitz. Ma alcuni pensavano – e tale era l’intenzione del promotore parlamentare, Furio Colombo – che la ricorrenza avrebbe dovuto incentrarsi sulla Shoah e radicarsi nella meditazione di quella tragedia, avvertita come unica. Altri, che furono messi prima in minoranza e poi a tacere a livello massmediale, ritenevano, invece, che della Shoah si dovesse sottolineare non tanto l’unicità quanto l’esemplarità: l’olocausto degli ebrei e delle altre vittime del nazismo, come gli zingari, pur essendo dotato di caratteri propri e peculiari, avrebbe dovuto essere occasione per ricordare tutte le vittime di tutti i massacri, i genocidi, le “pulizie” (etniche o sociali o civili che fossero), insomma tutti gli orrori di cui la storia dell’umanità è costellata. Qualcuno obiettò che ciò sarebbe equivalso a fraintendere obiettivamente la Shoah, a farne un episodio, sia pur terribile, tuttavia in qualche modo paragonabile ad altri; e, quindi, a obiettivamente minimizzarla. Tali pareri prevalsero: e, da allora, il 27 gennaio è divenuto esclusivamente giorno della memoria della Shoah.

Ora, il ricordare la Shoah non è certo un  fatto “di sinistra”, o prerogativa delle sole sinistre. Ci mancherebbe. Ma il 27 gennaio aveva lasciato in qualcuno un residuo disagio, come se mancasse qualcosa: si rimediò successivamente con la giornata del 10 febbraio, dedicata alle vittime delle foibe. Ma era una soluzione bipartisan, una sorta di par condicio che francamente faceva acqua da tutte le parti: come se così, con quella scelta, si accontentasse tutto l’arco parlamentare ed elettorale instaurando una giornata della memoria un po’ più di sinistra e una un po’ più di destra. Ma da un lato la memoria della Shoah non può esser patrimonio d’una sola parte; e dall’altro bisogna dire che la tragedia delle foibe, per quanto terribile, è imparagonabile con quella dei campi di sterminio. E, comunque, posta così, tutta la faccenda non riesce a evitare lo spiacevole gusto di qualcosa di strumentale.

La giornata della memoria dovrebbe servire a uno scopo preciso: a rafforzare in tutti i cittadini – e soprattutto nelle più giovani generazioni – non solo la memoria della tragedia della Shoah, ma anche la consapevolezza profonda delle cause storiche che ad essa condussero e la coscienza che alta e costante dev’essere in tutti gli uomini liberi la consapevolezza che solo una vigilanza continua, ispirata agli irrinunziabili principi della giustizia e della libertà, impedisca che aberrazioni ed orrori come quelli del passato possano tornare – magari in nuove vesti e sotto nuove  forme – a minacciare il futuro della nostra Europa e del mondo.

Ma la memoria storica – che sottintende, appunto, una selezione di quanto è degno di esser ricordato – ha, in una società civile libera e consapevole, la funzione altissima di contribuire alla progettazione d’un futuro migliore e più giusto. Se così non fosse, le nostre celebrazioni dei fatti gloriosi o tragici del passato altro non avrebbe se non una funzione retorica destinata a sclerotizzarsi e a cadere, col tempo, nel vuoto. La Shoah è stata un evento d’una gravità unica e qualitativamente inconfrontabile con qualunque altro. Ma proprio questo suo carattere, ponendola al centro di quel grande tragico secolo ch’è stato il Novecento, la rende avvenimento esemplare: e obbliga non solo al ricordo costante e profondo di quel ch’è stata in sé e per sé, ma anche ad assumerla a simbolo di tutti gli orrori, le sofferenze, le tragedie del mondo e della storia. Ad Auschwitz e negli altri luoghi di orrore e di conferenza, si è consumata la tragedia di tutta l’umanità. Dopo di essa, tutti noi non possiamo non sentirci ebrei. Ma le condizioni che permisero quell’orrore appartengono, nel loro carattere storico specifico, a un passato che non potrà più tornare sotto quelle medesime forme. Lo stesso razzismo, che ne fu il movente demagogico e pseudoscientifico, appare al giorno d’oggi confinato in ristrette ancorché virulente aree subculturali della nostra società; e l’antisemitismo – contro il quale la vigilanza non può venir mai meno – è ormai costretto a dissimularsi e a camuffarsi per guadagnare un po’ di miserabile sopravvivenza.

