Domenica 30 giugno 2019. XIII domenica del Tempo Ordinario. Santi Protomartiri
Dal Vangelo di oggi: «Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’Uomo non ha dove posare il capo» (Lc 9,58).
Dedicato a chi ha una casa e qualcosa; e, magari agitando la corona del rosario, vorrebbe negare un approdo e un aiuto a chi ha passato il mare e non ha nulla.
I NUOVI PIRATI DEL MEDITERRANEO E GLI EROICI DIFENSORI DEI PATRII CONFINI
IL DUCISMO, MALATTIA CRONICA DEGLI ITALIANI
Cerchiamo di tenere naso e bocca un millimetro almeno sul pelo dell’acqua. L’affaire della “Sea Watch” è serio e non va trattato con superficialità. E’ evidente che, se non altro per un minimo senso del ridicolo, si dovrebbero evitare i toni da Hannibal ad portas. Una leader del centrodestra, che di solito si distingue per buon senso e moderazione, ha parlato di “affondare la Sea Watch” (una volta svuotata da equipaggio e passeggeri, beninteso). E’ già un passo avanti rispetto a Umberto Bossi – lo ricordate: il padre del Trota…–, il quale, anni fa, senza complimenti, auspicava di colare a picco i vascelli dei clandestini. Ma siamo ancora un po’ troppo sopra le righe: sere fa, in TV, un giovin donzello neoparlamentare gridava allarmato all’invasione (torna il mito dei cinquanta milioni di africani pronti a sbarcare sulle nostre amate sponde: d’altronde, se a ciò presta fede anche uno studioso della finezza e dell’autorevolezza dell’amico Marco Tarchi…) e dannunzianamente-mussolinianamente concionava sui sacri confini da difendere, quei confini che – come ben sappiamo – “non si discutono: si difendono”. E rieccoci immersi di nuovo, con emozione e commozione, tra Caporetto e Fiume d’Italia. A quando la riproposta del Mito della Vittoria Mutilata? A quando i cori “Va’ fuori d’Italia – va’ fuori ch’è l’ora – va’ fuori d’Italia – va’ fuori stranier!” davanti alle baracche dei rifugiati? E quando tanti eroici patrioti si accorgeranno una buona volta che, quei cori, ben più appropriato – e ben più decoroso per il loro intemerato patriottismo – sarebbe da andarli a cantare dinanzi ai ben custoditi ingressi delle basi extraterritoriali NATO come Camp Darby o Ghedi o Aviano o Dal Molin?
Capitan Salvini, comunque, è un’altra faccenda. Perché lo chiamino come Giulietti o come Codreanu (o come Capitan Fracassa) mi sfugge, ma ci sarà ben una ragione. Capitan Salvini è un politico dotato di buone risorse demagogiche: in questo momento sta passando il suo quarto d’ora di successo e di gloria, come alcuni mesi fa lo passò quel suo omonimo di cognome Renzi che sotto qualche verso – piaccia o no a entrambi – gli somiglia. Si è costruito il suo personaggio, prima in sommarie “uniformi” paramilitari e adesso, aestate adiuvante, scravattato, scamiciato e bluejeansato a sottolineare alla gente che lui è uno di loro. E che si comporta come loro, a colpi di “è finita la pacchia”, di “che vadano da un’altra parte”, di “indietro non si torna” e di altre piacevolezze idiomatiche da bar dello sport e da autoparcheggio. Un comportamento che conosciamo e che, per breve tempo e a piccole dosi, può pagare. Un comportamento che, “spontaneo” o meno, è certo più studiato, calibrato (e “consigliato”) di quanto possa non sembrare. Fermo restando il fatto che, prima o poi, dovrà ben convincersi che non si può agire come se si fosse perpetuamente in campagna elettorale alla ricerca di consensi: la politica, come dopo averne fatta molta comincerà forse a sospettare anche lui, è fatta di molte altre cose. Limitandosi a come l’ha fatta finora, ci sono stati senza dubbio aspetti forse di scarso buon gusto ma pittoreschi. Per esempio, non può permettersi di brandire la spada dell’Islam, cosa che comunque non farebbe mai in quanto antimusulmano: ma l’ha sostituita con il rosario, ben conscio che il potere carismatico è più efficace se sostenuto da un qualche senso del Sacro. E’ anche più pertinente e gli offre una pàtina più anticonformista.
