Minima Cardiniana 233/1

Domenica 10 febbraio 2019 – V Domenica del Tempo Ordinario – Santa Scolastica

EFFEMERIDI DELLA MENZOGNA (E DELLA VERGOGNA)

DOSSIER VENEZUELA

Sull’intricata questione venezuelana, cercando di capirci qualcosa senza farmi trascinare dal mio carattere purtroppo emotivo e facinoroso, ho selezionato alcune cose non mie. Leggetele.

Quanto a me e a quel che ne penso, sarò sincero: questa storia ha talmente d’incredibile, talmente d’infame, che preferisco non andar oltre alcune brevissime note introduttive. Parlare di quella canaglia di Donald Trump e di quell’infame spergiuro golpista di Juan Guaidó, spregevole traditore del suo paese e della sua gente al servizio di ladri e di prepotenti, mi ripugna. Inutile dire che mi vergogno dell’irresponsabile appoggio che la UE ha offerto, nella maggior parte degli stati suoi membri, al golpista: mentre, una volta tanto, il mio paese e il suo governicchio di dilettanti mi sono piaciuti, almeno finora, per quanto tema che non manterranno a lungo la loro dignitosa posizione.

Non posso dire che Maduro mi stia simpatico. Trovo, comunque, che definirlo riduttivamente e terroristicamente un “dittatore comunista” che “affama il suo popolo” sia obiettivamente grottesco. Al di là della “guerra per bande” che ormai da anni sta dilaniando il Venezuela è evidente che è in corso un tentativo di strangolarlo anzitutto con l’embargo, la vera ragione tra l’altro della fame e della carenza di medicinali del paese, e poi con altri mezzi come lo stop al trading sui bond (si veda “Il Sole-24 Ore” del 9.2.2019, p. 11 del Plus 24). I media sono impegnatissimi nel dimostrare che Maduro perde consensi ed è ormai un isolato nel suo stesso paese, il che non parrebbe a giudicare dalle manifestazioni di appoggio alla sua politica che continuano e che ricevono un concorso popolare ben superiore a quello di Guaidó; solo che su tutto ciò non filtra nemmeno un’immagine televisiva mentre s’insiste sul fatto che il presidente legittimo perde terreno anche sugli organi di stampa della cosiddetta “sinistra moderata” (cfr. l’articolo di Jean-Pierre Bricoure su “Le Monde”, propriamente ripreso da “Internazionale” 1293 dell’8.2, pp. 16-19). Se Maduro scrive al papa invitandolo a contribuire con la sua alta parola alla soluzione della crisi del suo paese (lasciando intendere di esser disposto a trattare con lo stesso golpista e traditore Guairó), ecco i media insinuare immediatamente non già ch’egli fa di tutto per evitare una guerra civile, ma che ormai è alla frutta e non sa più che pesci prendere; se, invece, rivolto ai suoi avversari e ai loro mandanti americani, li ammonisce che il Venezuela potrebbe diventare un nuovo Vietnam, è lui a minacciare e non viceversa. In tutta questa indecorosa messinscena, il capitolo più ridicolo è repellente è la commedia degli “aiuti umanitari”. Già alcune settimane fa, quando la sceneggiata americana degli aiuti pelosi stava cominciando a muoversi, fu la stessa Caritas (è diventata un’organizzazione comunista anche lei?) ad ammonire che gli aiuti umanitari debbano arrivare ai paesi interessati ed esservi distribuiti solo ordinatamente, attraverso i canali a ciò preposti, ad evitare disordini, speculazioni e forme varie di abuso e di corruzione. Invece si vorrebbe che camions di aiuti non qualificati, direttamente o indirettamente di provenienza statunitense, entrino direttamente e subito dalla frontiera colombiana in Venezuela: e, dal momento che governo ed esercito ovviamente lo impediscono, allora è Maduro che pur di mantenere il suo traballante potere affama la sua gente. Il fatto che sia scandaloso che  l’embargo affamatore e gli aiuti umanitari pelosi provengano dalla medesima fonte non viene rilevato: e l’opinione pubblica occidentale, non è chiaro se per disinformazione, per stupidità o in malafede o per un miscuglio di queste tre cose, finge di non rendersene conto. Certo, la fame e la mancanza di medicinali sono cose dure da sopportare, e senza dubbio da questo punto in Venezuela sono in tanti che baratterebbero al loro dignità nazionale con un po’ di sollievo. E’ umano e comprensibile: ed è una ragione di più per denunziare la perfidia di chi ha condotto le cose fino a questo punto. Nessuno vuol fare l’eroe con la pelle degli altri: ma la dignità non ha prezzo e non si può rinunziare ad essa. Vergogna su quanti – persone, partiti, stati, media – appoggiano la prepotenza di Trump calpestando i diritti dei venezuelani.

