Minima Cardiniana 239/2

Domenica 24 marzo  2019. III Domenica di Quaresima

CORSI, RICORSI ED EQUIVOCI DELLA STORIA

L’OCCIDENTE E GLI “ORIENTI”

Può sembrare strano, ma è così. La tragedia di Christchurch in Nuova Zelanda ha mostrato il tragico e grottesco apice d’un pregiudizio in forma più leggera – e diciamo così “cronica” – condiviso da molti: cioè che l’Occidente sia assediato da un esercito di “poveri” (africani oppure “orientali”: non si fanno troppe differenze) ansiosi di occuparne il territorio e di soverchiare gli antichi padroni. Ora, però, a tale schematico pregiudizio sembra affiancarsene e sovrapporsene un altro, evidenziato da uno dei tanti slogan tempestivamente creato da Salvini, che pare molto dotato in quell’arte: “Rischiamo di diventare una colonia”, come ha commentato il vicepremier, l’ipotesi che l’Italia venga coinvolta nel Belt and Road Project cinese, la “Nuova Via della Seta”. Un’ipotesi che pare abbia alquanto allarmato anche il governo statunitense e gli alti livelli della NATO,in gran parte preoccupati della possibilità di una qualche “testa di ponte” cinese nel porto di Livorno – un’eventualità che, viceversa, non dispiace agli imprenditori toscani –, a due passi dal celebre Camp Darby. Qualche giornale si è già chiesto se e fino a che punto sia verosimile che l’Italia divenga il Cavallo di Troia della nuova grande potenza asiatica. Una nuova grande potenza che, a parte l’eclisse otto-novecentesca, è in realtà antichissima: si può dire la più antica del mondo.

Insomma, non ci sarebbe solo l’invasione dei poveri a chiudere il cerchio aperto cinque secoli fa con l’avvio – grazie all’Europa occidentale – dell’economia-mondo e quindi della “globalizzazione”. Quando si fanno circolare per mezzo millennio uomini, eserciti e merci in una direzione, da ovest verso est, c’è da aspettarsi che prima o poi alla “proposta”, secondo la ferra regola toynbeyana, non tenga dietro una “risposta”: e che l’Oriente arrivi da noi. Solo che l’invasione silenziosa e per molti addirittura proficua (eccellenti business) della finanza e dell’economia dell’Arabia saudita e degli Emirati, ancorché la prima e in una certa misura anche i secondi siano rappresentanti dell’Islam più duro e intransigente (la setta wahhabita, la scuola giuridica salafita) dovevano essere ben accetti anche ai più incalliti tra gli antimusulmani di casa nostra, almeno a quelli dei ceti più abbienti, che fanno affari e giocano in borsa. E’ noto che “pecunia non olet”, nemmeno se sa di cammello o di petrolio. Mi è personalmente capitato di dover polemizzare molto vivacemente qualche giorno fa, durante un meeting organizzato in una città toscana da un sodalizio sorto per impedire la costruzione di una moschea in quel centro, con un tizio molto accalorato e inviperito: che però ha molto perduto di vis polemica quando gli è stato fatto notare, nella generale ilarità, ch’egli indossava una T-shirts recante la vistosa scritta “Fly Emirates”.

D’altronde, contraddizioni del genere sono fatali dal momento che noialtri occidentali sembriamo vivere in un clima di permanente (anche se solo apparente) schizofrenia. Quando s’impedisce all’Arabia saudita di collaborare al programma di rilancio del teatro della Scala, quando ci si preoccupa che un paese rigorosamente musulmano nel quale la riproduzione della figura umana è almeno concettualmente proibita collabori poi massicciamente alla ridefinizione finanziaria e strutturale del Louvre – tempio dell’arte e della storia dei “miscredenti” –, si mostra di non sapere o di non capire (o di fingere l’una o l’altra cosa) che finanza ed economia statunitensi e occidentali, da una parte, arabo-sunnite, dall’altra, sono strettamente unite e coese: così come, in politica, il Vicino Oriente è controllato dall’alleanza non stipulata ma vigorosissima tra USA, Arabia Saudita e Israele con l’appoggio egiziano e giordano. In altri termini, è ovvio che il Soft Power dei signori che indossano – spesso con pari eleganza – keffieh e golabiah candide alternate con impeccabili abiti di taglio inglese e che soggiornano ora sotto tende nere, ora nelle suites dei grandi alberghi o nelle cabine di superbi natanti a Montecarlo sta crescendo accanto a noi, con noi e dentro di noi: e i nostri media, la nostra opinione pubblica in gran parte costituita da membri di ceti subalterni non trova su ciò nulla da eccepire in quanto quel Soft Power, fatto anche di canali televisivi e di reti informatiche, appare loro incolore, inodore e insapore. Il che, in fondo, è la paradossale ma profonda realtà del fatto che il mondo musulmano è “l’Oriente dell’Occidente” e che la nostra cultura e quella islamica (alla faccia del professor Huntington e dello “scontro di civiltà”) sono due facce della medesima antichissima civiltà, che ha il mondo eurasiafromediterraneo come fulcro e, come basi nonostante tutto solidissime, il messaggio abramitico e il sapere ellenistico-romano.

