Minima Cardiniana 250/2

Domenica 9 giugno 2019. Pentecoste

IL MARCO FURIOSO. TARCHI RECENSISCE CARDINI

“Diorama letterario”, 348, marzo-aprile 2019, pp. 17-20.

Franco Cardini, «L’Islam è una minaccia». Falso!, Roma-Bari, Laterza  2016, pagg. 216, euro 10.

Che «la nostra sola e vera identità ormai, come la globalizzazione con i suoi molti pregi e difetti ci ha obbligato a tener sempre presente, è […] l’appartenenza al genere umano» non è, di questi tempi, una affermazione particolarmente originale. Ce lo ripetono da anni intellettuali, politici, papi, giornalisti, animatori di talk show, attori e cantanti in veste di opinionisti, moralisti di varia estrazione. Quegli stessi che fustigano anche «l’insorgere in Europa di nuovi nazionalismi, tanto più anacronistici in una società globalizzata nella quale, piaccia o no, tutti dipendono da tutti e nessuno può chiamarsi fuori». Non ci sarebbe quindi di che stupirsi nel trovarsi fra le mani un volumetto nel quale le parole citate accompagnano un’accorata requisitoria su uno dei tanti conflitti che scuotono le odierne società europee.

Quello che non ci si aspetterebbe è che le parole in questione e il libro che le contiene rechino la firma di Franco Cardini. Uno studioso — e un commentatore di fatti politici e sociali — che aveva abituato i suoi lettori a ben più profonde dissonanze dallo spirito del tempo presente. Ma cosi stanno le cose, e bisogna prenderne atto.

E nota l’antica massima Amicus Plato sed magis amica veritas. Espressione che si può rendere cosi: per quanto affetto si possa avere per un amico, non ci si può — e non ci si deve — astenere dal criticarlo quando si reputa che sia in errore. La prima parte di quella frase ci ha indotto tre anni fa, lette le prime decine di pagine del pamphlet, a fermarci lì e a non esternare le nostre reazioni, per non incrinare un sodalizio che ha toccato ormai i quattro decenni. La seconda ci ha imposto poco tempo fa di riprendere in mano il testo, rileggerlo da capo ed ora a recensirlo, perché nel frattempo Cardini è tornato in più occasioni a ribadire le opinioni lì espresse, facendo sì che tacere che cosa ne pensiamo potrebbe essere inteso come un acconsentire a quelle prese di posizione. Il critico quindi è ora chiamato a prendere il posto che gli spetta, per dire con franchezza all’amico quel che pensa di un libro che gli appare poco felice, discutibile e per certi versi persino inopportuno. Un giudizio così severo obbliga, ovviamente, ad un’articolata esposizione delle motivazioni che spingono ad adottarlo. Ed è a questo compito che è destinato quanto scriveremo.

Veniamo ad una prima giustificazione degli aggettivi adottati: un libro poco felice. Il rilievo è, in questo caso, di natura prima di tutto stilistica, ma tocca largamente anche la sfera del contenuto. Troppi aggettivi spesi a scopo polemico, troppa facile ironia, una prosa appesantita da divagazioni che non giovano alla linearità dell’argomentazione, scivolamenti in uno schematismo che non rifugge dalla trasfigurazione caricaturale nell’attribuire ai bersagli delle invettive i tratti desiderati. Tutti aspetti che fanno rimpiangere il Franco Cardini “professionale”: grande medievista, storico raffinato, acuto nella riflessione e nell’uso dei termini, accorto nei dettagli e solido nel filo del racconto. Questo Cardini “giornalista” — quale si descrive in queste pagine, rivendicando il diritto di praticare tale «secondo mestiere» — non gli è all’altezza.

Seconda giustificazione del giudizio espresso: un libro discutibile. Qui il discorso si fa molto più complesso. Partiamo dagli obiettivi che il libello si pone. Il titolo lascia presagire la volontà di reagire ad un atteggiamento oggi piuttosto diffuso in Italia e in molti altri paesi: l’islamofobia, ovvero la paura dell’islam e di chi vi si richiama. Se le cose stessero semplicemente così, saremmo d’accordo; di pregiudizi, di mistificazioni e di fraintendimenti nei confronti della cultura islamica in Occidente ne circolano certamente molti, e rintuzzarli sarebbe azione lodevole.

II guaio è che l’intenzione dell’autore non è solo questa — del resto, se Io fosse stata ci saremmo trovati di fronte a una ripetizione, perché lo scopo è già stato perseguito e raggiunto con altri scritti di successo, come Europa e islam. Storia di un malinteso e Noi e l’islam. Qui si va oltre, toccando argomenti di cui pure Cardini si è già largamente occupato nella sua vasta produzione recente, come il fondamentalismo e il terrorismo di matrice islamica, nonché le controverse e connesse questioni dell’immigrazione e del multiculturalismo. Ed è su questi scogli che il testo va a cozzare, con esiti che ci appaiono — e, crediamo, appariranno a molti altri abituali estimatori delle pagine dell’illustre medievista — tutt’altro che convincenti.

