Minima Cardiniana 248/1

Domenica 26 maggio 2019. VI Domenica del Tempo Pasquale. San Filippo Neri

IL “CASO VINCENT LAMBERT”

UN CONTRIBUTO DI DAVID NIERI

Conosco ancora piuttosto da poco David Nieri, ma nei suoi confronti mi è capitato quello che spero sia accaduto anche a lui nei miei e che – ne sono convinto da moltissimi anni – succede quando ci si trova a fondare un’autentica amicizia. Non è cosa comune: soprattutto per me. E’ una gran bella grazia. In questi casi, il tempo non conta: si è amici da sempre anche se qualche settimana fa ci conoscevamo appena. Con David, che apprezzo perché è bravo e onesto come editore ma soprattutto perché è una persona schietta, sincera, che nei rapporti con gli altri non fa mai il giochetto delle tre carte. Su Vincent Lambert, non avrei mai avuto il coraggio d’intavolare una discussione. Lo ha fatto lui, in termini con i quali personalmente sono d’accordo: ma lo avrei ospitato su questo blog anche se non ne avessi condiviso nemmeno una parola. Come sono peraltro disposto e deciso a fare con chiunque abbia qualcosa d’interessante da dire e accetti il confronto con serietà e onesta.

La parola a David, quindi.

 Qualche (personale) impressione a proposito di Vincent Lambert

Charlie Gard, Alfie Evans, fino al caso più recente di Vincent Lambert. Tre storie, altrettanti drammi che hanno focalizzato l’attenzione dei media su una questione ampiamente dibattuta ormai da tempo: l’eutanasia. In mezzo, numerose vicende che hanno diviso l’opinione pubblica, con le opposte fazioni a darsi battaglia su un terreno accidentato e pericolosissimo. Chi non ricorda, ad esempio – solo per rimanere entro i nostri confini –, le polemiche sul caso Eluana Englaro, o, più recentemente, sulla scelta di Dj Fabo di andare a morire in una clinica svizzera per porre fine alle sue sofferenze.

Premetto di non avere competenze sul piano legale o scientifico, dunque per esprimere giudizi in merito a talune scelte da parte di tribunali o corti; o per capire se sia “moralmente” lecito che un giudice abbia la facoltà di decretare la fine o il proseguimento di una vita; infine, per intuire il limite tra terapia e accanimento, oppure quello che separa una vita “degna di essere vissuta” o meno, nel “miglior interesse” del malato. Non credo possa essere un tribunale a stabilirlo; né, altresì, che sia di competenza del personale medico.

Si tratta evidentemente di un terreno accidentato, sul quale possiamo muoverci – noi, comuni mortali – solo con la nostra coscienza. Ritengo che una legislazione precisa sull’eutanasia sia difficilmente proponibile e attuabile, proprio per la delicatezza del “confine”, considerato che ogni dramma – perché di dramma si tratta – è diverso dall’altro, e che dunque sia impossibile inquadrarlo a livello normativo.

Il caso Vincent Lambert, in questi giorni, ha riacceso violentemente il dibattito. Di seguito, ne riporto la breve storia e le tappe principali (fonte: La storia di Vincent Lambert: cosa c’è da sapere, di Enrico Mingori, www.tpi.it):

Al centro del dibattito c’è una battaglia legale che si trascina da quasi dieci anni sulla sospensione dei trattamenti sanitari per Vincent Lambert, tetraplegico in stato vegetativo dopo un incidente stradale. I medici, d’accordo con la moglie dell’uomo, ritenendo le sue condizioni irreversibili, decidono di interrompere le cure. Ma i genitori si oppongono e presentano ricorso.

Vincent Lambert nasce a Reims, nel nord-est della Francia, il 20 settembre 1976. Infermiere psichiatrico, sposato con Rachel, nel 2008 la coppia ha da poco avuto una figlia quando l’uomo è vittima di un grave incidente stradale.

L’incidente lo fa piombare in uno stato vegetativo: Lambert subisce un trauma cranico che lo rende tetraplegico e dipendente dai macchinari sanitari.

Nel 2013, dopo diversi anni di tentativi senza successo di migliorare le sue condizioni di salute, l’equipe medica dell’ospedale di Reims incaricata del suo caso – dopo aver consultato la moglie, ma non i genitori e i fratelli dell’uomo – dispone la sospensione dei trattamenti che alimentavano e idratavano Vincent Lambert.

La decisione è confermata nel gennaio 2014: questa volta i genitori dell’uomo sono informati con lettera raccomandata. Ma il padre e la madre non sono d’accordo e fanno ricorso.

