Domenica 21 aprile 2019.
Pasqua di Resurrezione di Nostro Singore Gesù Cristo – MMDCCLXXII anniversario della fondazione di Roma – Sei giorni dopo l’incendio di Notre-Dame di Parigi
“Cadde il fuoco del Signore che consumò l’olocausto, la legna, le pietre e la polvere…”. A tale vista, tutto il popolo si prostrò con la faccia a terra esclamando: Il Signore è Dio! Il Signore è Dio!” (I Regum, 18, 38-39).
In questo Santo Giorno, basti una sola considerazione: ho cercato di riassumerla nell’ Editoriale. Ci sarà tempo nelle settimane prossime per riflessioni e polemiche. Oggi, buona Pasqua a tutti!
EDITORIALE
PENSARE LA PASQUA, OGGI
Le storielle – le “barzellette”, come di solito le chiamiamo noialtri – sono spesso cose molto serie. Sono la viva sostanza della saggezza dei popoli saggi. E i cinesi sono popolo notoriamente saggissimo. E’ quindi bene tener a mente la storiella della povera famiglia contadina sulla quale cade la mannaia di una disgrazia: un raccolto andato a male, gli animali da cortile decimati da una morìa o roba del genere. Ma, mentre tutti piangono e si disperano, il vecchio patriarca sentenzia: “Non è detto che questo sia un male”. E difatti succede che il capo del villaggio, o addirittura l’imperatore, si rendono conto della tragedia di quei poveretti e li risarciscono generosamente. Grande festa in famiglia; ma il patriarca ammonisce: “Non è detto che questo sia un bene”. Difatti qualcuno mangia troppo e si sente male, qualcun altro si ubriaca per la felicità e cadendo a terra urta malamente e muore eccetera; e così potremmo continuare all’infinito, dal momento che il vecchio patriarca è sempre lì, a rovesciare con i suoi presagi il segno delle gioie e delle paure dei suoi sciocchi familiari.
Lunedì 15 aprile, verso sera, Notre-Dame di Parigi è stata avvolta da altissime lingue di fuoco, fiamme che superavano il culmine delle monumentali torri campanarie; una paurosa, immensa colonna di fumo nero alta varie centinaia di metri s’innalzava da quell’immenso rogo oscurando il tramonto primaverile che quel giorno aveva abbandonato la tradizione dei “cieli bigi” cari alla Bohème ed era insolitamente radioso; e il vento la spingeva verso ovest, verso l’Atlantico. Alle 19,52, la guglia di ferro, piombo, cemento, pietra e vetro alta 93 metri che svettava nel centro del tetto dell’edificio, all’incrocio dei bracci del transetto, è crollata in fiamme come un fiammifero gettato a terra da una mano gigantesca. E’ stato un momento che non dimenticherò mai. Anch’io assistevo attonito, in mezzo a una folla che piangeva o pregava ma in un silenzio agghiacciante – coperto tuttavia dallo strepito dei clakson e delle sirene di pompieri, polizia e ambulanze che non riuscivano a passare – a un centinaio di metri a nordovest, sulla rive droite della Senna, in Place du Carrousel. Un imponente cordone di cavalli di frisia e di gendarmi in assetto antisommossa impediva di avvicinarsi di più.
Quando la flèche, la guglia, è franata, qualcosa mi si è spezzato dentro: e sono scoppiato a piangere. Non ero il solo. Non piangevo dal 1998, dal giorno della morte del mio vecchio gatto che quasi per un quarto di secolo mi aveva fatto compagnia. Non sono un ésprit fort e non mi sono mai atteggiato a tale: ma un istintivo riserbo m’impedisce ordinariamente di dar libero sfogo a certi impulsi neurovegetativi. In quel momento, comunque, non mi sono curato di dar spettacolo: mi sono coperto la faccia con le mani e le ho bagnate di lacrime. A pochi metri da me, un giovane capitano della gendarmerie stava facendo esattamente lo stesso. Altri si davano ad altre manifestazioni di stupore, di terrore, di disorientamento. Ho sentito un gruppo di voci giovanili intonare un Salve Regina.
Che cosa ho pensato, in quel momento, mentre sembrava che le fiamme stessero avendo definitivamente ragione di quell’immenso, secolare edificio, e molti si aspettavano di vederlo da un momento all’altro crollare? Notre-Dame è un’antica compagna fino dai tempi dell’Università; per me è Parigi e insieme è il medioevo, e uno che ha ricordi della Parigi di quando aveva vent’anni o poco più (correvano gli Anni Sessanta) in Notre-Dame ci ha sul serio lasciato il cuore. In tutti i possibili sensi di tale espressione: non fatemi dire di più.