Per confutare l’equazione islam=minaccia, l’autore punta a smontare le connessioni fra la fede musulmana e i fenomeni negativi che vi si richiamano, primo fra tutti il terrorismo dell’Isis. Proposito sottoscrivibile se lo si concretizzasse discutendo sul piano teologico, con un’accurata esegesi testuale, la fondatezza dei richiami che Daesh oggi, come Al Qaeda ieri, fa alla predicazione di Maometto per giustificare le proprie azioni. Ma non è quel che il volumetto ci offre, se non per minimi cenni. Si sceglie piuttosto di procedere per affermazioni apodittiche, sostenendo che quello del preteso Stato islamico «non è Islam proprio per nulla», anzi ne è la «tragica caricatura in termini ideologici», è «un “ismo” (al pari del fascismo o del comunismo) che tratta Dio e la religione come pretesti per una politica di potenza»; che la sua azione è «blasfema»; che «il califfo al-Baghdadi è un brigante [che] deve farci paura a casa nostra fino a indurci a perdere la testa e a rinunziare al nostro ordinario way of life e magari agli stessi valori in cui crediamo»; che i militanti dell’Isis non sono «veri musulmani» ma, almeno in buona parte, «mercenari strapagati e delinquenti abituali».

Tutto questo ci è stato detto talmente tante volte dalle fonti informative ufficiali e politicamente corrette che non ci sarebbe bisogno di sentircelo ripetere. Cosi come non ci suona nuovo l’invito a proseguire serenamente la vita civile «alla faccia dei terroristi assassini, pur con tutte le misure di sicurezza necessarie, ma senza isterismo», a individuare sostegni e fonti di finanziamento dell’Isis, a non cascare nella trappola dello scontro di civiltà. Più interessante sarebbe esplorare le cause dell’insorgenza dell’islamismo, pur ridotto a «perfido e ridicolo succedaneo» del vero islam: Cardini accenna a farlo, ma i fattori che individua si riducono al persistere «delle oscene, insopportabili diseguaglianze lucidamente denunziate nell’enciclica Laudato si’ di papa Francesco». Eliminate quelle, ci viene assicurato, i «mostri» che oggi dobbiamo combattere scomparirebbero.

Siamo proprio sicuri che le cose stiano cosi? Che i militanti dei gruppi fondamentalisti siano solo dei cinici sfruttatori della fede e dell’indigenza materiale delle masse, dei falsificatori della lettera e dello spirito del Corano in vista di obiettivi politici? Che le loro azioni possano essere ridotte al rango di infrazioni ed offese allo spirito autentico dell’islam? Possiamo accontentarci dell’ipse dixit per rispondere a questi interrogativi? Il dubbio è lecito, cosi come lo è il chiederci come mai Cardini non abbia deciso di andare più a fondo per dissiparlo.

Proseguendo nella lettura, la lacuna si spiega, perché appare chiaro che l’autore ha un’altra finalità in vista. Del legame esistente fra islam canonico e interpretazioni integraliste, in questa sede non gli importa granché. Gli preme invece polemizzare con chi teme il propagarsi della presenza dei fedeli di Allah sul suolo europeo e vorrebbe arginarla. Ed è in questa direzione che muove nella sua paradossale Crociata anti-Crociati. Buona parte del libro è perciò dedicata a convincere il lettore italiano/europeo che l’islam non è una materia estranea al suo habitat culturale, assicurandogli di voler trattare il tema con il «necessario distacco critico» e serenità e senza indulgere ad islamofilia o ad islamofobia, «termini il cui uso è critico e paraideologico, soggettivo e spesso tendenzioso se non arbitrario». lntenzione ottima, ma smentita nei fatti.

Il libro infatti vira immediatamente verso un’ininterrotta requisitoria contro una sola delle due categorie citate: gli «islamofobi in servizio permanente effettivo, quelli che vorrebbero chiudere tutte le moschee e far colare a picco barconi e gommoni a bordo dei quali arrivano sulle coste siciliane i dolenti carichi di poveracci in cerca di asilo».

La riduzione delle critiche all’immigrazione (che peraltro non riguardano soltanto gli immigrati musulmani) ad un rigurgito di disumanità è già sufficiente a capire come si svolgerà il seguito dello scritto. Ma il peggio deve ancora venire. Perché, concesso che i diffidenti verso le ondate migratorie non sono tutti mossi dall’odio per i “poveracci”, e che fra loro ve ne sono molti spinti dalla paura, ci si affretta ad aggiungere che «odio e paura, sentimenti concettualmente molto diversi tra loro, sono fatalmente destinati a confinare, a sostenersi a vicenda, a sovrapporsi. Ed entrambi implicano un qualche complesso d’inferiorità», che può derivare «da un qualche oscuro, latente senso di colpa» o «dall’invidia per qualcosa di cui si sente che l’avversario è comunque dotato».