Ben conscio quindi che l’indignazione è pessima consigliera, a questo punto preferisco tacere: lascio la parola a chi è più saggio, competente e autorevole di me. Anzitutto all’amica e collega Marina Montesano, della quale chi la segue troverà in questo breve articolo-quadro il coraggio, la serietà, la chiarezza, l’informazione e la decisione del suo libro di qualche anno fa, Mistero americano (Bari, Dedalo, 2014), che ci ha aiutato a non cadere nella trappola dell’11 settembre 2001. E poi a due illustri voci comparse entrambe sull’autorevole “Guardian”, che talvolta sarà fin troppo schierato ma resta una fonte degna di essere ascoltata.

“QUER PASTICCIACCIO BBRUTTO” DI CARACAS

di MARINA MONTESANO, Professoressa ordinaria nell’Università di Messina

La storia contemporanea del Venezuela si può far cominciare con il decollo dell’industria petrolifera a partire dal 1922; ricco in petrolio al contrario degli altri stati circostanti, il Venezuela ha dunque potuto sviluppare la propria economia, sotto il controllo degli Stati Uniti: con il favore del generale e dittatore Juan Vicente Gómez furono le compagnie petrolifere statunitensi a scrivere la prima legge sul petrolio del Paese, ovviamente a proprio favore. Nel 1943 la Standard Oil del New Jersey sottoscrisse un nuovo accordo con il Venezuela basato sul principio del 50–50, che già rappresentava un miglioramento per il paese latinoamericano. Dopo che un colpo di stato portò al potere un governo di sinistra nel 1945 furono negoziati trattati anche più favorevoli. Nella seconda metà del secolo questa nuova situazione e alcuni investimenti sociali produssero effetti positivi sull’economia del paese; tuttavia, la crisi economica planetaria alla fine degli anni ’80 travolse anche il Venezuela, con l’aggravarsi della crisi sociale a causa delle politiche liberiste di Carlos Andrés Pérez.

È questo il contesto nel quale prende il potere Hugo Chávez, eletto presidente nel 1999 di un paese potenzialmente ricco, ma con squilibri sociali immensi. Tanto per dare un’idea, prima dell’elezione di Chavez, il 75% dei terreni agricoli del Venezuela era di proprietà del 5% dei latifondisti e il 75% dei proprietari terrieri più piccoli ne controllava solo il 6%. Con i soldi derivanti dalla vendita del petrolio, il nuovo presidente avvia una campagna di alfabetizzazione, di cure mediche gratuite (grazie ai medici cubani ‘importati’ in cambio di petrolio), di controllo dei prezzi del cibo. Chiaro che queste manovre non sono sempre perfettamente efficaci, anche perché i ceti medi ed alti del paese hanno timore di perdere potere e boicottano i programmi presidenziali, per esempio cercando di esportare al nero il cibo prodotto contro il piano di autosufficienza alimentare messo in atto. Ed è chiaro anche come sia difficile far funzionare progetti del genere in un contesto mondiale nel quale si va nella direzione opposta: ossia verso l’iperconcentrazione della ricchezza nelle mani di una élite molto ristretta (una tendenza che è andata aumentando in modo esponenziale negli ultimi anni) e di un mondo globalizzato.