Amo il rosario e da sessant’anni tengo in tasca la coroncina che mi dette mia nonna. Per il resto, però, non approvo quasi nulla di quanto Salvini fa e dice e mi disturba la sua cinica strumentalizzazione di un oggetto sacro: per quanto possa non aver alcuna remora nel confessare che tutto sommato mi sta simpatico. Del resto, temo che in Italia ci siano molti personaggi peggiori e più pericolosi di lui. Il fatto è che, se dura, prima o poi dovrà rendersi conto – e ho l’impressione che già comincia a farlo – di non poter vivere ancora a lungo di rendita sulle sbruffonate lombardo-populiste. Per il resto, è ad esempio ovvio ch’egli abbia giuridicamente e politicamente parlando molte ragioni sia di fronte al mondo dei migranti – per non parlare dei “carrettieri del mare” che li sfruttano –, sia di fronte al diritto internazionale: e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo gli ha dato ragione, riconoscendo che l’Italia ha sì il dovere di prestare assistenza ai migranti, ma non è affatto tenuta ad accogliere indiscriminatamente né loro né i natanti che li veicolano. Il problema è, politicamente non meno che umanitariamente parlando – e nessun Machiavelli da strapazzo potrà mai convincerci che quella dimensione annulli e soverchi legittimamente questa –, che sia il disagio dell’Africa sia i ricatti e le provocazioni sistematicamente programmate che da essi dipendono non possono non essere risolti insieme, comunitariamente e concordemente, da tutta Europa.
Ma questo è appunto il nòcciolo, ancora una volta, del problema: l’Europa non è una compagine politicamente e istituzionalmente unitaria e sono in molti a lavorare purtroppo affinché non lo divenga mai. E Salvini – a parte le responsabilità sue e del suo nell’infausto accordo di Dublino: ma non entrerò su quest’argomento in quanto ne parla in modo eccellente, qui sotto, Marina Montesano – dovrebbe una buona volta lasciar perdere i panni del capopopolo leghista e comportarsi da quello che è, un’autorità dello stato con tutti i doveri, le prerogative e la responsabilità che ciò comporta. Il suo ufficio è al Viminale, non in una sede di partito a Pontida. Che la forzatura del blocco a Lampedusa sia uno scippo di sovranità, siamo d’accordo: ma, di grazia, che cos’è andato a fare giorni fa il Capitano a parlare a Washington per interposto Pompeo a Trump, se non per ribadirgli la sua ben consapevole volontà di agire da rappresentante di un paese “a sovranità molto limitata” proprio e soprattutto in politica estera, della quale siamo del tutto privi specie e soprattutto in quanto gregari di quel grande meccanismo d’occupazione politico-militar-finanziario del nostro paese ch’è la NATO?
D’altronde, se il Capitano va nella capitale statunitense a far la figura del Caporale (nel senso del decurtisiano Siamo uomini o caporali?) e nonostante ciò conserva intatta almeno per molti l’immagine dell’Uomo forte, quello che grida a pieni polmoni e batte i pugni sul tavolo, ciò dipende forse da un vecchio vizio e da un vecchio difetto – se non vogliamo definirla una vecchia malattia ormai cronicizzata – degli italiani: il ducismo. Che, badate, non è tanto e soltanto una malattia politica e che ha sì qualcosa a che fare con il fascismo, ma è ben diverso e più ampio e ambiguo di esso.