Dinanzi al Soft Power arabo-musulmano che ci è familiare, nonostante l’ombra costante del terrorismo, lo Hard Power cinese, che si annunzia per molti meno inquietante in quanto quella civiltà ci resta ancora sostanzialmente troppo estranea (e non c’è Marco Polo, non c’è Padre Matteo Ricci, non c’è Mao Zedong che tengano), si profila dotato di una forza, di una logica, di una sostanziale aggressività tecnica e manageriale che ci colgono impreparati: ed è naturale sia che ancora la loro immagine non sia entrata nel circolo delle idées reçues della maggior parte della nostra gente, sia, invece, che i ceti dirigenti e gli ambienti un po’ più colti e avveduti si stiano dividendo tra chi è inquieto se non atterrito e chi è invece interessato, attratto e magari perfino affascinato dal fatto che (come recitava il titolo di un film di circa mezzo secolo fa) “la Cina è vicina”. Molti di noialtri sessantottini sono stati “filocinesi” e “maoisti”, quando il Dragone mostrava senza dubbio un volto differente da quello di oggi. Ma il sia pur metabolizzato comunismo cinese odierno resta vegeto e vigile: le lobbies “multinazionali” à tête chinoise riconoscono per legge allo stato una quota azionaria maggioritaria e la “Nuova Via della Seta” persegue un coerente e implacabile diegno egemonico.

Stupirsene? E perché mai? “Tempo vène: chi sale e chi discende”, recita un componimento poetico dell’imperatore Federico II. Il “tramonto dell’Occidente” già preconizzato da Spengler un secolo fa, quando però “Occidente” era sinonimo d’Europa, si sta profilando adesso: ed ha come obiettivo un Occidente egemonizzato ancora dagli Stati Uniti dal quale, tuttavia, l’Europa, che ne è parte periferica, potrebbe anche decidere di discostarsi magari dolcemente per entrare in contatto con altre realtà, in prospettiva con nuove alleanze: e c’è già pronta la “Conferenza di Shanghai”, dove russi, cinesi e indiani – che la diplomazia americana è riuscita miracolosamente ad alleare fra loro – aspettano.

La Cina è stata “da sempre” un impero millenario, che, però, contrariamente agli altri imperi, non si è mai allargato: chiuso e ben serrato su se stesso e sulla sua antica cultura, quasi sempre ben governato (a parte violente ma brevi crisi) fino ai giorni nostri, geloso della propria autosufficienza economica e produttiva non meno che culturale, adesso sta facendo quel che non ha obiettivamente mai fato né con i Han, né con i Tang, né con i Sung, né con i Ming, né con i Manciù e nemmeno con Mao. Sta oltrepassando i suoi confini: in fondo, qualcosa del genere l’aveva fatta solo fra Due e Trecento al tempo degli Yuei, cioè degli odiati imperatori sino-mongoli (il Qublai di Marco Polo era uno di loro) quando Il Figlio del Cielo, ch’era anche il Gran Khan, dominava un impero immenso dal Mar del Giappone fino alle pianure russe, alla Persia e al Mar Caspio. I cinesi non amano ritenere la fase mongola una parte della loro “storia patria”: eppure a metà Duecento erano arrivati fin quasi a minacciare Colonia e Venezia e adesso, a guardare le mappe delle vie ferroviarie e della rotte marittime dall’Oceano Pacifico a Rotterdam, sembra proprio che ci siamo di nuovo.

Quello cinese è un Hard Power in quanto non ha bisogno di essere Soft: a differenza degli emiri arabi non deve “concordare”, ha la forza di proporre. Il punto è tutto qui. Si sta aprendo anche nel nostro Mediterraneo una partita molto interessante. Del che ci sarebbe da esser lieti oltreché interessati: se non fosse per quel minaccioso proverbio appunto cinese, “Dio ci scampi dal vivere tempi storicamente interessanti”.

TASSONOMIE IMPERIALI

LA CINA CHE GUARDA A OCCIDENTE: UN “NUOVO IMPERO” O UN “IMPERO SUI GENERIS”?