Ma, certo, non c’è bisogno di aver fatto il medievista di professione per amare quelle mura, quelle torri, quelle guglie, perfino quei dèmoni e quei mostri di pietra che montano la guardia al tempio di Dio e sembrano al tempo stesso sfidare il Cielo. E’, senza dubbio, un “medioevo convenzionale” quello suggerito a molti dalla grande cattedrale. Non è il medioevo dei severi studi accademici: è un medioevo un po’ di fantasia, un po’ di cartapesta, un po’ di carta stampata (quella del Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, che scrisse il suo feuilleton nel 1831 proprio per impedire che il venerabile edificio, ormai un rudere cadente, fosse spazzato via per dar luogo al Nouveau Paris che gli si stava costruendo attorno), un po’ di musica, un po’ di celluloide. Ma è quello che amiamo, quello che c’invade gli occhi della mente quando indugiamo a sognare: Gina Lollobrigida che danza nel suo abito rosso di gitana immaginaria, e il gibboso storpio campanaro Quasimodo e il canonico alchimista Frollo che la desiderano con pari ardore; e poi i mille remaking di quella pagine mediocri eppure trascinanti, e i cartoons della Disney, e il recital di Cocciante; ma, ancora prima, le note di Un americano a Parigi di Gerswin, le immagini della libreria “Shakespeare & Company” amata da Hemingway e quelle di Colazione da Tiffany con un trasognato Gregory Peck e un’adorabile Audrey Hepburn, e l’ucronica magia di Midnight in Paris di Woody Allen, e le passeggiate descritte nel Pendolo di Foucault di Umberto Eco…
Certo, è un monumento medievale e cristiano. E’ stato fondato nel 1162 da un vescovo ch’era anche cancelliere della prima Università d’Europa, vent’anni giusti dopo la morte di Pietro Abelardo e mezzo secolo prima della nascita di Tommaso d’Aquino, entrambi Maestri illustri in quella città. E’ lì che stanno infitte le nostre radici, lì è impiantato il senso dell’identità europea. Quando è crollata la guglia, il primo giorno di questa Settimana Santa, ho pensato immediatamente a quell’Europa che adesso sembra agonizzare tra Bruxelles e Strasburgo e che fra qualche settimana potrebb’essere travolta da un disastroso esito elettorale. Diciamolo pure: un gran brutto presagio. Notre-Dame avrebbe potuto saltar per aria in un giorno dell’agosto del 1944, se il governatore militare germanico di Parigi, generale Dietrich von Choltitz, non avesse deciso – senza dubbio contro la sua coscienza di soldato: ma gli sia resa eterna gratitudine per questo – che in quel caso l’obbedienza non era una virtù e con grave rischio per sé e per tutti i suoi cari non avesse trasgredito alla cieca voglia di vendetta del suo Führer. Invece, ha rischiato di crollare adesso, rovinata da oltre settant’anni di pace e dai gorghi della burocrazia, dai fondi insufficienti, dalla prevenzione inadeguata…
Eppure, Dio sia lodato, non è successo. Anzi, da quella rovina – eccolo di nuovo, il nostro vecchio capofamiglia contadino cinese…– sta nascendo, è anzi già nato qualcosa di buono. Intanto, non sapevamo di amarla tanto e nemmeno di esser tanto generosi. La mancanza di una manciata di milioni di euro aveva finora impedito al governo francese di metterla al sicuro come avrebbe dovuto. Ma il popolo francese e il popolo europeo gliene hanno forniti nel giro di poche ore molti di più: e lasciamo pure da parte lo spinoso capitolo della “generosità” di certe grandi lobbies, che è sempre pelosa e sospetta (meglio sarebbe meno magnificenza ostentata che in fondo non costa loro nulla e più attenzione a mettersi fiscalmente in regola). Inoltre, ci siamo accorti che i danni, senza dubbio ingenti, non sono irreparabili. Grazie a Dio non solo non ci sono state vittime – e sembra ancora quasi impossibile –, ma gli stessi danni materiali sono facilmente riparabili. La celebre cattedrale non custodiva speciali opere d’arte, a parte il prezioso tesoro – reliquie di valore spirituale ancor superiore a quello materiale delle loro teche in oro e gemme – e alcune vetrate medievali (non molte, oltre ai colossali rosoni), che sono state salvate. D’altronde ohimè, già prima della Rivoluzione a eliminare gran parte delle vetrate medievali ci aveva già pensato il vandalismo neoclassico e illuminista dell’architetto Soufflot.
Certo, ora è il tempo delle rese dei conti e anche delle polemiche. Qualcuno – ma auguriamoci che sbagli: e sembra che in effetti sbagli – si è chiesto se non si sia troppo precipitosamente abbandonata nella ricerca delle cause del sinistro la pista dolosa, addirittura quella terroristica. Ma non sussistono indizi al riguardo: le fantasie di alcuni blog sono per fortuna svanite come neve al sole. Qualcun altro chiede, invece, con ben altra ragionevolezza, che si faccia piena luce sulle ipotesi d’incuria, di leggerezza, d’incompetenza, di omissione di atti di ufficio: e si sta lavorando anche in tale senso. Qualcun altro ancora si è chiesto se per caso la sciagura di lunedì scorso non abbia salvato il presidente Macron dalla figuraccia che probabilmente avrebbe fatto se, nulla accadendo, avesse dovuto affrontare, com’era già stato programmato, l’opinione pubblica francese rispondendo in televisione alle domande postegli durante il Gran Débat dei giorni precedenti. Così tutto è andato in second’ordine, e l’inquilino dell’Eliseo se l’è cavata con una gande riunione organizzativa sulla ricostruzione e con un ricevimento ai bravissimi pompieri parigini protagonisti del salvataggio. A proposito dei danni tutto sommato leggeri subìti dalla cattedrale, c’è chi ha parlato di miracolo: ma forse l’autentico miracolato è stato in ultima analisi monsieur le Président.