Ora, che il «vecchio professore» (parole sue) avesse una cultura sterminata ci era ben noto. Che nel suo bagaglio figurassero anche le competenze per ergersi a psicanalista e impartirci anche in questo campo delle lezioni, però, non lo davamo per scontato. E ci è difficile ammetterlo anche ora, perché questa sua diagnosi del rifiuto dei flussi migratori ai limiti dell’invidia penis ci appare frettolosa e monca, priva com’è della comprensione di quel bisogno di identità culturale e di sicurezza materiale che è connaturato all’essere umano, animale sociale per eccellenza. Ma non è questo l’unico errore d’interpretazione dei fenomeni affrontati nel libro.

Altre notazioni cardiniane sono dedicate a vanificare il timore che i musulmani si apprestino a conquistare il mondo e a trasformare l’Europa in Eurabia. Sono rilievi che condividiamo, e le fissazioni di chi agita questo spauracchio ci sono altrettanto indigeste quanto quelle dei fanatici del culto del no border. Gli argomenti utilizzati per contrastarle, però, ci convincono poco. E’ vero che ingigantire e generalizzare i fatti di cronaca nera i cui protagonisti sono musulmani è un errore, ma lo è anche ignorare che i (numerosi: perché tacerlo?) delitti di cui si macchiano degli stranieri sono sentiti dalla popolazione autoctona come particolarmente inaccettabili perché si aggiungono a quelli dei connazionali e, vien fatto a molti di pensare, non si sarebbero verificati se ai colpevoli non fosse stato consentito l’accesso al paese. E’ una riflessione tutt’altro che peregrina, che non si sradicherà a suon di paradossi, stereotipi e slittamenti negli stilemi buonisti come quelli che spingono Cardini a scrivere che gli immigrati sono i benvenuti soltanto «quando accettano docili lavori “al nero” e salari da fame, cioè di far quello che noi non vogliamo fare» o a mettere sul piatto della bilancia, per l’ennesima volta, chi compie stragi di innocenti in nome di Allah e «le migliaia e migliaia di buoni e onesti musulmani» che «soccorrono i nostri anziani e i nostri disabili mentre noi discutiamo. Se essi abbiano o no il diritto di riunirsi a pregare in un edificio religioso eretto o sistemato a loro spese» (affermazione, quest’ultima, peraltro non sempre fondata, se è vero che un buon numero di critiche riguardano il ruolo di paesi musulmani come l’Arabia Saudita e la Turchia nel finanziamento dell’edilizia religiosa all’estero).

Cardini, tuttavia, sembra non capirlo e, una volta messa su questo piano, la sua polemica contro i bersagli presi di mira non conosce più argini, sfiorando i toni della più scontata retorica. Ecco così le immagini struggenti (la «ragazza somala che accudisce un’anziana signora con la stessa dedizione con cui Io farebbe per sua madre») e le indignazioni contro «gli islamofobi di professione, politici oppure operatori mediatici» impegnati a «seminare paura per raccogliere odio e quindi consenso» fra «i ceti socialmente e intellettualmente più deboli» — si noti la equiparazione sprezzante del povero all’idiota —, per finire nel richiamo comparativo «a un odio e a una paura alimentati da una sinistramente geniale propaganda» che spinsero negli anni Trenta «tanti onesti cittadini tedeschi» a «far finta di niente mentre gli ebrei della porta accanto scomparivano nel nulla». Non ci viene risparmiata neppure la replica del monito brechtiano «Il ventre che ha partorito questi mostri è ancora e sempre gravido», condita dal commento secondo cui «ci vuole poco — specie con i mezzi e gli strumenti mediatici di oggi — a creare climi e atmosfere analoghi a quelli e a quelle che credevamo ormai sepolti in un passato vergognoso».

Con questa vertiginosa caduta di tono e di stile, persino l’equazione Salvini-Goebbels è servita, e senza nemmeno rischiare una querela. Ma la lezione del professore non è ancora conclusa. Ci deve essere anche spiegato che molte sono le forze interessate a seminare paura per «raccoglier qualcosa», e che stiamo vivendo in un clima di allarmismo in cui la fa da padrone «il pregiudizio della diversità» ed «emerge puntuale lo spettro dello “straniero che viene a rubarci il lavoro”».

Che dietro questo fantasma ci sia il concreto sfruttamento della marxiana armata di riserva del Capitale, disposta a far di tutto pur di ottenere qualche soldo e utilizzata per tenere bassi i salari, a Cardini non sembra passare minimamente per la mente. Gli preme invece «azzann[are] alla trachea gli odierni Signori della Paura», i cui ispiratori siederebbero a Washington — e divagare in una rievocazione, condita da una massiccia dose di schematismo, della catena causale interessi delle multinazionali-guerre di Bush-resistenza degli aggrediti-nascita dei gruppi terroristici, che sarebbe l’unica responsabile del clima di astio scatenato contro gli immigrati. Imboccando questo vicolo cieco, gli sfugge del tutto che la percezione diffusa della difficoltà di far convivere la mentalità di molti immigrati islamici e quella delle popolazioni da più lungo tempo residenti in Europa non è il frutto di un complotto ordito a Wall Street ma di una vasta serie di esperienze che punteggiano la quotidiana vita reale della gente comune.