Siamo davvero a una svolta storica di portata epocale? Da circa due millennii, a cominciare naturalmente dal latino, siamo abituati a pronunziare in tutti gli idiomi del mondo la parola che in italiano suona “impero” con il significato – che può assumere valori semantici ora positivi, ora negativi – di potere esteso su genti e culture di differente origine e qualità e volto a farle vivere in armonia, sottoponendole a una sola legge generale ma con attenzione a salvaguardarne quanto più possibile autonomia e caratteristiche identitarie. Ciò differenzia l’idea d’impero dal concetto di stato assoluto e centralizzato. In esso primeggia un linguaggio egemone, che si estende e si modifica sino a diventar patrimonio comune (è la koinè diàlektos dell’impero alessandrino, consapevole erede del quale è quello romano), mentre i cittadini di tutte le potenze che se ne riconoscono subalterne partecipano ad esso mantenendo peraltro il proprio.

Modello precipuo di questa compagine etico-politico-militare, che negli antichi imperi è altresì religiosa, è l’impero romano con le tre formazioni interstatali e multietniche che a differente titolo si sono riconosciute come sue legittime eredi: l’impero d’Oriente, poi “bizantino”, che ne è obiettivamente la prosecuzione fino al 1453; l’impero russo dei Romanov, per diritto di eredità attraverso un sistema di nozze tra le famiglie degli zar e alcuni potentati locali; l’impero romano-germanico ambiguamente e unilateralmente “rifondato” nella Versailles del 1870 come “impero federale della nazione tedesca”. A quello romano si rifacevano ancora, su un piano largamente autoreferenziale, i due imperi terrestri e marittimi (Behemoth e Leviathan, secondo la nomenclatura schmittiana) della “Monarchia di Spagna” e del “Regno Unito”, creatosi attorno all’Inghilterra e anima del quale era l’organizzazione del Commonwealth (“bene comune, letteralmente res publica). All’impero romano tornò a ispirarsi, nel primo XIX secolo, l’avventura bonapartista, variamente imitata da altri imperi “nazionali” e/o federali nell’Europa e nella stessa America di quel medesimo secolo.

Altre esperienze, fondate sulla base di un’ispirazione e di una provenienza differenti da quelle che si possono far risalire all’impero romano (al quale sono state accostate anche espressioni a esso cronologicamente anteriori, come quella egizia), hanno a loro volta dato luogo alla possibilità di essere esse stesse ritenute “imperiali”: la persiana tra VI secolo a.C. e VII d.C.; quelle religioso-politiche scaturite dall’Islam ed espresse attraverso modelli sincretici diversi, quali quello indo-persiano-tartaro dell’India “moghul”; quelle cinese e giapponese e perfino quelle dell’America precolombiana, alle quali si sono riconosciuti i comuni caratteri del dominio su etnìe diverse e della dimensione sacrale del potere monarchico.

Carattere originale comune a tutti gli imperi, comunque, è la riconosciuta capacità egemonica su popoli e tradizioni differenti: il latino Tu regere populos, Romane, memento. Ciò implica per qualunque impero una fase primaria fondata sulla conquista e sul coordinamento giuridico-politico-militare, seguita tuttavia non già da un’assimilazione dei vinti (il che sarebbe stata semmai caratteristica di alcuni moderni imperi coloniali e della dimensione, più che imperiale, “imperialistica”).

Questo connotato del “dominio”, intrinseco a qualunque esperienza imperiale, sembra tuttavia essere assente – salvo nell’arcaica fase della formazione, rapidamente obliterata dalla storia – negli imperi cinese e giapponese, incentrati senza dubbio sulla sacralità del sovrano e sulla rigida organizzazione gerarchica di nobili vassalli e di funzionari profondamente formati nell’etica filosofico-religiosa rispettivamente confuciana e shintoista e tesi, salvo eccezionali e ristretti momenti, non già all’energia centrifuga dell’espansione bensì a quella centripeta della tradizione, della fedeltà e della disciplina. Simboli delle due differenti concezioni imperiali potrebbero essere al riguardo due in certo senso simili eppur contrapposti sistemi confinari: quello romano, che conosce la sacralità del finis (il “confine” sacro, il pomerium dell’Urbe) ma si disloca, lontano da esso, nella compresenza del limes e dei valla che possono avanzare o arretrare e che sono insomma un sistema integrato offensivo-difensivo; e quello cinese della Muraglia, inamovibile e invalicabile.

Fino dall’antichità, i due grandi imperi separati dall’immenso spazio eurasiatico, il romano e il cinese, si sono “intuiti” e guardati alla lontana: i romani sapevano che dai favolosi seres proveniva la misteriosa e inquietante seta, vietata per ragioni etiche alle matrone; nei cinesi qua e là affiorava la curiosità per la lontana Roma sulla quale il Gran Khan Qubilai (“Figlio del Cielo” sì, ma che per la maggioranza dei suoi sudditi restava un tartaro, un conquistatore barbarico) interrogava i fratelli Polo giunti alla sua corte.