Le riforme di vasta portata messe in atto da Chávez gli hanno assicurato la rielezione travolgente nel 2007, pur con l’opposizione feroce delle classi medie urbane, delle élite sociali e dei partiti politici tradizionali. Questa frattura è visibile anche oggi: nonostante i media scelgano di far vedere sempre e solo le manifestazioni di protesta antigovernative, ci sono imponenti mobilitazioni a favore dell’attuale presidente.

Certamente, Nicolás Maduro non ha il carisma e le capacità di Chávez, che erano fattori di stabilizzazione. Ha anche commesso diversi errori: soprattutto, in un quadro economico sfavorevole, ha utilizzato i proventi del petrolio per incrementare gli investimenti pubblici e la ridistribuzione del reddito; manovra che, di per sé, può essere positiva, ma che si è scontrata con l’incapacità tecnica di aumentare la produzione da una parte, con il crollo dei prezzi del petrolio a partire da giugno 2014.

Le elezioni legislative del dicembre 2015 sono state una sconfitta grave per il presidente in carica, con la coalizione di opposizione che ha guadagnato i due terzi dell’assemblea nazionale. Da quel momento si è aperta una crisi istituzionale fra un’assemblea che cercava di delegittimare Maduro attraverso nuove leggi e un presidente appoggiato da esercito e magistratura che, attraverso l’apertura di un dibattito costituzionale, provava a svuotare di potere l’assemblea.

Che quanto stesse avvenendo fosse grave pare fuori di dubbio, e tuttavia il tutto si è sostanzialmente svolto all’interno di un dibattito politico-istituzionale, non al di fuori di esso, nel senso che ci sono state tensioni e persino episodi di violenza: ma non c’è stato alcun golpe di Maduro. Va inoltre segnalato, tanto per dare un quadro più completo, che il 15 ottobre 2017 durante le elezioni regionali il Grande Polo Patriottico, ossia il partito di governo, ha vinto 18 dei 23 governatorati, mentre l’opposizione solo 5; nel dicembre dello stesso anno durante le elezioni comunali ha vinto 306 dei 337 sindaci.

Sono state elezioni irregolari? O sono forse il segno di un paese diviso, impaurito? Soprattutto perché la crisi economica obiettiva è stata esacerbata in modo criminale dall’estero almeno a partire dall’elezione di Donald Trump, con la politica aggressiva subito attuata insieme ai nuovi governi di destra dell’America Latina, Brasile in testa. Già dal 2017  l’amministrazione Trump ha vietato alle aziende e alle istituzioni finanziarie statunitensi di acquistare azioni e obbligazioni emesse dalle società pubbliche del Venezuela; come nel caso delle sanzioni contro Cuba e l’Iran, e al di là del diritto internazionale, queste finiscono per minacciare anche le imprese di paesi terzi che vogliano commerciare con il Venezuela. Ci si può quindi chiedere se le vittorie elettorali locali di Maduro non rappresentino un rigurgito di orgoglio nazionale per un popolo che non ci sta a farsi sottomettere.

In un quadro qual è quello tratteggiato, l’autoproclamazione del presidente del parlamento Juan Guaidó a “presidente ad interim” del paese è al di fuori di qualunque legge e si configura, questa sì, come un tentativo di golpe. Quando poi, com’è avvenuto venerdì 8, questi arriva addirittura a evocare la possibilità di un intervento militare statunitense nel suo stesso paese, siamo dinanzi a un “alto tradimento” de facto,che andrebbe rigorosamente sanzionato. Che in tale contesto politico tanti paesi dell’Unione Europea (con il governo inglese che addirittura spinge perché la Banca d’Inghilterra immobilizzi le riserve auree lì depositate dal Venezuela) si siano schierati dalla parte del golpista e traditore Guaidó  è sconcertante, al pari della disinformazione che regna su televisioni e giornali, dov’è diventato difficile imbattersi in versioni obiettive di quanto sta avvenendo. Dovremmo averci fatto l’abitudine, ormai, poiché è da quasi due decenni a questa parte che si minacciano e si attuano interventi militari nel mondo con falsi presupposti sostenuti dai media: salvo poi “pentirsi”, com’è avvenuto, per esempio, con Iraq e Libia. Dobbiamo attenderci lo stesso anche per il Venezuela?