Sarebbe ovviamente ingeneroso, calcando la mano sui difetti, tacere dei pregi che l’opera che qui discutiamo presenta, come la denuncia degli aspetti negativi della way of life occidentale, la ricostruzione della complessità delle fasi di sviluppo della civiltà islamica e del suo rapporto con i contenuti culturali della modernità, l’analisi delle conseguenze contrastanti della parziale occidentalizzazione dei costumi musulmani, l’esegesi in prospettiva storica degli ambivalenti rapporti fra Europa e islam, nonché la messa in guardia contro i guasti derivanti dall’omologazione culturale e il simmetrico opportuno invito al dialogo ed allo scambio con l’altro-da sé. Sfortunatamente, il partito preso che anima il libro e la foga con cui l’autore lo sviluppa finiscono con il farli scivolare in secondo piano.

La visione che Cardini ha del modo in cui viene presentata oggi in Europa la questione islamica rasenta infatti la cecità, o perlomeno lo strabismo. È per questo che abbiamo giudicato questa sua opera anche inopportuna, perché — sul piano dei fatti — fuorviante. Lo storico sostiene che «gli islamofobi continuano a disinformarci» e che «bisognerebbe farli smettere», ma non si accorge che lo stesso fanno, e con non minore frequenza e insistenza, i partigiani del fronte avverso. Inveisce — e fa bene — contro «i travet della politica» incensatori di Oriana Fallaci «in cerca di pretesti con i quali riempire il loro vuoto (ora che l’antisemitismo non è più praticabile e che l’anticomunismo ha smesso di pagare)» ma non ha una parola di biasimo per gli omologhi che si riempiono la bocca di antirazzismo e “accoglienza” per raggiungere lo stesso scopo. Se la prende con le generalizzazioni e le semplificazioni altrui, ma poi vi attinge a piene mani ogni volta che gli torna comodo. E arriva al punto di sostenere, sbalordendo chi legge i giornali mainstream, guarda qualche talk show in tv e ascolta le trasmissioni di approfondimento radiofoniche, che «oggi esistono un conformismo e un politically correct islamofobi, non il contrario». Se non si avesse la fortuna di incontrarlo in gradevoli convivi in qualche trattoria fiorentina, di fronte ad affermazioni come questa verrebbe fatto di chiedersi: ma il Nostro in che mondo vive? Si è trasferito su un altro pianeta?

Per dirla tutta, quel che più manca a questo volume è il senso di equilibrio, la capacità (o la voglia?) di soppesare i pro e i contro di una vicenda complessa, l’attenzione alle opposte ragioni. Tutto viene visto unilateralmente. Si sostiene, ed ancora una volta è vero, che c’è chi dell’islamofobia ha fatto un trampolino di lancio mediatico e/o uno strumento di affermazione politica, senza però riconoscere che lo stesso accade con i professionisti dell’islamofilia “antirazzista” e cosmopolita, nemica di ogni rivendicazione dell’identità europea, almeno altrettanto numerosi. Si derubricano al rango di pure «follie collettive, prodotto d’irresponsabile propaganda e di patetica e credula ingenuità» le apprensioni — giudicate addirittura anticamere di «psicosi» — che si manifestano in larghi strati della popolazione di fronte alle cospicue ondate dei «rifugiati economici». Si liquidano, definendoli «inesistenti», i rischi di una saturazione migratoria. E si minimizzano le dimensioni del fenomeno, ridotto ad «alcune centinaia di migranti al giorno in un continente i cui abitanti superano il mezzo miliardo», ignorando le dichiarazioni di alti funzionari dell’Onu secondo i quali almeno cinquanta milioni di africani hanno già deciso di emigrare in Europa e attendono solo il momento adatto per poterlo fare.

Non è certamente questo il modo giusto per convincere i lettori scettici che dell’Islam, e del suo «contrappunto moralmente, civicamente e antropologicamente prezioso», noi europei «abbiamo bisogno». Un conto è incitare a trovare un accordo di convivenza tra soggetti formati in culture distinte, un altro ritenere che questo compromesso lo si possa raggiungere limitandosi ad intonare inni al volemose bbene. Cardini sa, e lo ammette, che l’islam odierno è una realtà polimorfa e contraddittoria. Sa che «appare oggi sospeso tra jihad e Coca-Cola, tra Corano e business, tra richiami alla potenza califfale e suggestioni informatico-telematiche, tra chador e niqab e Gucci o Valentino». Ed è consapevole di non poter dire quali, tra queste forze, avranno la meglio. Dovrebbe, di conseguenza, capire che dal moltiplicarsi degli immigrati islamici sul suolo europeo potrebbero venire apporti positivi o conseguenze disgregative, se non distruttive, per le tradizioni, le credenze e l’identità dei popoli che su quel suolo risiedono da molte generazioni. Ed evitare di far passare le loro diffidenze, inquietudini, paure — sempre legittime e non di rado giustificate — per risibili segni di ignoranza o di intolleranza. Perché, cosi facendo, è lui a collocarsi sul versante del conformismo, e ad alimentarne la mala pianta.