Inizia così una battaglia legale che non è ancora finita e che vede contrapposti, da una parte, i medici, la moglie di Lambert, suo nipote e sei dei suoi otto fratelli, e, dall’altra, i suoi genitori e due fratelli.

Nel giugno 2015 la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) dichiara la procedura di sospensione delle cure per Vincent Lambert è conforme alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Tra il 2016 e il 2018 diversi tribunali francesi, e per due volte la Corte di Cassazione, confermano la legittimità dello stop ai trattamenti sanitari.

Nel frattempo le condizioni cliniche dell’uomo si deteriorano. I medici dicono che Lambert può rispondere alle cure e agli stimoli, ma anche che le sue risposte non sono ritenute coscienti.

Nel novembre 2018 gli esperti incaricati dal Tribunale amministrativo di Châlons-en-Champagne confermano il suo “stato vegetativo irreversibile cronico”.

Il 24 aprile 2019 il Consiglio di Stato conferma l’ok alla sospensione di alimentazione e idratazione.

Il 15 maggio 2019 il Tribunale amministrativo di Parigi respinge un appello urgente dei genitori di Lambert.

Il 20 maggio 2019 è una giornata chiave. All’ospedale di Reims viene avviata la procedura per lo stop delle cure, in applicazione della sentenza del Consiglio di Stato.

Poche ore dopo arriva un nuovo verdetto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, che, in mancanza di “elementi di novità”, boccia l’ennesimo ricorso dei genitori. In serata il colpo di scena: la Corte d’appello di Parigi ordina la ripresa delle cure per Lambert, accogliendo a sorpresa la richiesta dei genitori, che hanno invocato le raccomandazioni del Comitato dei Diritti dei disabili delle Nazioni Unite.

La moglie di Vincent Lambert, Rachel, è stata nominata tutrice del marito nel marzo 2016. I genitori dell’uomo si sono opposti e hanno presentato ricorso, ma la Corte di Cassazione l’ha confermata tutrice nel dicembre dello stesso anno.

Nel 2014 ha pubblicato un libro-testimonianza, intitolato “Vincent”, in cui spiega così la decisione di dare il via libera alla sospensione dei trattamenti sanitari per il marito: “Perché lo amo, voglio lasciarlo andare”.

“I primi giorni dopo l’incidente, ho pensato solo a due cose: che Vincent restasse vivo e che io non morissi di dolore. Finché è stato sedato, ho aspettato il suo risveglio, per poter finalmente interagire con lui. Poi abbiamo fermato la sedazione e l’ho visto arricciarsi le braccia”, ha dichiarato in una intervista alla rivista Psychologies, nel febbraio 2015.

“Quando aprì gli occhi, i suoi occhi non erano più vivi, come se non fosse più lì. Certo, c’è la folle speranza ma, nel profondo di me, lo sapevo: il suo cervello era irreparabilmente danneggiato”.

“Rispetto le convinzioni dei genitori di Vincent, di sua sorella e del suo fratellastro, che pensano, a differenza del resto dei fratelli e di me, che mio marito debba rimanere in vita. Semplicemente, dico che è la parola di Vincent che dovrebbe essere presa in considerazione”, ha osservato la moglie.

I genitori di Vincent Lambert, Pierre e Viviane, ferventi cattolici, si oppongono con forza alla sospensione dei trattamenti sanitari per il figlio.

“Lo stanno uccidendo senza averci detto nulla, sono dei mostri”, ha dichiarato la madre il 20 maggio, dopo che all’ospedale di Reims sono state avviate le procedure per il fine vita.

Vincent Lambert è il primo figlio della coppia. Quando nacque, nel 1976, sia Viviane sia Pierre erano sposati con altre persone ed entrambi avevano già avuto figli nel primo matrimonio.

Fino ai 6 anni Vincent ha vissuto con la madre Viviane e il suo primo marito: nel 1982 è stato riconosciuto dal padre biologico Pierre.

Marie-Genevieve Lambert, 60 anni, sua sorellastra, lo descrive come “un giovane introverso, emotivo, appassionato di brividi e che moltiplica il comportamento a rischio”.

“Per sfuggire al lato ansioso della famiglia, entrambi avevamo sviluppato un umorismo molto oscuro”, ha raccontato il nipote Francis, che si sentiva “vicino” a questo zio di quattro anni più anziano, che “amava i Pink Floyd e il rock sperimentale”.

La moglie di Vincent, Rachel, sostiene che il marito lo avrebbe confidato di aver avuto una “infanzia complicata” in “un ambiente cattolico tradizionalista, dove la moralità soffoca”.