Se, d’altra parte, le infamie e le tirannie del passato sono finite e destinate a non ripresentarsi più nella veste che in passato hanno assunto, il ventre che le ha partorite è sempre gravido di altri mostri: magari d’aspetto diverso. I totalitarismi non esistono più (tirannia e violenza non bastano a qualificare il totalitarismo) e la guerra sembrava scomparsa – almeno nelle forme in cui eravamo abituati a conoscerla – dal nostro Occidente: ma il mondo pullula di piaghe non ancora sanate, d’ingiustizie feroci, di sperequazioni che determinano a loro volta massacri ed ecatombi. E’ necessario, purtroppo, riconoscere che la stessa Shoah, talvolta, è stata utilizzata come alibi per riempire con il suo orrore la scena della storia e impedire che si parlasse di altri massacri, di altri genocidi.

La memoria è un dovere. Ma fin dove si estende la doverosità della memoria? E’ lecito ricordare i massacri recenti e dimenticare quelli più antichi? E, ammesso che ci si possa rassegnare all’impossibilità obiettiva di caricare la nostra coscienza di tutti i mali del mondo e della storia, è accettabile piegarsi a un’immonda computisteria funebre o aderire alla logica infame secondo la quale vi sarebbero ingiustizie e sofferenze inobliabili e ingiustizie e sofferenze sulle quali, al contrario, può passare la spugna  dell’indifferenza? Nella società massmediale, assenza della memoria significa obiettivamente cancellazione della storia. Sarebbe  lecito – interpretrando alla lettera il testo della legge istitutiva della “Giornata della Memoria” (ma, crediamo, tradendone lo spirito profondo) – limitarsi  iterativamente ogni anno al ricordo storico della Shoah restringendone, appiattendone e in pratica negandole il valore simbolico di tragedia non solo del popolo ebraico, non solo del Novecento, bensì di tutta l’umanità e di tutta la storia?

In verità, alla celebrazione e all’approfondimento della memoria della Shoah si dovrebbe accompagnare l’individuazione e il profilo storico degli altri massacri, degli altri genocidi, degli altri orrori remoti nel tempo: a onorare il ricordo delle vittime di essi, oggi troppo spesso dimenticati, e a ricostruire le circostanze degli avvenimenti che condussero alle tragedie su cui è sceso il silenzio dell’oblìo o a proposito delle quali troppo flebile è la voce del ricordo. E ce ne sono: anche in tempi successivi alla Shoah, anche  in tempi recentissimi. Ve ne sono addirittura di ancora in atto: e di alcuni di essi noi potremmo anche scoprirci purtroppo corresponsabili, se non altro col nostro silenzio e con la nostra colpevole disinformazione. Lasciamo, quindi, da parte, se vogliamo, i grandi e sconvolgenti casi del passato: i native Americans massacrati non solo con le armi ma anche con la distribuzione dell’alcool e delle coperte contaminate dal vaiolo, gli hawaiiani degli Anni Trenta dell’Ottocento sterminati dal morbillo, gli armeni vittime della “pulizia etnica” dei Giovani Turchi. Ma anche negli ultimi decenni, dalla Cina e dalla Cambogia fino all’America latina, dall’Asia centrale al Vicino Oriente al continente africano, che possiedono il sottosuolo più ricco del mondo eppure muoiono di fame perché le loro risorse sono drenate dalle corporations multinazionali sotto gli occhi di governi corrotti e compiacenti; vi sono gli africani sterminati da una logica perversa attivata e sostenuta dalle imprese multinazionali che mirano al monopolio dei diamanti, del petrolio o del prezioso “coltan”; oppure semplicemente ridotti alla fame dalle esigenze dell’impianto di monoculture (come quelle del caffè e dell’ananas; o all’allevamento del pesce persico nel Lago Victoria) che giovano a noi ma non a loro e che distruggono habitat e tradizioni; vi sono i bambini africani che nascono già ammalati di AIDS e sono condannati a morte perché le multinazionali si rifiutano di rinunziare a parte dei proventi che giungono loro dagli alti costi dei brevetti di produzione dei farmaci; vi sono i curdi, i ceceni, i tibetani, i palestinesi cui si nega una patria o una effettiva autonomia; vi sono i popoli sottoposti ad assurde forme di  embargo che rendono loro difficile il procurarsi medicinali e altri generi di prima necessità solo perché i loro governi, in seguito a processi diplomatico-giudiziari “internazionali” per la verità spesso sommari e arbitrari, si sono guadagnati l’epiteto di “stati-canaglia”.
Se la nostra memoria non si esercita a individuare queste nuove Shoah ancora in atto e a impedirle, il ricordo dei morti nei campi di sterminio nazista diventa un esercizio retorico offensivo per quelle stesse vittime che intende onorare, perché quell’onore si traduce in termini di fredda retorica o di bassa speculazione politica. La memoria di un orrore non può, non deve servir da paravento per nasconderne altri e per impedir che la protesta contro di essi divenga imbarazzante. Possiamo e dobbiamo onorare i caduti di Auschwitz e di  Dachau: la maniera migliore per farlo è fermare le Auschwitz che funzionano ancora, liberare i prigionieri delle Dachau che continuano a far vittime. Dovunque siano, per qualunque ragione esistano, chiunque le gestisca. Se non lo facciamo, siamo complici. E non  meno spregevoli di chi, dinanzi alle camere a gas, si è trincerato dietro un ipocrita “non sapevamo, non credevamo, non volevamo”.