Marco Tarchi

PS — La strage di fedeli islamici perpetrata da Brenton Tarrant in Nuova Zelanda non ci spinge a modificare una virgola di quanto abbiamo scritto, e anzi ci stupisce che chi, ad ogni attentato islamista, ha giustamente incitato a distinguere tra i fanatici assassini ed i musulmani «normali», metta oggi nello stesso sacco altri fanatici omicidi, come Tarrant o Breivik, e i critici dell’immigrazione. Se non ha senso imputare al Corano la responsabilità delle azioni dei terroristi dell’Isis, sebbene costoro dicano di ispirarvisi, lo stesso deve valere per le idee di Renaud Camus sulla «grande sostituzione» quando vengono richiamate dai suprematisti.

IL RECENSORE RECENSITO

AMICUS MARCUS, SED MAGIS AMICA VERITAS (IMMO, QUID EST VERITAS?)

Il “Minieditoriale” di cui sopra serviva essenzialmente a introdurre queste poche notarelle. Ma, siccome esse rappresentano un modesto ombrello col quale ho cercato di ripararmi da una pioggia torrenziale, è bene sapere che la tempesta era stata preceduta da lontani paurosi brontolar di tuoni (Marco Tarchi mi aveva già annunziato la sua terribile reprimenda) e accompagnata da tuoni e saette (cfr. “Diorama letterario”, 384, marzo-aprile 2019, pp. 17-20).

Mentre pioveva, ho incassato anche una grandinata di messaggi (per lettera, per telefono, per e-mail: non leggo i messaggini telefonici e non sono iscritto a “Facebook”) di amici, conoscenti, sconosciuti, simpatizzanti, antipatizzanti, nemici unilaterali (io non stimo nemico nessuno: se qualcuno ritiene di essermi tale, fatti suoi, ma non lo ricambio). Si va dal “Finalmente te le hanno cantate come meriti” al “Ma che vergogna, che Giuda quel falso amico del Tarchi”, dallo “Era ora che qualcuno ti smascherasse” al “Sappia che condivido parola per parola quel che Lei ha scritto ecc.”. Ho risposto a chi potevo e a chi lo meritava: ma posso tranquillizzare (o deludere) chi temeva (o sperava) che questo incidente potesse minimamente danneggiare la stima e l’amicizia che da molti decenni nutro nei confronti di Marco Tarchi. Del resto, credo fermamente che, nel redigere quel suo pesantissimo atto d’accusa nei miei confronti, egli sapesse benissimo che avrei reagito così. Può darsi che altri al mio posto, o magari lui stesso al mio posto, avrebbero reagito in modo diverso: magari rompendo platealmente una più che pluriennale amicizia. Ma io sono fatto in un altro modo. Tarchi è un vecchio e caro amico, è uno studioso di valore e una persona onesta; su moltissimi argomenti il suo parere è identico o molto vicino al mio, e non si contano le occasioni nelle quali egli mi è stato di grande aiuto nel correggere e migliorare le mie posizioni. Credo che mi consideri un vecchiaccio che non è mai riuscito a crescere; e dal canto mio gli ho sempre ripetuto che lui è quasi una vecchia cara zia per me. Io sono impulsivo, collerico, passionale e intemperante quanto lui è cauto, razionale,  pedante e permaloso. Lui era già un anziano docente universitario quando era ancora un ragazzaccio del MSI; io resto un ragazzaccio del MSI anche ora che sono docente emerito.

Quanto alla diversità di pareri e magari all’opposizione concettuale, se non se ne discute francamente e magari violentemente con gli amici, con chi mai si potrà farlo? E quando si discute lealmente, perché prendersela? E perché mai si dovrebbe seguire sempre il principio filosofico degno delle lavanderie a gettoni, che “i panni sporchi si lavano in famiglia”?

A Marco Tarchi non è piaciuto il mio “L’Islam è una minaccia” (Falso!) (Laterza 2016): anzi, alla luce di quelle pagine egli sembra aver chiarito a sé stesso quel che in altri miei precedenti studi di analogo o prossimo argomento non lo aveva convinto. Che egli, “tendenzialmente filomusulmano moderato e distinzionista”, mi rimproverasse quello che (a torto) giudicava (e tantopiù giudica adesso) un “filoislamismo estremistico e globale”, era da tempo noto a chi ci conosce e a chi legge le nostre cose. Ma, se è vero che io sono un collerico, è non meno vero che Tarchi è uno stizzoso: e, dato che del mio libro gli è dispiaciuto il capitoletto dedicato a Islam e migrazione, si è limitato a leggere e a discutere specificamente solo quello o quasi (praticamente il paragrafo 12, I musulmani stanno invadendo l’Occidente, pp. 153-61), mentre  il resto, lo ha scorso o lo ha ignorato. Da qui il suo giudizio sprezzante esteso a tutto il lavoro, anche alle parti alle quali egli dedica poche e talora distratte righe (evidentemente negative o limitative, perché ormai il gioco è quello).