Ha ragione Emilio Gentile: già il mussolinismo era durante il regime fascista, ed è ancora, qualcosa di diverso dal fascismo per quanto non lo si potesse definire da esso estraneo. Lo illustra bene una barzelletta che andava molto negli Anni Trenta. Un tizio si siede al tavolo di un ristorante, chiede il menu, gli dà una sbirciata e ordina convinto: “Ah, bene, portatemi un bel Piatto Mussolini”; “Ottima scelta, signore – commenta il cameriere –; e come contorno che ci mettiamo accanto?”; “Ah, no, per carità! – ribatte il cliente – Niente contorno!”. Era una battuta diretta soprattutto contro ministri e gerarchi fascisti, ma ricalcava l’antichissimo topos del re buono eppure malconsigliato che, anche se e quando sbaglia, lo fa per colpa d’inadeguati o disonesti collaboratori. Certi giudizi, e non solo tra i più anziani, si sentono ancora girare in Italia. Il paese reale, questo lo sanno tutti a partire da chi lo nega, è molto meno antifascista di quello legale: ma il mussolinismo resta diffuso anche tra i non filofascisti, tra gli antifascisti, perfino tra certi antifascisti. Indro Montanelli lo descrisse bene per averlo visto a Piazzale Loreto quel fine aprile del ’45: attorno al celebre chiosco di benzina, al di là dei poveri cadaveri ammucchiati per terra e poi issati per i piedi, dietro il sottile cordone di armati e la forsennata ma in fondo piccola folla che inveiva, urlava e faceva cose ancor più oscene, c’era una mare di gente immobile, un muro di facce terree e silenziose. Non erano venute a insultare quei morti. Molti di loro erano solo curiosi. E molti altri erano lì per vederlo un’ultima volta…
Il ducismo, però, è un’altra cosa ancora. E’ più antico, e se non vogliamo dirlo atavico risale almeno all’era bonapartistico-giacobina, forse con qualche precedente antico e medievale. Senza risalire a Pericle, o ai Gracchi, o a Cola di Rienzo, o a Masaniello. Forse comincia con Napoleone e magari anche con qualche personaggio delle insorgenze; ed ha molti aspetti paralleli al cromwellismo puritano, al caudillismo iberico e latino-americano come al boulangisme e poi al marechallisme francese, che non era per nulla puro e semplice collaborazionismo.
La parola dux era in certo senso già fatidica, come si vede nei pascua, rura, duces dell’epitaffio virgiliano. C’era molto di neoclassicamente retorico in essa: ma fu con Giuseppe Garibaldi – il Duce per definizione e per eccellenza secondo numerose generazioni – che la parola acquisì il senso pieno della guida illuminata e generosa, onesta e infallibile, astralmente superiore a chiunque altro e nello stesso tempo fratello e compagno di tutti, pronto al sacrificio per il suo ideale e il suo popolo e degno che tutto il popolo si sacrificasse per lui. Davide Lazzaretti, il Profeta dell’Amiata, attendeva con ansia e con fede il tempo dell’avvento del Cristo, significativamente non già re – una parola compromessa con il vecchio ordine autoritario – bensì Duce e Giudice. Condividendo molte caratteristiche con quelli che sono semplicemente dei grandi capi politici o degli illustri capi militari, il Duce deve avere, per esser tale, anche un’intensa carica di tipo carismatico.
Dopo Garibaldi, l’epiteto di Duce supremo passò nella storia dell’Italia unita al Vittorio Emanuele III del Bollettino della Vittoria del maresciallo Diaz, nel 1918; e quindi al Gabriele D’Annunzio di Fiume prima di arrivare al fascismo che ne impose un uso ufficiale e istituzionale.
Legato come ormai è indissolubilmente al fascismo e a Benito Mussolini, il termine “Duce” è irriciclabile se non in accezioni come la polemica o l’irrisoria (magari col vezzeggiativo di “Ducetto”). Ma la figura retorico-ideale del Capitano Senza Macchia e Senza Paura, del Capo Infallibile e Incorruttibile, del Giusto che toglie ai ricchi e dà ai poveri (un modello che dal Magnificat dell’evangelista Luca attraverso Robin Hood e il “banditismo sociale” arriva fino a Salvatore Giuliano; o, se si preferisce, al “Che” Guevara) è restata intatta in un inconscio collettivo che, qua e là, riaffiora.
Ma tutto ciò è in fondo un dettaglio, una curiosità. Paulo maiora canamus. Sentite come la faccenda della Sea Watch è ricostruita da Marina Montesano. Sono passate poche ore da quando la nave è attraccata a Lampedusa, e qualcos’altro è successo. Tuttavia, mi pare che l’analisi mantenga la sua incisiva freschezza.