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RECOGNISING JUAN GUAIDO’ RISKS A BLOODY CIVIL WAR IN VENEZUELA

di TEMIR PORRAS PONCELEON, Former Chief of Staff of President Nicolás Maduro

Fonte: https://www.theguardian.com/commentisfree/2019/feb/05/juan-guaido-venezuela-maduro

Maduro’s rule has created a crisis but he still has millions of supporters. The country needs democratic dialogue, not sanctions.

The idea that Maduro has managed to remain in office during the past six years solely through corruption and the use of force is a gross misrepresentation.

The latest troubling events in Venezuela are the most recent episode in a political crisis that has been festering since the death of Hugo Chávezsix years ago. Following President Nicolás Maduro’s inauguration for a disputed second term in January, the speaker of the opposition-dominated parliament, Juan Guaidó, declared himself “interim president” of the country. Guaidó was immediately recognised by the US, Canada and a group of Latin American conservative governments, who called upon the Venezuelan military to rise up against Maduro. And today the UK, France, Spain, Germany and other European countries recognised Guaidó after Maduro refused their demand to call fresh elections.

Since Guaidó’s declaration, the Trump administration has imposed new sanctions on Maduro’s government, seized billions-worth of Venezuelan oil-related assets on US soil, and started making barely veiled threats of military intervention. Few would disagree that the country is in a disastrous economic and social situation, but before other governments take similar actions that could exacerbate Venezuela’s political polarisation and end up provoking a bloody civil war, we should first understand how it reached this state of crisis.

After its oil industry began to take off in the early 20th century, Venezuela’s rapid development was characterised by profound social inequalities. But under Chávez, who was elected in 1999, this deep social polarisation led to the gradual emergence of “Chavismo” – a large and organised movement that championed social justice for the disposessed through far-reaching reforms.

Chávez was a charismatic and divisive figure, revered by most of the poor but hated by almost all in the urban middle classes, social elites and traditional political parties. Still, his energetic leadership helped to achieve political stability, despite fierce opposition from his adversaries at home and abroad, especially in the US.

In April 2013, when Maduro was elected president – a month after his mentor’s untimely death – Venezuela inherited the polarised politics of the Chávez era, but without Chávez’s leadership as a stabilising factor.

Falsely presented as a “fresh face”, Guaidó first came to prominence in 2007, as a member of a generation of students who led protests against Chávez’s socialism, despite his landslide presidential victory in 2006. Guaidó is part of an opposition that never stopped challenging Chávez’s popular legitimacy even in his heyday, and who naturally doubled down as soon as the less assertive Maduro took office. The challenges to Maduro’s legitimacy began the moment he was elected. His presidential opponent, Henrique Capriles, labelled the 2013 election a fraud (without providing any supporting evidence). Capriles called on his followers to ventilate their “anger” in the streets, a move resulting in the killing of a number of Chavistas. In January 2014 Guaidó’s political party, Voluntad Popular, launched a nationwide insurrectionary movement aimed at forcing Maduro out of office. This was only nine months into Maduro’s term, and long before the country faced any serious economic or social problems. In fact, in early 2014 oil prices were at record highs, and Venezuelans were still enjoying their highest levels of income ever, in terms of GDP per capita.