Insomma, avrei scritto  un pamphlet. Non ci ho nemmeno pensato. Io non scrivo pamphlet; è vero che ho da moltissimo tempo un’”attività secondaria” come giornalista ed elzevirista, è vero che ho (non so se al mio attivo o al mio passivo) una lunga carriera di autore di saggi storici di genere “divulgativo”, per quanto mi sia sempre sforzato di mantenerli a un livello “alto” o comunque decoroso. Ma non ho mai trascurato di rifarmi alle fonti, possibilmente di prima mano, e d’indicarle sia pure in qualche caso compendiosamente. Non ha senso che Tarchi mi accusi ripetutamente, in questo caso, di non aver spiegato questo o di non aver approfondito quest’altro, in quanto si tratta di argomenti che ho puntualmente e spesso esaurientemente trattato in altre sedi, e che lui peraltro conosce bene anche se può non averli considerati con la necessaria attenzione. A parte studi specifici come Il Turco a Vienna (Laterza), che è qualcosa di più di una monografia sull’assedio del 1683, negli ultimi anni ho pubblicato, appunto sui temi a proposito dei quali Tarchi mi accusa di superficialità e di scarsa fondatezza, L’ipocrisia dell’Occidente (Laterza 2015), Il califfato e l’Europa (UTET 2015), Terrore e idiozia. Tutti i nostri errori nella lotta contro l’islamismo (con Marina Montesano, Mondadori 2015), L’iphone e il paradiso di Allah (Castelvecchi 2016), Il sultano e lo zar (Salerno 2018); a parte alcune cose che in passato abbiamo addirittura scritto e firmato insieme, come il laterziano La paura e la menzogna, che fece un discreto rumore, e la monografia Il ritorno d’Astrea,dove la “catena causale interessi delle multinazionali-guerre di Bush-resistenza degli aggrediti-nascita dei gruppi terroristici” (p. 19) era esposta con discreta attenzione analitica, anche se mai ho scritto che questa sarebbe “l’unica responsabile del clima di astio scatenato contro gli immigrati” (pp. 20-21): perché farmi passare come un volgare e grossolano complottista al quale sfuggono del tutto le ragioni più profonde del disagio di tanti europei dinanzi al fenomeno migratorio? Le “affermazioni apodittiche” che Tarchi mi addebita sostenendo che le preferisco alle argomentazioni dipendono – quando non corrispondono a cose risapute e in genere accettate a livello di discussioni degli specialisti o diffuse a quello di un’opinione pubblica non sempre necessariamente ingannata o disinformata – da temi ai quali mi sono estesamente giudicato in tali sedi e altrove, a cominciare dalla rubrica Minima Cardiniana che settimanalmente pubblico sul mio sito www.francocardini.it, e che giusto oggi arriva al n. 250.

“L’Islam è una minaccia” ha il suo bravo apparato di note e di rinvii, ancorché sobri e contenuti come l’Editore ha stabilito nella collana “Idòla” nella quale è uscito: riconoscerlo come un lavoro di sintesi è giusto e corretto, lamentare l’eccessiva ristrettezza dello spazio nel quale è contenuto può essere ragionevole (ma non bisogna dimenticare i targets ai quali è diretto), trattarlo da pamphlet – aspetti puramente stilistici a parte – perdinci no. “Troppi aggettivi”, commenta il recensore a proposito della mia prosa. Disse lo stesso l’imperatore Giuseppe II a proposito del Ratto dal Serraglio di Mozart. Sono commenti che si fanno quando non si sa bene che cosa dire di altro.

Ma se esaminate la lunga recensione tarchiana, insulti e contumelie a parte, ci troverete accuse di frettolisità o di omissione, ma quasi nessuna allusione ai molti argomenti che dal canto mio affronto salve le genericissime accuse. Non lo interessano? Non si sente competente a discuterne? Padronissimo. Ma in questi casi onestà vuole che non si condanni in toto un libro giudicandolo “poco felice”, “discutibile”, “inopportuno”, ma che ci si limiti a dichiarare quel che in esso si vuol confutare avendo cura di estrapolarlo bene dal contesto e senza preoccuparsi di circostanziar con cura se, in che misura, in che modo e fino a che punto le parti discusse e/o condannate abbiano a che vedere, e con quanta e quale coerenza, rispetto al resto. Tarchi è un “recensore di lungo corso”, questi fondamenti dell’ars recensoria li conosce bene: perché costringermi all’umiliazione di doverglieli ricordare? Perché obbligarmi a chiedermi – scartate le ipotesi ch’egli sia un imbecille o un ignorante, che non vanno nemmeno prese nel suo caso in considerazione – se perfino lui non scivoli talvolta sulla buccia di banana della disonestà intellettuale?