NON SI TRATTA DI DECIDERE CHI HA VINTO…
Mentre scrivo, la Sea Watch ha appena attraccato nel porto di Lampedusa, forzando il blocco imposto dalle autorità italiane, mantenuto anche dopo l’accordo con 5 Paesi europei per la redistribuzione dei 40 migranti. Un attracco che ha portato all’arresto della comandante della nave gestita dalla ONG tedesca, Carola Rackete. Gli antefatti dovremmo saperli già, dunque li ricorderò molto brevemente. Sea Watch 3 è una nave battente bandiera olandese, gestita dall’organizzazione non governativa Sea Watch con sede a Berlino. Il 12 giugno 2019 la Sea Watch 3 ha recuperato 53 persone dalla Libia, di cui 11 sono state portate subito a terra per motivi medici, mentre le restanti 42 sono rimaste a bordo. La nave è rimasta in una posizione di attesa al largo di Lampedusa senza permesso di entrare. Il 21 giugno il capitano Rackete ha chiesto alla Corte europea dei diritti dell’uomo un’ingiunzione provvisoria per costringere l’Italia a far entrare la nave, ma il tribunale ha respinto la richiesta urgente. In ogni caso, dopo due settimane di navigazione, adducendo come causa le condizioni di estrema difficoltà dei migranti, il 26 giugno 2019 la nave è entrata senza permesso nelle acque territoriali italiane. La conclusione l’abbiamo appena vista, e nei prossimi giorni sapremo cosa ne sarà sia della nave, sia del suo capitano.
La contesa fra la Sea Watch 3 e l’Italia ha dei precedenti recenti che è opportuno ricordare. Nel gennaio 2019 il governo italiano aveva già rifiutato alla Sea Watch 3, che trasportava allora 47 migranti, l’ingresso in uno dei suoi porti, poiché vi era un porto sicuro e più vicino in Tunisia. Tuttavia la Corte europea dei diritti dell’uomo, interpellata dalla ONG, aveva ordinato all’Italia l’accoglimento, con assistenza medica e alimentare a bordo e, per i minori, il patrocinio legale gratuito. La Guardia Costiera italiana aveva poi effettuato il fermo amministrativo della nave, che era tuttavia ripartita con il placetdelle autorità italiane.
A metà maggio 2019, un nuovo episodio: 65 persone recuperate a 60 chilometri al largo della costa libica, con il divieto del ministro dell’interno Matteo Salvini di farle entrare in acque territoriali italiane. A bordo vi erano 18 individui in condizioni di salute difficili, soccorse ancora in acque internazionali dalla guardia costiera italiana. Successivamente, la nave entrò comunque nelle acque italiane, sbarcando anche il resto dei migranti a Lampedusa, poiché (a loro dire) alcuni avevano manifestato intenzioni suicide. Anche in quell’occasione, la nave fu sottoposta a sequestro cautelare e il ministro Salvini ne chiese lo smantellamento e l’affondamento, accusando il procuratore che aveva autorizzato lo sbarco. Tuttavia, la nave è stata nuovamente dissequestrata dalla magistratura e ha evidentemente continuato la sua opera di salvataggio per alcuni, di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina secondo altri, a partire da Salvini.
Come spesso accade, l’attenzione mediatica si sofferma su quelli che in apparenza paiono i protagonisti. Salvini da una parte, che a quanto pare per molti italiani rappresenta l’unica difesa contro ‘l’invasione’ dei clandestini, dall’altra la ‘capitana’ Carola Rackete: entrambi coperti di insulti a seconda di quale parte si sostenga. La Sea Watch 3 diviene il simbolo delle diverse posizioni sul tema dei migranti, ma non sempre i simboli sono ricchi di significato: a volte, purtroppo – ed è questo il caso –, sono stupidi e scelti male. Alcuni dati possono chiarire ciò che intendo.
Nel 2015 si è registrato un picco nella crisi dei migranti: sulle cause e le reazioni tornerò a breve. Rispetto a quel momento, però, non si è registrata la tanto temuta ‘invasione’. L’idea propagandata da molti (su questa pagina rinvio al dibattito tra Marco Tarchi, sostenitore della tesi dell’invasione, e Franco Cardini) è semplicemente, stando ai dati attuali, falsa. Nei successivi tre anni, infatti, i numeri sono scesi sensibilmente. Nella prima metà del 2018, sulla rotta del Mediterraneo centrale, ossia quella che riguarda le coste italiane, oltre alle maltesi, sono stati registrati 22.000 migranti irregolari (contro i 153.000 del 2015): siamo davvero ben lontani dalle centinaia di migliaia delle quali si sente parlare a fini elettorali e/o per terrorizzare l’opinione pubblica. La rotta del Mediterraneo occidentale, cioè quella che vede l’approdo in Spagna, ne ha registrati più del doppio. Più caldo il fronte del quale quasi nessuno parla: quello balcanico, che in Italia significa soprattutto Trieste ma che coinvolge di più altri paesi a ridosso, come l’Austria, l’Ungheria, la Germania. Però qui non ci sono barchette in mezzo al mare sulle quali dibattere, e dunque il ministro degli interni sembra non averne cognizione. Anche su quel confine, va detto, le cifre sono calate molto: erano oltre un milione e mezzo nel 2015, sono stati meno di 60.000 nel 2018.
