Minima Cardiniana 261/4

Domenica 22 dicembre 2019, IV Domenica di Avvento
Santi Demetrio e Flaviano
161° anniversario della nascita del grande Giacomo Puccini

GUERRA E PACE

Ed ecco, a guastare la festa (ma anche a corroborare quanto or ora detto), il solito comunista Manlio Dinucci che, con la scusa delle spese americane per organizzare la pace in Afghanistan, denunzia pretestuosamente alcuni bombardamenti e cerca il pelo nell’uovo scandalizzandosi per 3000 miliarducci ben spesi…

MANLIO DINUCCI
L’ARTE DELLA GUERRA. 3000 MILIARDI DI DOLLARI NEL POZZO AFGHANO SENZA FONDO
Nella Dichiarazione di Londra (3 dicembre) i 29 paesi della NATO hanno riaffermato “l’impegno per la sicurezza e stabilità a lungo termine dell’Afghanistan”. Una settimana dopo, in base alla “Legge sulla libertà di informazione” (usata per svuotare dopo anni alcuni armadi dagli scheletri a seconda della convenienza politica), il Washington Post ha desecretato 2.000 pagine di documenti i quali “rivelano che funzionari hanno ingannato il pubblico sulla guerra in Afghanistan”. In sostanza hanno nascosto i disastrosi effetti, anche economici, di una guerra in corso da 18 anni. I dati più interessanti che emergono sono quelli dei costi economici. Per le operazioni belliche sono stati spesi 1.500 miliardi di dollari, cifra che “rimane opaca”, in altre parole sottostimata: nessuno sa quanto abbiano speso nella guerra i servizi segreti o quanto costino in realtà i contractors, i mercenari reclutati per la guerra (attualmente circa 6 mila). Poiché “la guerra è stata finanziata con denaro preso a prestito”, sono maturati interessi per 500 miliardi che portano la spesa a 2.000 miliardi di dollari. Si aggiungono ad essa altre voci: 87 miliardi per addestrare le forze afghane, 54 miliardi per la “ricostruzione”, gran parte dei quali sono andati “perduti per corruzione e progetti falliti”. Per lo meno altri 10 miliardi sono stati spesi per la “lotta al narcotraffico”, col bel risultato che la produzione di oppio è fortemente aumentata: oggi l’Afghanistan fornisce l’80% dell’eroina al narcotraffico mondiale. Con gli interessi che continuano ad accumularsi (nel 2023 saliranno a 600 miliardi) e il costo delle operazioni in corso, la spesa supera ampiamente i 2.000 miliardi. Vi è inoltre da considerare il costo dell’assistenza medica ai veterani usciti dalla guerra con gravi ferite o invalidità. Finora, per quelli che hanno combattuto in Afghanistan e Iraq, sono stati spesi 350 miliardi, che nei prossimi 40 anni saliranno a 1.400 miliardi di dollari. Poiché oltre la metà viene spesa per i veterani dell’Afghanistan, il costo della guerra sale per gli Usa a circa 3.000 miliardi di dollari. Dopo 18 anni di guerra e un numero inquantificabile di vittime tra i civili, il risultato sul piano militare è che “i taleban controllano gran parte del paese e l’Afghanistan rimane una delle maggiori aree di provenienza di rifugiati e migranti”. Il Washington Post conclude quindi che dai documenti desecretati emerge “la cruda realtà di passi falsi e fallimenti nello sforzo americano di pacificare e ricostruire l’Afghanistan”. In tal modo il prestigioso giornale, che dimostra come funzionari Usa abbiano “ingannato il pubblico”, inganna a sua volta il pubblico presentando la guerra quale “sforzo americano di pacificare e ricostruire l’Afghanistan”. Il vero scopo della guerra condotta dagli Usa in Afghanistan, alla quale partecipa dal 2003 la Nato in quanto tale, è il controllo di quest’area di primaria importanza strategica al crocevia tra Medio Oriente, Asia centrale, meridionale e orientale, soprattutto nei confronti di Russia e Cina. A questa guerra partecipa sotto comando Usa l’Italia da quando il Parlamento ha autorizzato nell’ottobre 2002 l’invio di un primo contingente militare a partire dal marzo 2003. La spesa italiana, sottratta alle casse pubbliche come quella statunitense, viene stimata in circa 8 miliardi di euro, cui si aggiungono diversi costi indiretti. Per convincere i cittadini, colpiti dai tagli alle spese sociali, che occorrono altri fondi per l’Afghanistan, si racconta che essi servono a portare migliori condizioni di vita al popolo afghano. E i Frati del Sacro Convento di Assisi hanno donato al presidente Mattarella la “Lampada della pace di San Francesco”, riconoscendo in tal modo che “l’Italia, con le missioni dei suoi militari, collabora attivamente per promuovere la pace in ogni parte del mondo”.
(da “Il Manifesto”, 17 dicembre 2019)

