Minima Cardiniana 253/2

Domenica 20 giugno 2019. XIII Domenica del Tempo Ordinario. Santi Protomartiri

EFFEMERIDI DEL CAOS

DUE O TRE FATTI SUI QUALI MEDITARE…

Ne succedono davvero troppe, di cose: bisognerebbe avere una memoria da elefante e una ben collaudata  capacità di gerarchizzare le notizie distinguendo le davvero importanti (che i media tendono a celare o a dissimulare o a falsare) da quelle di scarso o nessun valore (dalle quali invece siamo di continuo bombardati in modo da farci perder di vista quel che davvero andrebbe invece seguito con attenzione). Combattere artigianalmente la disinformazione sistematica e ben sostenuta da un forte sistema di potere è arduo. Proviamoci, tuttavia. Il 27 scorso, a Brest, un attentato ha grevamente ferito l’imam Rachid El Jay, da tre anni colpito da una fatwa di quell’ISIS che, sconfitta nel suo tentativo di radicamento territoriale tra Siria e Iraq, sta incrementando la sua attività terroristica diffusa  allo scopo di rendere inevitabile quel nuovo scontro fra “Islam radicale” e Occidente che – come ormai Trump, l’Arabia Saudita e Netanyahu sono riusciti a far creder a molti di noi – sarebbe in atto a causa e per colpa dell’Iran sciita. Peccato solo che, col terrorismo internazionale di matrice salafita-wahhabita, l’Iran non abbia niente a che fare e che, anzi, ne sia il primo nemico. Peccato che l’estremismo sunnita tenda a coinvolgersi nella sua fitna antisciita.

El Jay rappresenta uno dei casi più limpidi di negazione del dogma, da noi molto diffuso, secondo il quale l’Islam sarebbe incapace di rinnovarsi e refrattario a convivere con la nostra società. Originariamente vicino al radicalismo salafita, dal 2016 egli è passato esplicitamente a sostenere la necessità di un franco e leale confronto tra le religioni nel contesto della vita sociale e culturale francese e a divenire uno dei personaggi più interessanti di quell’“Islam europeo” avversario dell’omogeneizzazione e dell’appiattimento che rischia di cancellare le diverse identità ma fautore di un loro franco, leale e pacifico confronto. E’ questa la linea da seguire: peccato che quella opposta venga sostenuta proprio da quelle forze politiche musulmane che, sul piano politico e militare, figurano fra i più decisi sostenitori dell’alleanza statunitense-atlantica. Contraddizione?

Dieci giorni prima dell’attentato contro El Jay era invece scomparso dalla scena politica egiziana e internazionale un testimone forse eccellente, comunque scomodo. In un’aula di massima sicurezza allestita all’interno di un carcere cairota era morto il 17 giugno a 67 anni l’ex presidente della repubblica egiziana, Muhammad  el-Morsi, il leader dei Fratelli Musulmani che durante il suo mandato aveva cercato nel 2013 di avviare una riforma a carattere autoritario della costituzione del suo paese. Colpito nel 2015 da due condanne pesantissime dai tribunali del rais el-Sisi, nel ’16 aveva dovuto affrontare una nova accusa, quella di spionaggio a favore di Hamas e di Hezbollah.

Per quanto i Fratelli Musulmani abbiano subito parlato di “omicidio”, le cause della scomparsa dell’uomo politico sembrano collegate piuttosto alle sue cattive condizioni di salute, di recente aggravate (che ciò sia avvenuto o no in conseguenza della detenzione, non è dato sapere). Certo, l’attuale presidente non deve aver versato troppe lacrime su quel decesso: Morsi, che di cose ne sapeva tante, era un imputato-testimone scomodo; e l’avvicinamento della politica di al-Sisi a sauditi e a israeliani, con il comune impegno contro gli sciiti nello Yemen, deve aver reso il chiudersi del “capitolo Morsi” ancora meno doloroso per quanto, forse, più imbarazzante. Erano scontati i commenti iraniani; ma anche il turco Erdoğan, nonostante la sua poco chiara posizione nella politica vicino-orientale, ha parlato del defunto (ci sono ragioni interne all’equilibrio politico-religioso turco per un linguaggio del genere?) come di un “martire”. Un po’ meno limpida la posizione della vecchia protettrice dei Fratelli Musulmani e nemica dell’Egitto, l’Arabia.

E ce ne sarebbero, di cose da commentare: l’inatteso ed enigmatico ritorno alla politica di Ehud Barak in Israele, le paradossali e ciniche manovre di Trump per favorire il ritorno nel governo iraniano dei fondamentalisti, che gli darebbero un motivo di più per spinger l’acceleratore della sua politica magari fino all’attacco militare vero e proprio. E così ci ritroveremmo di nuovo a qualcosa di analogo a quel che accadde sedici anni fa, nel 2003, con l’aggressione all’Iraq. Allora gli USA ce la fecero, sia pure a fatica (e con il risultato di portare al governo di Baghdad gli sciiti, correligionari del loro nemico di Teheran…). Ma l’Iran di oggi è un osso ben più duro da rodere dell’Iraq di Saddam Hussein di sedici anni fa.

Di tutto ciò, a Dio piacendo, parleremo magari la volta prossima.

FC