Queste considerazioni, già più volte e in varie occasioni ribadite, mi sono sembrate utili anche a proposito della “Giornata del Ricordo” dei martiri delle foibe, entrata ormai nel nòvero delle celebrazioni ufficialmente riconosciute nel nostro paese e fissata al 10 febbraio. Credo che il “dovere della memoria”, sull’opportunità e, anzi, la necessità del quale tutti i buoni cittadini non possono non concordare, non possa andar disgiunto dalla consapevolezza dei rischi di conformismo, di malafede e soprattutto di “selezione guidata”; quindi, in ultima analisi di “smemoratezza gestita”, che tale scelta comporta. La riflessione su queste cose è dolorosa e rischiosa: il pericolo di venir fraintesi o, peggio, consapevolmente condannati e demonizzati è forte e concreto. Ma proprio per questo non si può tacere.

La “Giornata del Ricordo” è nata e si sta sviluppando in parallelo con altri eventi e altre situazioni. Anzitutto, con la “Giornata della Memoria”, celebrata come già si è visto e come è noto il 27 gennaio e destinata a ricordare i martiri della shoah: per quanto qua e là riemergano tracce di una proposta inizialmente ad essa correlata, che consisteva nel richiamare alla memoria e alla venerazione, nel simbolico caso della shoah, tutti i massacri e i genocidi perpetrati nel mondo e sulla terra in tutta la lunga storia del genere umano.  Era, del resto, tale l’originaria consegna degli stessi tribunali di Norimberga: istituiti non tanto e non solo per punire i criminali nazisti, bensì per impedire che crimini del genere potessero riproporsi anche in futuro. Un’irreprensibile intenzione, che, però, negli ultimi sette decenni circa sembra essere stata più volte disattesa: in quanto episodi di strage e di massacro (sempre problematico appare il rapporto tra i concetti di “strage” e di “massacro” e quello di “genocidio”)  si sono più volte presentati, certo con caratteri molto diversi rispetto alla shoah, e sono stati ora oggetto di denunzia e di sanzione internazionale, ora, invece, di dissimulazione e di obliterazione, come si è visto nella quasi concorde e totale minimizzazione se non negazione di episodi accaduti dall’Africa all’Iraq all’Afghanistan alla Palestina allo Yemen all’Algeria.

