Domenica 21 luglio 2019. Santa Prassede – Il sole entra nel “mio” glorioso leone
QUANDO UN AMICO CI LASCIA PARLANDO DI ETERNITA’
OMAGGIO A TIRESIA
Ogni tanto capita di dover fare un triste Amarcord. E’ uno dei prezzi da pagare all’esistenza. La cosa più triste dell’invecchiare è la scomparsa dei vecchi amici. Se ne vanno uno per uno, qualcuno uscendo gloriosamente o drammaticamente di scena, qualcun altro in punta di piedi, con discrezione. E’ una “fortuna”, sopravvivere ad amici che magari talvolta sono più giovani di noi? Non saprei. Non oso affermare né ciò né il contrario. Per tre volte almeno ho provato il cocente dolore misto a un senso di ribellione contro una “ingiustizia” che si avverte quando viene a mancarci qualcuno che, “nell’ordine naturale delle cose”, avrebbe dovuto esse lui ad accompagnarci nell’estremo viaggio. Quando anni fa venne a mancare in un incidente d’auto mio nipote Enrico, figlio dei miei cognati (e amici carissimi da una vita) Anna e Guglielmo François. Un dolore molto simile ho provato quando se ne sono andati tre amici fraterni, Marco Tangheroni, Riccardo Francovich e Michele Piccirillo, quasi coetanei ma più giovani di me di qualche anno: abbastanza da avermi fatto sperare che sarebbero stati loro ad accompagnarmi nella mia ultima passeggiata e a ricordarmi agli altri per l’occasione convenuti, non viceversa. Un po’ più vecchi di me erano, invece, mio cugino Romano e due amici e colleghi, Sergio Bertelli e Umberto Eco, scomparsi non giovanissimi ma con i quali mi sarei aspettato di poter condividere ancora un po’ di anni.
Poi ci sono stati i compagni “di sempre”, quelli che senti amici anche se tu non sei stato tale per loro ma essi lo sono stati per te: alla scomparsa di Totò, di Vittorio Gassman, di Fabrizio de André, di Ugo Tognazzi, di Alberto Sordi non mi sono ancora abituato, anche perché con personaggi come il principe De Curtis, Brancaleone da Norcia, il conte Mascetti e il Marchese del Grillo ho davvero condiviso l’esistenza. Ogni volta che se ne andava uno di loro, un pezzo di me lo seguiva. Potrei dire lo stesso di certe attrici: senza la luce degli occhi di Grace Kelly o di Mariangela Melato il mondo è un po’ più buio.
Il caso ha voluto che qualche giorno fa fossi a Santa Chiara di Napoli, proprio là, nel “Munister’e Santa Chiara”, per un convegno: mentre con i colleghi attendevo al comune lavoro nella sala delle conferenze presso il grande, indescrivibile chiostro, proprio accanto, in basilica, si celebravano i funerali di Luciano De Crescenzo: proprio lui, il signor “Così parlò Bellavista”, del quale ero divenuto buon amico un quarto di secolo fa, da quando per un paio di anni fui nella RAI. Mi è dispiaciuto che la concomitanza dei due eventi e la ristrettezza del tempo a disposizione mi abbiano impedito di far un salto nella chiesa di re Roberto d’Angiò per fargli un ultimo saluto.
Ancora prima, mi ero dovuto accontentare di accomiatarmi da Andrea Camilleri, conosciuto grazie a donna Elvira Sellerio e sinceramente ammirato, solo assistendo in TV alla sua incredibile performance su Tiresia: un caso nel quale davvero “persona” e “personaggio” s’incontravano e si univano incredibilmente. Mi hanno profondamente toccato, in quel monologo di un novantaduenne che non condivideva la mia fede religiosa e che nonostante ciò mi stava impartendo una severa, serena lezione di tanto coraggiosa quanto desiderosa attesa dell’eternità – un’eternità antica, “greca”, lontana da quella che io cattolico posso percepire e magari sperare, ma non remota da quella che, euromediterraneo figlio di Ulisse, posso giunger a immaginare –, le sue riflessioni sui sogni vivamente colorati di un vecchio cieco e la sua divertente eppur profondissima meditazione sul tantrismo autoerotico del Tiresia, che secondo il mythos era divenuto ermafrodito, sì, ma che secondo il kerygma, che al mito è sotteso, aveva raggiunto la condizione primordiale dell’androgino. In Camilleri vibrava una sicilianitas arcaica ed eterna, come solo i siciliani di gran razza sanno esprimere: talora Pirandello, spesso Leonardo Sciascia, a volte Ignazio Buttitta, che aveva saputo trasmetterla al figlio Nino, una volta sola – ma indimenticabile – Tomasi di Lampedusa –, e non nel Gattopardo, ma in quel capolavoro ch’è il racconto Lighea –; e qua è là riesce a sfiorarla l’ellenismo saraceno di Pietrangelo Buttafuoco.
Era un uomo schietto e coraggioso, Andrea. E anche nella “diceria” di Tiresia aveva ripetuto una volta di più il suo ammirato, accorato omaggio al “suo” Ezra Pound, ricordando i Pisan Cantos, frutto doloroso dell’abiezione, esito di un tempo passato chiuso in una gabbia come una bestia feroce e trattato come un pazzo da chi era stato troppo infame per inchinarsi dinanzi al suo genio e lasciarlo libero nonostante le sue colpe presunte (oh, il vecchio reato d’opinione aggravato dalla calunnia del “tradimento”: quello stesso tradimento che, quando è perpetrato da chi passa al vincitore, viene trattato da eroismo!), e troppo vigliacco per andar fino in fondo al sentiero della sua prepotente abiezione infliggendogli la morte (non si giustiziano forse i traditori?) e così addossandosi la responsabilità dell’assassinio di un poeta anziché aggiungere all’onta della condanna l’alibi calunnioso della “pazzia” come autoassolutorio escamotage di una scelta assurda.
Sapeva bene quel che faceva, Andrea. Mi dicono, infatti – io non ho letto né le une, né gli altri –, delle frecciate di qualche padrone dei media e delle solite miserabili contumelie dei social a proposito di quell’omaggio. Non era la prima volta che accadeva: e lui, che non doveva dimostrare a nessuno quanto forti e profonde fossero le sue convinzioni di sinistra, lui che anche di recente aveva difeso a viso aperto il bisogno che una società civile ha di conoscere la storia, mi aveva raccontato qualche anno fa di come una giornalista lo avesse rimproverato per aver osato definire Pound “il più grande genio poetico del Novecento”: “Ma – gli aveva obiettato l’interlocutrice – come fa a dire questo? Era un fascista!”; “E che ci posso fare? – aveva risposto lui –; quello era un problema suo, io non c’entro. Io mi limito a dire che era un genio”. E un genio può ben parlare di Ben e di Claretta, uniti nello strazio dei loro cadaveri come Paolo e Francesca nel vento infernale che li tormenta e che, pure, li fa sembrar librarsi leggeri nell’aria. FC