Certo, c’è stata – a parte il pompiere ferito, che va meglio – almeno una vittima illustre. La grande guglia, concepita e fatta erigere un po’ più di un secolo e mezzo fa da un grande architetto e grande restauratore, Eugène Viollet-le-Duc: uno degli inventori del “neomedioevo” e del “medievalismo”. Egli aveva dichiarato con molta forza che il passato non andava solo restaurato o copiato, andava anche “interpretrato”, quindi magari inventato e/o ricreato. Ma ora che bisogna ricostruirla, che fare? Siamo obbligati a seguire le sue scelte e i suoi gusti, o dobbiamo seguire, invece, il suo insegnamento e quindi costruire una guglia nuova, che rappresenti il nostro tempo come la sua ha espresso l’Ottocento romantico? Sotto, artisti di oggi; sotto, architetti! Come per il ponte Morandi di Genova, c’è bisogno di bozzetti, c’è bisogno di idee. Magari di un bel concorso pubblico, con la gente che discute sui progetti, come successe nella Firenze del Quattrocento quando si trattò di fondere le porte di bronzo del battistero.
Ma anche a proposito del senso da dare ai progetti futuri, c’è già chi “ci ha marciato”, chi ha buttato lì una pregiudiziale nascondendosi dietro il dito della “laicità” per tirar l’acqua al suo mulino, o meglio alla sua loggia. In fondo, Notre-Dame è sì una chiesa, ma è anche l’espressione della volontà collettiva, dello spirito di un tempo ch’è andato al di là del medioevo cristiano: è stata anche Tempio della Dea Ragione tra 1793 e 1794, ha assistito all’incoronazione di Napoleone, che, al di là delle forme cristiane, apriva dinanzi alla cultura europea un’epoca nuova, è stata visitata da Hitler nel giugno del ’40, ha accolto i funerali solenni del generale De Gaulle nel ‘70: e allora, perché mai si dovrebbe ricostruire l’edificio nel XXI secolo restando aderenti solo al suo carattere medievale e cristiano? Chi ragiona così dimostra di trascurare che il linguaggio di quel capolavoro – medievale: ma non soltanto – è comunque quello di una concezione “olistica”, totalizzante, della spiritualità e della cultura; una concezione nella quale teologia e filosofia e politica ed economia ed estetica e mistica erano distinte senza dubbio ma anche inestricabilmente unite: e solo una violenza ingiustificata e illegittima potrebbe sciogliere questo nodo tradendone il significato profondo, l’equilibrio fondante e giustificante. Nel Settecento, forse, questa tentazione c’è stata: ma oggi anch’essa è perfettamente comprensibile e storicizzabile. Ormai ragioniamo in altro modo e, se e quando non è la fede a guidarci, sia almeno la filologia a consigliarci prudenza e rispetto per un passato ch’è anche presente e futuro. L’attualità come coscienza interpretativa del proprio tempo è necessaria e indispensabile; l’attualizzazione sperimentale, arbitraria e afilologica, sarebbe inammissibile.
Il nostro pensier, quindi, va oltre Notre-Dame, che tra qualche anno risorgerà senza dubbio – come diceva Petrolini – “più grande e più bella che pria”. In questa domenica di Pasqua del 2019, il Cristo, la corona di spine del quale è custodita nel Tesoro della grande cattedrale, risorgerà affidando un messaggio ulteriore al senso della Sua Resurrezione: quello della rinascita e del rinnovamento concreto di un edificio, quindi di Parigi, quindi della nazione francese, quindi della comunità europea che nella grande chiesa sul bordo della Senna in questi giorni si è riconosciuta commossa. Se qualcuno dubitava che esistesse una coscienza identitaria europea, un senso da dare a questa nostra patria che non riesce ancora a nascere, si è visto offrire una splendida riposta da queste antiche pietre che per lunghe ore, tra il Lunedì e il Martedì Santo or ora trascorsi, sono sembrate in pericolo. Notre-Dame è sempre là, imponente e magnifica. E con lei Parigi. E con lei la Francia. E con lei l’Europa, con le sue radici cristiane e con i frutti nati nella Modernità che potranno essere dolci e succulenti se riusciremo a curare e a potare in modo adeguato i rami dell’albero civile che li sostiene. Con il suo cuore antico e la volontà di non cedere alle ombre e ai pericoli del futuro. Notre-Dame stava per morire e invece è restata con noi: viva Notre-Dame! L’Europa domani potrebbe morire: viva l’Europa! FC