La Modernità europea, esplosa nel XVI secolo con la stagione delle grandi navigazioni oceaniche e delle conquiste che le sono tenute dietro (“vele e cannoni”, secondo la formula genialmente sintetica di Carlo Maria Cipolla), ha travolto i “compartimenti-stagni” che avevano fino ad allora tenute separate le differenti culture del pianeta. Ma l’”economia-mondo” e quindi la “globalizzazione”, che ne sono state l’effetto, hanno sì consentito l’appropriazione del mondo da parte degli occidentali, ma molto meno ne hanno consentito la sintesi culturale. Gli occidentali, padroni del mondo, hanno badato a comandare, a sfruttare, magari perfino a “civilizzare” e a “convertire” (seguendo cioè i loro canoni e i loro interessi), ma – salvo esperienze élitarie e accademiche preziose, certo, però minoritarie –, non si sono mai granché curati di comprendere la culture assoggettate e considerate (sulla base di due preconcetti: quello della potenza militare e quello dello sviluppo tecnologico) magari ammirevoli e perfino degne d’innamoramento, tuttavia “inferiori”. I conquistati e dominati, viceversa, hanno in vario modo saputo esprimere dal loro interno aristocrazie sociali e intellettuali in grado di studiare e di comprendere, magari di ammirare (ma di rado di amare) il conquistatore. E così, in modo differente, dalla metà dell’Ottocento si sono determinati forti movimenti di pensiero e di prassi tecnica vòlti non tanto e non solo a “imitare” gli europei, bensì a cogliere dall’interno i segreti della loro “superiorità” e a farli propri senza per questo rinunziare alla propria identità, alla propria “diversità”. Così in pieno Ottocento hanno imposto di fare al loro popolo gli imperatori giapponesi dell’epoca Mieji, creando una tipologia assolutamente originale fondata sulla compresenza della perfetta conformità esteriore e ufficiale rispetto a un Occidente soprattutto americano e dello scrupoloso rispetto delle tradizioni nipponiche nella vita privata e intima. Così è avvenuto, in modi differenti, nel mondo arabo variamente influenzato – dalla spedizione del Bonaparte del 1798 in poi – dalle culture francese, spagnola e inglese; nella storia della Turchia europeizzata dai sultani dell’Ottocento a Mustafà Kemal Atatürk; nelle vicende dell’Iran di Reza Shah. Così, e in modo speciale, nella Cina passata dalla sofferta supremazia occidentale dell’Ottocento alla febbre nazionale e occidentalista del Quomintang e quindi alla rivoluzione comunista e ai suoi esiti (che non rappresentano affatto una soluzione “postcomunista”).

I cinesi colti hanno avuto a disposizione quasi due secoli – ai quali va aggiunta una complessa preistoria, quella del rapporto con la Compagnia di Gesù – per meditare sull’esempio civile e anche religioso costituito da Roma e sul fatto, in sé non razionalizzabile eppure forte della forza che hanno le cose che accadono, per cui l’universalismo imperiale centripeto dei “Figli del Cielo” e della cultura buddhistico-confuciana, gelosamente custodito nei secoli e per secoli, ha dovuto alla resa dei conti cedere dinanzi agli esiti occidentali dell’altro universalismo, quello centrifugo giuridico-politico e cristiano, che attraverso la sua filiazione colonialistica e capitalistica si è imposto loro.

Adesso, questi “nuovi occidentali” che hanno dismesso i loro lunghi abiti della tradizione e le casacche militari della rivoluzione maoista, si vestono come noi, studiano come noi, al pari di noi giocano in borsa e tentano la Grande Avventura della conquista. Gli strumenti di essa non sono e forse non saranno mai militari: ma ne abbiamo già visti gli esiti in Africa e stiamo adesso vedendoli con il Belt and Road Project che, circondato dal sospetto americano e dall’allarme ancora coperto degli alti comandi NATO, è sbarcato a Roma con il presidente Xi. Prima di lui, legioni di studenti sono venuti a Roma (non meno che a New York, a Londra, a Parigi, a Berlino, a Mosca), ad appropriarsi meglio della loro “nuova” cultura” occidentale; e noi, che della loro sappiamo troppo poco, non siamo nemmeno in grado di esprimere un giudizio plausibilmente fondato sul grado e l’intensità della conservazione o dell’abbandono o della modifica, in loro, di quella che è la loro cultura originaria. Loro parlano bene, talvolta benissimo, l’inglese, cioè l’attuale koiné diàlektos dell’Occidente. Noi, salvo rarissime eccezioni, conosciamo al massimo due o tre ideogrammi del loro idioma. Questo gap linguistico è la misura e al tempo stesso il simbolo d’un ben più grave gap culturale. E’, diciamolo pure esplicitamente, una “sfida di civiltà” che dovremo affrettarci a raccogliere. Se non lo facessimo, il prezzo da pagare potrebbe essere altissimo. FC