Va detto, al riguardo, ch’era già molto sgradevole e imbarazzante la tensione attraverso la quale si pervenne in Italia alla definizione e legittimazione della “Giornata del Ricordo” – per certi versi quasi in emulazione e in opposizione, anziché in complementarità come sarebbe stato giusto –: come se la memoria dei morti nei campi di sterminio nazisti potesse in qualche modo essere imbarazzante o sgradita a certe aree del mondo politico e dell’opinione pubblica, per cui si dovesse procedere a un riequilibrio attraverso il ricordo dei massacrati nelle voragine carsiche da parte dei partigiani comunisti sloveno-croati; e come se l’ossequio agli uni potesse in qualche modo risultar poco compatibile con l’ossequio agli altri. Il formarsi di un’impressione così malsana e distorta palesava purtroppo un sottostante, forse generalizzato atteggiamento: quello di un sostanziale cinismo, di un disinteresse per le tragedie umane, accompagnato, però, da una pervicace volontà di strumentalizzazione in questo o in quel senso. Ne è prova la suscettibilità di alcuni ambienti, sempre vigili a che nulla della visione ormai ufficiale della shoah venga messo in discussione  – e inclini, pertanto, a definir indiscriminatamente “revisionisti” o “negazionisti” tutti coloro che propongano di discostarsene in qualche modo o misura, indipendentemente dagli argomenti avanzati – in quanto timorosi in realtà che un’eventuale “ridimensionamento” – anche solo numerico, nel senso della quantità delle vittime – di quell’immensa tragedia (non si vede, peraltro, in che modo possibile) possa indirettamente danneggiare, oggi, la politica di questo o quel governo d’Israele, e sostenitori non già di una “esemplarità” delle vicende della persecuzione scatenata dai nazisti, bensì di una sua “unicità”; così come ne è prova l’ottusità a senso unico della quale danno prova molti fautori delle manifestazioni in memoria degli infoibati, che eludono qualunque serio argomento eziologico relativo alle cause che generarono quell’odio feroce che si espresse poi (e, senza dubbio, in modo senz’appello condannabile) nelle atroci esecuzioni sommarie del ’45.  E così come d’altronde era prova di ottusa arroganza ideologica la pervicace volontà, manifestata molto a lungo tra dirigenti e militanti del PCI, di negare la tragedia delle foibe e di accusare istericamente di “fascismo” chiunque ne parlasse, se non addirittura le stesse vittime di quei massacri. Ne è prova, ancora, la pretesa da parte di certi governi o di certe parti politiche   d’imporre per legge un’incontrovertibile “verità” storica e di trattare da criminale chiunque la contesti indipendentemente dai suoi argomenti.

Chi mi ha sinora seguito in questo ragionamento potrebbe pensare che, a questo punto, io dichiari che secondo me queste “Giornate” (della Memoria o del Ricordo che siano) andrebbero abolite o comunque attentamente sorvegliate, dato il carattere fazioso che le anima o le strumentalizzazioni alle quali potrebbero soggiacere. Sostengo esattamente il contrario. Sono convinto, come cittadino e come insegnante, che una sempre più approfondita e puntuale conoscenza degli orrori dei quali il genere umano è stato vittima nei secoli (e di quelli dei quali esso è stato, per converso, capace)  non sia affatto né parte di quella che qualcuno ha definito “la cultura del piagnisteo”, né malsano voyeurisme pseudostorico: ma, al contrario, per un verso premessa necessaria per un’altra sostanziale componente di una vigile coscienza civica a livello planetario. Tutti noi siamo per un verso vittime – magari nei nostri predecessori – di quelle violenze; tutti noi ne siamo al tempo stesso direttamente o indirettamente, consciamente o inconsciamente responsabili. E’ necessario risvegliarsi da un antico torpore, scuotersi da un vecchio malvagio incantesimo: è indispensabile persuadersi che il “non sapere”, il “non vedere-non sentire-non parlare” fanno di chi ne è adepto (cioè della stragrande maggioranza di noi) un complice obiettivo dei carnefici; ed è alquanto ozioso giocherellare con la classifica di quei carnefici, distinguere le differenti categorie di “male”, ostinarsi a sbattere continuamente in prima pagina dei mostri l’ingombrante presenza dei quali serve regolarmente a nascondere gli altri, che sarebbe scomodo smascherare e denunziare. Himmler non giustifica Pol Pot e viceversa: ma quanti Himmler e quanti Pol Pot negati, nascosti, dissimulati, sono ancora sfuggiti alla denunzia della storia? Proclamare l’equivalenza tra le tirannie è lo sterile esercizio autoassolutorio di chi si dice liberaldemocratico ed è dogmaticamente convinto dell’assoluta e unica giustezza del sistema ch’egli preferisce: nazismo e bolscevismo sembrano, viceversa, alla distanza, essere rei soprattutto di aver “introiettato” nell’Occidente, che se ne riteneva immune, ed esercitato su di esso e contro di esso, quegli stessi metodi feroci e sanguinari che il colonialismo occidentale aveva per secoli impiegato in Asia, in Africa, in America latina. Nessuna shoah giustificherà mai Dresda e Hiroshima; nessun massacro dei khmer rossi assolverà mai la United Fruits e la CIA di quel che hanno fatto in Mesoamerica; nessuna Kolima renderà innocente chi ha organizzato Guantanamo; e, procedendo a ritroso nel tempo, nessun Lager e nessun gulag basteranno mai a cancellare le infamie della Tratta degli Schiavi, dei massacri dei nativi nel continente americano e in Australia, delle guerre coloniali condotte da governi e da popoli che si sentivano, d’altro canto, altamente civili e perfino “umanitari”. Chi mai ci ha autorizzato a considerare “naturali” e magari “inevitabili” i crimini perpetrati dagli europei in mezzo millennio di colonialismo o la quasi totale scomparsa dei Native Americans? Chi, a ritenere fatali e inevitabili i massacri atomici di intere città giapponesi a guerra praticamente finita?