Sì, perché egli sa benissimo che io potrei ritorcere contro di lui una per una e punto per punto, con metodo esattamente parallelo, frasi come quella a proposito del “concreto sfruttamento della marxiana armata di riserva del Capitale” (p. 19): ma a me certe cose “non passano nemmeno per la mente”, la mia visione “del modo in cui viene presentata oggi la questione islamica rasenta… la cecità o perlomeno lo strabismo” (p. 20). Accusarmi di non rendermi conto che anche da parte di quelli che egli chiama “gli avversari del fronte avverso” esistono menzogne ed esagerazioni non solo è del tutto gratuito, ma suona come un ingeneroso riconoscimento del lavoro che da anni vado conducendo: d’altronde, il fatto che in un certo libro si parli prevalentemente di certi argomenti non significa affatto che non si sia attenti anche a quelli che in quel momento vengono posti da canto. Se questo è mancanza di senso dell’equilibrio, mancanza di capacità o di voglia di soppesare i pro e i contro, come la mettiamo con chi – come appunto lui, a p. 20 – ci spiattella serenamente e impunemente davanti come se fossero oro colato e verità di Vangelo “le dichiarazioni di alti funzionari dell’ONU secondo i quali almeno cinquanta milioni di africani hanno già deciso di emigrare in Europa e attendono solo il momento adatto di poterlo fare”? Chi è giunto a calcolare tale cifra, e con quali sistemi statistici? Da quali aree proverrebbero i contingenti di questo esercito? Quali fonti hanno usato  e chi sono questi “alti funzionari”? Da dove e quando, e con quali mezzi, partirà quest’immenso nugolo di apocalittiche cavallette umane? Qui i casi sono due: o c’è del vero, e allora non abbiamo tempo da perdere ma ci dicano subito come e quando e in quali modi mobilitarci; o è una bufala enorme, e allora chi la riprende e la rilancia ha davvero un coraggio da leone quando accusa altri di mancanza di equilibrio e diciamo pure di senso critico. Così, quando si ricorda che dietro la costruzione di nuove moschee ci sono sovente personaggi e capitali sospetti e pericolosi, si dovrebbe pur aggiungere che si tratta degli stessi personaggi e degli stessi capitali (o di altri, ma provenienti dalle medesime fonti) che sono accolti a cuor leggero e a suon di fanfara quando vengono a comprarci aeroporti, imprese eccetera. E si sa bene a quali sette religiose fanno capo certi personaggi del mondo arabo “amici” dell’Occidente: ma tant’è, un arabo ricco è un ricco e un arabo povero è solo un arabo. Solo a proposito delle moschee si diventa sospettosi. Sarebbe interessante andar avanti su questo piano: ed esaminare partitamente quante chiese cattoliche sono state costruite con i fondi di Marcinkus e Co., o quante chiese protestanti o sinagoghe abbiano ricevuto aiuti sui quali sarebbe opportuno indagare.

La verità “vera” è che Tarchi ha perduto le staffe nel leggere che “la nostra sola e vera identità… ormai, come la globalizzazione con i suoi molti pregi e difetti ci ha obbligato a tener sempre presente, è… l’appartenenza al genere umano”. Egli non può fingere di stupirsi e magari di mostrarsi contrariato dinanzi a ciò in quanto sa che la chiave di quella frase sta tutta nei due aggettivi dell’identità, “sola e vera”: che  nel mio lessico e nel mio modo di pensare – che non è affatto lontano dal suo – significa soltanto la “sostanziale e definitiva”: il che non azzera per nulla le differenze sacrosante e le distinte tradizioni che si debbono mantenere, conservare e difendere. La presenza e la convivenza con portatori di tradizioni diverse non può che giovare a chi ha salda coscienza della propria e spronare a migliorarla chi ne ha una debole. Io sono un cattolico molto migliore e molto più cosciente della mia tradizione da quando frequento con assiduità i musulmani e mi confronto con loro; il corretto studio delle tradizioni diverse non può che corroborare la propria. Ciò non è “relativismo”, bensì doverosa consapevolezza della “relatività” di ciascuna tradizione e della reciproca complementarità fra tutte. Quanto all’altra mia osservazione, che il nucleo della tragedia della migrazione stia nell’insopportabile squilibrio socioeconomico del mondo, dell’insostenibile concentrazione della ricchezza in pochissime mani e nei troppi che mancano perfino dell’indispensabile (ma che, a causa dei media ormai diffusi in tutto il mondo, si fanno un’idea tragicamente errata delle nostre stesse condizioni di vita), anche ciò è obiettivamente inconfutabile. Lo voglia o no il cattolico Tarchi, papa Francesco ha ragione.