Yet when Venezuela’s economic challenges came, Maduro’s ineffective policies made things worse. In 2013, the government’s strategy of using oil revenues to boost public investment and income redistribution was facing serious challenges. Venezuela failed to increase oil production in order to fund the expansion of social rights. Its economy required swift reform, something Maduro showed no interest in undertaking.

And then oil prices collapsed in June 2014, leaving an ill-prepared country frozen in inaction. Living standards started to deteriorate, and while a Maduro-led Chavismo remained a large and organised political force, it lost its dominance. Maduro suffered a humiliating defeat in the December 2015 legislative elections, which allowed an opposition coalition to seize a potentially devastating two-thirds supermajority in the national assembly.

From that moment on, the political confrontation became institutional, as the legislature focused primarily on ousting the president, while the executive and pro-government judiciary tried to dismantle the assembly’s powers. In parallel with an unprecedented decline in living standards, there were periods of failed political dialogue and deadly violence. The government dealt in an increasingly authoritarian way with an increasingly undemocratic opposition, deepening mistrust and resentment between both camps. The absence of a political agreement made the May 2018 presidential election perfectly legal but politically ineffectual, as major opposition parties refused to participate.

The shift to the right of major countries in Latin America, and Donald Trump’s election, also played a fundamental role in deepening Venezuela’s political polarisation. The US and its allies started treating Venezuela’s Chavismo as a criminal rather than a political organisation, and Venezuela’s government as an enemy rather than an adversary. Sanctions were imposed and, in August 2017, the country was virtually banned from international capital markets, accelerating the decline of its oil industry. Yet this confrontational approach failed to deliver on its objectives, as it emboldened Maduro in his claim of being subject to imperialist aggression, and disincentivised rather than promoted the emergence of challengers to Maduro within Chavismo, especially among the military.

The recent move by Guaidó to anoint himself “interim president” could bring about catastrophic consequences for Venezuela. Unless the international community is willing to risk a needless war on the American continent, it must urgently create conditions for a national dialogue aimed at reaching a political agreement. This means acknowledging that both the status quo and the endorsement of Guaidó’s claims are unsatisfactory from a democratic point of view, and do not guarantee the country’s peace and stability.

The idea that Maduro has managed to remain in office during the past six years solely through corruption and the use of force is a gross misrepresentation. It ignores that, beyond the president, the Chavismo social movement counts millions of supporters, primarily from lower-income communities, and is strongly embedded within the Venezuelan military.

The holding of new general elections to resolve the current dispute can only be the result of an internal agreement that the international community can help to facilitate. An initiative by Mexico and Uruguay to host an international conference this week, along with the decision of the EU to head a contact group of European and Latin American countries, should be strongly supported. Venezuelans have a right to coexist, and they should be allowed to resolve their problems in a democratic, peaceful and sovereign manner.

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WAS HAS HAPPENED IN VENEZUELA IS A COUP. TRUMP’S DENIAL IS DANGEROUS

di OSCAR GUARDIOLA-RIVERA, Professor of human rights and philosophy at Birkbeck College, University of London

Fonte: https://www.theguardian.com/commentisfree/2019/jan/28/venezuela-coup-trump-juan-guaido

Juan Guaidó has declared himself president “interim” president of Venezuela. His right hand raised to the heavens, as is proper of one who, having no popular mandate, proclaims himself in the name of God like the kings of old. Only this is no kingdom, but a revolutionary republic born of a people’s war. It has since protected its right to self-determination by means of people power and persistent anti-colonial struggle.

In the 19th century the struggle was led by Simón Bolívar, “the liberator”. Rebelling against the laws of the time, Bolivar stood up to the might of the Spanish empire in alliance with then free Haiti. Bolivar made instant enemies of slaveholders in the newly formed US and the rest of the Americas upon embracing a universal right and call to happiness without hypocrisy. That promise was realised only in part.