La memoria non va confinata in una giornata di celebrazioni: va trasformata in materia di studio e di meditazione quotidiana, dai banchi di scuola agli spesso troppo distratti o troppo “condizionati” mass media. Le radici della stessa violenza che oggi sembra divorare buona parte del mondo, e che domani potrebbe invaderlo per intero, è in gran parte conseguenza degli squilibri causati da orrori e da massacri che sono rimasti senza nome e senza ricordo: e che oggi continuano, in un mondo che vede gli sprechi confrontarsi drammaticamente con la fame e nel quale alcune migliaia di privilegiati che nuotano ogni giorno in una piscina olimpionica possono permettersi d’inquinare e di dissipare, per il loro piacere, una quantità d’acqua che sarebbe sufficiente a salvare dalla sete migliaia di bambini africani.

C’è un modo solo per adeguatamente onorare i martiri della shoah e delle foibe in modo adeguato: il chiudere oggi, subito, i Lager della sperequazione socioeconomica che semina vittime a livello mondiale; il denunziare a partire da ora, e con rigore, i genocidi perpetrati attualmente da chi gestisce l’ingiusto squilibrio che vede le ricchezze planetarie gestite per circa il 90% (e con un inaccettabile ventaglio di disuguaglianze interne) sì e no da un 10% degli abitanti della terra (con una crescente concentrazione della ricchezza che finisce per consegnarla quasi per intero a poche decine di famiglie e di lobbies), mentre gli altri sopravvivono al di sotto dei livelli di sopravvivenza ufficialmente riconosciuti dagli organismi internazionali. Finché non saremo responsabilmente convinti di ciò, le “Giornate”, della Memoria o del Ricordo che siano, saranno sempre espressione di obiettiva ipocrisia.

Ho seguito con attenzione, nella settimana dal 20 scorso a oggi, la programmazione su  tutti i canali TV di films, di documentari, di dibattiti sulla shoah: e ho visto alcune cose davvero notevoli, che riescono a penetrare analiticamente, minuziosamente, all’interno di vicende complesse e a ricostruire personaggi e situazioni. Ma ciò è possibile data la quantità straordinaria delle fonti, la qualità delle ricerche, il sostegno che ad esse proviene anche da ambienti politici e da soggetti influenti, il rapporto con il presente fino a giungere a un vero e proprio “passato-che-non-passa”. Chi potrà mai descrivere alla stessa maniera le sofferenze, spesso altrettanto indicibili, dei deportati dell’era staliniana, degli africani nel loro continente e in quello americano tra Sei e Ottocento, dei pellerossa della prateria ormai ridotti da molti milioni a poche decine di migliaia di persone chiuse nelle riserve? Questi casi vedono, ormai, le persone ridotte a numeri, e magari nemmeno più a quelli.

Eppure su tutto ciò potremmo essere informati, se solo facessimo un piccolo sforzo. Consiglio due letture: Il secolo del genocidio, a cura di R. Gallately e B. Kiernan (tr. it. Milano, Longanesi, 2006) e Le Livre Noir de l’humanité. Encyclopédie mondiale des génocides, a cura di I. W. Charny (Toulouse, Privat, 2001).  FC