I genitori dell’uomo hanno scritto una lettera sul figlio e l’hanno pubblicata sul sito jesoutiensvincent.com. “I media lo dipingono come un vegetale, ma è assolutamente sbagliato”, si legge nella lettera. “Come ogni essere umano, si addormenta di notte, si sveglia al mattino, riconosce le nostre voci, ci segue con gli occhi quando parliamo con lui. Quando c’è una musica che gli piace, cerca da dove viene, girando la testa. Vincent è vivo. Non è né un vegetale, né totalmente privo di coscienza”.

Credo che in questa breve cronistoria sia evidenziato tutto quello che c’è da conoscere sulla vicenda, per farsi almeno un’opinione.

Il caso di Vincent ha aperto l’ennesima diatriba: sul piano personale, mentre nei giorni scorsi le due fazioni sono “entrate in guerra” – i favorevoli (senza discussione) all’eutanasia e i pro-life – , la mia coscienza mi ha imposto di fermarmi a pensare. Di provare a mettermi nei panni dell’uno (la moglie) o in quelli dell’altro (i genitori), considerata la mia impossibilità di indossare quelli del povero Vincent. Al tempo stesso, mi sono chiesto se le limitatissime facoltà mentali di Lambert possano considerarsi “vita” o meno. Mi sono chiesto quanto soffra. E, se potesse, cosa vorrebbe. Cosa domanderebbe ai genitori e/o alla moglie.

Pensando alla moglie, posso solo lontanamente immaginare cos’abbia provato nei dieci anni che ci separano dall’incidente, quando entrambi erano poco più che trentenni, quindi nel fiore della vita, con una figlia nata da poco. Mi sono chiesto se possa ancora considerare Vincent suo “marito”. Se lo senta vivo. Se possa in qualche modo comunicare con lui. È la sua tutrice, può provare a decidere. Non credo sia stata immune da un conflitto interiore, probabilmente straziante. Alla fine, ha deciso. E io posso capirla, senza giudicarla.

Pensando ai genitori, ho provato a immaginare la seppur debole fiammella di speranza che li ha incoraggiati a proseguire. A un miracolo che può manifestarsi. A un piccolo gesto degli occhi di Vincent che comunica loro qualcosa, un gesto che potrebbe diventare movimento del corpo; magari, in futuro, un risveglio. I genitori hanno deciso di tenerlo in vita. E io posso capirli, senza giudicarli.

Quando, poco più di dieci anni fa, il caso Englaro scosse l’opinione pubblica di casa nostra – dividendola negli opposti schieramenti di cui sopra – io, che evidentemente non sono un buon cristiano, non me la sentii di “condannare” papà Beppino, che per ben 17 anni l’aveva aspettata, l’aveva accudita. Non fui in grado. Anzi, provai per lui pietà e compassione. Chiedendomi che cosa avrei voluto, se fossi stato Eluana (nata 10 giorni prima di me), oppure se la stessa Eluana fosse stata mia figlia, costretta in stato vegetativo per 17 anni, senza alcun miglioramento dal giorno dell’incidente.

Se non mi sono piaciute, in questi giorni come in occasioni precedenti, le manifestazioni di supporto all’eutanasia “senza se e senza ma” – che potenzialmente considero una porta che si apre sull’abisso: leggete, a tal proposito, il caso di Alessandra Giordano –, non mi sono piaciute neanche le reazioni di una parte del mondo cattolico. Lo dico, ovviamente, da una prospettiva personale: ho profondo rispetto per la sofferenza e cerco di andare oltre a quello che intende manifestarsi come il dogma della “vita a tutti i costi”. Gli opposti fondamentalismi non servono, come non servono le foto e i video diffusi a ripetizione sui social, che ritraggono il povero Vincent piangere (?) dopo la decisione dei giudici di interrompere il trattamento. Non si può stigmatizzare la spettacolarizzazione di ogni angolo dell’umana esistenza – anche il più privato, dolore compreso – spettacolarizzandolo a nostra volta, per i nostri fini, nobili o meno che siano.

Penso che le battaglie che si combattono a colpi di risonanza mediatica non siano le uniche a essere “giuste”. Tutt’altro. Ho anzi l’impressione che il conflitto più serio e profondo sia in atto altrove, ovvero in quei luoghi di disperazione, dimenticati, dove i media raramente arrivano. O magari anche all’interno delle nostre stesse case: lo dimostrano i tragici fatti di cronaca, sempre più frequenti, che quotidianamente riempiono le pagine dei giornali. Le stesse tragedie che dimostrano come l’unica spina – quella più importante – che rischiamo definitivamente di staccare sia quella della nostra umanità. O di quello che resta.

David Nieri