At the dawn of the 21st century, Hugo Chavez invoked Bolívar’s promise and when the poor, black, Amerindian people of Venezuela returned him to power, time and again, especially after the failed US-backed coup of 2002, he too radicalised his stance against the mighty empire Bolivar had only speculated about, America. Again, the promise was realised only in part. Some might say the revolution has been betrayed or stalled during the rule of his successor Nicolás Maduro. No one can deny Venezuela’s problems. The very source of its magic in the 1970s, oil, has proven its downfall. Chavez did not win his country’s independence from oil and its geopolitics.

Crisis loomed when global prices fell, production stagnated, the value of the currency dropped, and under Maduro, dependence on imports and retail monopolies meant shortages that hurt many. That responsibility lies with the government and the industrialist rightwing opposition. But to think that this opposition, revived by Juan Guaidó’s self-proclamation spectacle, acts out of genuine concern for the poor, black people and Amerindians who empowered themselves during the years of the Bolivarian revolution would be foolish.

Enter Donald Trump: megalomaniac, erratic, liar. Calling out the interventionism of previous US administrations, which had been constant in their hatred for Chavez and their attempts to regain influence in the region, Trump promised to put an end to all such shenanigans. But on Wednesday, vice-president Mike Pence saluted Guaidó’s self-appointment, observing that although Trump disliked intervening elsewhere, he “has always had a very different view of our hemisphere”. That’s an explicit invocation of the Monroe doctrine under which the US has held it as its responsibility to intervene in the Americas, which it sees as its backyard.

Trump swiftly recognised Guaidó as the interim president of Venezuela, and was followed by a cohort of Latin American presidents, all-white, upper-class leaders now spearheading the new reactionary wave in the region: Brazil’s Jair Bolsonaro, Argentina’s Mauricio Macri, Colombia’s Iván Duque and Chile’s Sebastián Piñera. They’ll proclaim themselves saviours of democracy and humanitarianism, the liars. Draping themselves in the robes of the liberators of yesteryear, just as Guaidó draped himself in the image of Chavez and Bolívar while holding a constitution with the latter’s image on its cover, they’ll happily support further US sanctions, paramilitary forces training Venezuela’s opposition in the torture tactics that displaced 7 million people in Colombia, or using “lawfare” in pan-American institutions just as happened to Luiz Inácio Lula da Silva and Dilma Rousseff in Brazil, Manuel Zelaya in Honduras and Fernando Lugo in Paraguay.

Expect such measures to have limited purchase. Washington knows it. Then, Trump and the others will be ready to go for the more muscular approach. Not by accident, this could also benefit Trump as elections approach or if he is cornered by investigations and impeachment. War distracts and makes money. Only this won’t be a regional plunder: China and Russia, both with key interests in Venezuela and elsewhere in the region, have followed Bolivia, Mexico, Uruguay and Cuba to call Guaidó’s stunt by its real name: a coup. Russia has indicated it would come to the defence of its ally. In Venezuela, many who may be critical of Maduro but fear most the return of the rightwing opposition to power are unlikely to cheer the newly converted humanitarians. Unlike the supporters of Chile’s Salvador Allende in 1973, they’re armed. Washington awaits developments on the ground while keeping “all options on the table”. That’s doublespeak for hoping the heavy-handed response by Maduro’s government would provide moral justification for an intervention that would surely be approved by the Organization of American States.

There is plenty to criticise Maduro for: late or misguided economic measures, corruption, power-hoarding. But these criticisms cannot disguise a coup or justify an intervention that, if and when it comes, would engulf us all. Trump counts on Colombia’s Iván Duque, Alvaro Uribe’s appointee, and Brazil’s neo-fascists to support this, contributing troops of their own if needed. A neo-fascist runs one of the Americas’ powerhouses in Brazil; a narcissistic liar afraid of being painted into a corner runs the other. That combination is toxic. War in the name of humanity may tempt them, as it did the more liberal leaders of the past. But this time the stakes are higher. Venezuela’s coup is a threat to the entire world.