E’ comunque stato molto opportuno che il medesimo numero di “Diorama” pubblichi subito dopo la recensione tarchiana quella a Fuga in Europa di Stephen Smith (Einaudi), firmata da uno dei migliori collaboratori della rivista, Giuseppe Giaccio, il cui Homo migrans (Diana 2018) è uno dei libri che più ho apprezzato per informazione ed equilibrio a proposito dell’immigrazione: pur non potendo sottoscrivere del tutto alcune delle sue tesi e permettendo di suggerire al riguardo la lettura integrativa di 5 cose che tutti dovremmo sapere sull’immigrazione (e una da fare) (Laterza 2018). E’ evidente che non possiamo accogliere tutti e che, prima del “diritto alla migrazione”, tutti dovrebbero avere il diritto a restare a casa propria. Ma, anche rispetto a ciò, sappiamo ormai bene che gli altissimi profitti conseguiti dalle lobbies internazionali attraverso lo sfruttamento del continente più ricco della terra e nel quale sono ospitati i popoli più miserabili del mondo si sostiene fondamentalmente a causa della complicità tra esse e i governi africani dispotici, incapaci e disonesti sostenuti dai grandi paesi occidentali e soprattutto dalle ex massime potenze coloniali, Gran Britannia e Francia, che sulle rovine del colonialismo classico hanno costruito l’edificio abusivo di un neocolonialismo economico-finanziario; e che, allorché questi problemi si affacciano all’assemblea dell’ONU e si traducono magari in risoluzioni opportune, c’è sempre un “veto” di un membro permanente del consiglio di sicurezza a bloccarle.

Per contrastare questo stato di fatto, fino ad oggi poco o nulla si è fatto: i “patti bilaterali” tra paesi europei o paesi africani si sono rivelati efficaci come un pannicello caldo applicato a contrastare un’infezione virale. Sappiamo tutti che il male da cui derivano le migrazioni (per quanto sia vero che esse sono paradossalmente costituite da persone che non sono le più povere del continente) si combatte alla radice, nel continente dal quale hanno origine. Ma una volta che i profughi sono in mare, qualunque sia la ragione che là li ha portati, è un inderogabile imperativo morale l’accoglierli. In ciò Salvini facendo la “faccia feroce” illude e inganna i suoi sostenitori: in ciò si rivela impotente come uomo di governo e disonesto come leader che non potrà più a lungo – dopo la sua lusinghiera affermazione elettorale – continuar a provocare situazioni insostenibili lasciando che siano altri a risolverle e guadagnandosi consensi addossando ad altri colpe che in mancanza di soluzioni efficaci e umanamente praticabili, sono anche sue.

E allora, che cosa fare, e come, senza venir meno a un imperativo morale che gli uomini degni di questo nome non possono ignorare? Torniamo una buona volta in noi: certo che il momento è duro e difficile, ma esistono limiti invalicabili. Lasciar annegare qualcuno in mare, lasciar uomini e donne senza viveri e senza cure, condannare a morte una donna incinta e il bambino che si porta dentro, sono cose che non si possono fare: questo “sentimentalismo”, questo “miserabilismo cieco” sono la radice e il nucleo della nostra coscienza di noi stessi come esseri umani (altro che il “chi dice umanità cerca d’ingannarti” di Proudhon, che Tarchi ricorda – p. 1 – citando il mai troppo rimpianto Danilo Zolo): la Bibbia, l’Odissea e i tragici greci sono là a ricordarci che il venir meno a certi doveri ci farebbe precipitare a un livello ben inferiore a quello delle belve. E’ proprio la salvaguardia di questa “cultura del limite” che ci è stata ricordata come dovere inderogabile da Oliver Rey nel suo Dismisura (Controcorrente 2016): si tratta di una frontiera invalicabile, costi quel che costi. Se poi questo “equilibrio”, se questo “realismo”, ci vengono richiesti nel nome di un ordine internazionale che sperpera giornalmente incalcolabili tesori bruciandoli sull’ara dell’equilibrio nucleare e che sfrutta e affama i popoli nel nome delle “ferree leggi del mercato” allora poi no. Non sono io a incitare nessuno al volemose bbene, caro amico Marco: e tu lo sai perfettamente. Ma, per quanto è in me, esigo che non si spendano più né un soldo né un soldato fomentando le guerre tra i poveri. Cacciamoci bene in testa che tra chi spinge in mare i migranti e chi manovra le borse e le banche corre un filo lungo e ingarbugliato, difficilissimo a sdipanare: ma non interrotto.

E’ questo che non solo Salvini, ma anche i vari Smith, Collier e Carrère debbono dirci: è questo il nodo da sciogliere. Altrimenti, il “non si tratta di scegliere tra il Bene e il Male, ma di governare la polis nell’interesse dei cittadini”, come Giaccio riferisce citando Smith, è un gran bello slogan ma purtroppo non significa niente; e che “la soluzione è nelle mani degli stessi africani” (Giaccio su Smith, p.23) è una grossa bugia. Gli africani non sono i padroni dell’Africa.

Franco Cardini