A ridurre o a smuovere i flussi sono stati gli eventi internazionali: nel 2015, il conflitto in Siria ha prodotto il numero più alto di sfollati e rifugiati; forse smettere di finanziare i cosiddetti ribelli “democratici”, cosa che i paesi occidentali hanno invece fatto ampiamente, avrebbe evitato una crisi umanitaria così ampia che, peraltro, solo in minima parte riguarda l’Europa. Tutti infatti sembriamo dimenticare che la maggior parte dei rifugiati non viene accolta ‘da noi’: sono i paesi ‘in via di sviluppo’ a farne le spese per primi, ospitando l’85% dei rifugiati nel mondo. La Turchia è il principale paese ospitante, con un totale di 3,5 milioni di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Pakistan e Uganda hanno preso ciascuno 1,4 milioni di persone. Tuttavia, la Germania contro la quale si scagliano populisti e sovranisti vari è al sesto posto con 930.400.
Invece, noi siamo ridotti a commentare con sdegno i 1200 richiedenti asilo che la Germania stessa ci ha rinviato pochi giorni fa su un aereo. Per di più sedati!, hanno commentato con scandalo i giornali italici, nonché il popolo di facebook e dintorni, dimenticando che noi paghiamo i libici perché si tengano un po’ di africani nonostante le condizioni in cui versano, fra torture, stupri e involontario coinvolgimento nelle guerre civili locali, cosa che, invece, non sembra turbarci più di tanto.
E anche a proposito della vicenda dei 1200 bisogna dire qualcosa. Se la Germania ha potuto rinviarli è per via del trattato di Dublino, ossia del regolamento dell’Unione Europea che stabilisce criteri e meccanismi per l’esame, e l’eventuale approvazione, di una domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un Paese terzo. In vigore nel 1997, esso è stato sostituito nel 2003 dal regolamento Dublino II che l’ha portato nell’ambito delle competenze dell’UE. Una terza revisione – Dublino III – è stata varata nel giugno 2013. Nell’articolo 13, quello che qui ci interessa, si legge: «Quando è accertato (…) che il richiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un Paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale».
È il caso di ricordare che tanto nel 1997 quanto nel 2003 la Lega era al governo con Berlusconi, in modo minoritario nel primo caso, più forte nel secondo. La ratifica del giugno 2013, sotto il governo Letta, avvenne essendo ministro Angelino Alfano. I 1200 che ci sono stati rimandati indietro, quindi, sono rientrati perché transitati dall’Italia senza essere identificati e presi in conto secondo quanto stabilisce il trattato che abbiamo sottoscritto. Ma c’è di più. Nel 2015, l’anno della crisi, molti paesi hanno dichiarato che il trattato va rivisto. Unilateralmente, la Germania ha deciso di sospendere il regolamento di Dublino per quanto riguarda i profughi siriani e di elaborare direttamente le loro domande d’asilo, senza richiedere che venissero bloccati altrove. Altri stati membri, come la Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Slovacchia e la Polonia, hanno di recente negato la propria disponibilità a rivedere il contenuto degli accordi di Dublino e, nello specifico, ad introdurre quote permanenti e obbligatorie per tutti gli stati membri: ora, poiché questi paesi hanno governi sovranisti, seguono quello che ritengono essere il proprio interesse e rifiutano una politica di quote. Nonostante questo, il ministro Salvini, ai primi di maggio, nell’incontro con l’ungherese Orban, faceva grandi proclami d’amicizia, dichiarando un blocco comune nei Balcani contro gli immigrati, salvo vedersi ridicolizzare meno di un mese più tardi quando, post elezioni europee, Orban si è rifiutato di sedere nello stesso gruppo della Lega: evidentemente, almeno lui riconosce scopi politici divergenti al di là dei proclami.
Allora il problema di fondo mi pare quello del pressapochismo di una politica italiana che non sa neppure fare i propri interessi, limitandosi a polemizzare per una barchetta con 50 disperati o contro la donna che la comanda, additata agli attacchi (sovente a sfondo sessuale, quasi sempre disgustosi) dei suoi seguaci: il vertice rispecchia la base, ed entrambi forniscono uno spettacolo desolante dell’Italia nel 2019.
Marina Montesano