Questa faccenda della Lampada di san Francesco merita che le si dedichi particolare attenzione. E non solo a proposito dell’Afghanistan, ma anche riguardo al Vicino Oriente.
Giovedì 19 dicembre, in seconda serata, RAI 3 ha presentato un notevole lungo documentario dal titolo Decimati, sul tema delle minoranze religiose – cristiani soprattutto, ma per esempio anche yazidi – nell’Iraq settentrionale. È sperabile che molti di voi ricordino come il Daesh/ISIS, l’“esercito” del califfo al-Baghdadi, abbia ferocemente infierito su quelle comunità, fraternamente soccorse invece da altre, cristiane e musulmane. Certo, il quadro era e resta complesso. Ora, stando a quel documentario, sembra che a infierire sui cristiani e a indurli ad abbandonare i loro villaggi siano soprattutto gli sciiti spalleggiati dalle formazioni regolari dell’esercito siriano (vale a dire dagli assadisti), dietro i quali premerebbero gli iraniani intenzionati a egemonizzare un “corridoio sciita” dall’Iran attraverso Iraq e Siria sino al Libano, con l’intenzione ultima di minacciare Israele; mentre i cristiani avrebbero costituito una “legione di resistenza” (la NPU, comandata da un ufficiale ex-saddamista). Scopo tattico-strategico sarebbe da parte musulmano-sunnita sostenere i cristiani; USA e Israele appoggerebbero questo progetto.
Questa tesi è stata portata avanti nel documentario televisivo che si è avvalso di un protagonista d’eccezione, il minorita conventuale padre Enzo Fortunato, scrittore e pubblicista molto popolare nel mondo cattolico e non solo e ovviamente del tutto estraneo alla costruzione ideologica alla quale il programma del quale è stato l’anima era funzionale. Ciò, avvicinato alla Lampada della pace di san Francesco, scopre le linee di un disegno che mira a coinvolgere l’intera compagine del Sacro Convento di Assisi presentandola come fiancheggiatrice di una tesi falsa e insostenibile.
In effetti, nella questione vicino-orientale di questi mesi, e quindi anche nelle minacce delle violenze delle quali i cristiani dell’area sono vittime, la verità è rovesciata rispetto alla presentazione televisiva. La tragedia delle comunità cristiane locali è cominciata con la seconda guerra del Golfo, nel 2003 (era ed è noto che esse appoggiavano con decisione il governo laico e magari autoritario, ma religiosamente parlando tollerante di Saddam Hussein); essa si è aggravata a partire dal 2011, quando una triste
combine franco-britannica ha pilotato il tentativo maldestro di rovesciare il governo di Bashir al-Assad in Siria, che a sua volta godeva dell’appoggio delle comunità cristiane; l’esperimento fondamentalista di al-Baghdadi si è sviluppato con l’almeno iniziale sostegno dei governi statunitense, arabo-saudita e israeliano. Il perché si quest’alleanza di fatto, sotto molti aspetti contraddittoria e paradossale, sta nella comune ostilità di tali forze all’appoggio fornito dalla Russia di Putin al governo siriano legittimista di Assad e soprattutto a un programma tanto duro e violento quanto coerente, quello arabo-saudita di fitna (guerra interna all’Islam) contro l’Iran e contro qualunque prospettiva di soluzione del tentativo di strangolamento economico e politico della repubblica islamica: un tentativo che vede appunto uniti e concordi USA, Israele e Arabia saudita, e che è stato portato avanti anche sul piano propagandistico cercando di falsare e di nascondere il dato obiettivo costituito dal fatto che a battere le forze jihadiste del califfo al-Baghdadi siano stati principalmente gli eserciti lealisti siriano e irakeno con l’appoggio dei pasdaran iraniani e delle milizie curde, nonché con il valido e determinante sostegno russo.
Purtroppo, all’indomani della sconfitta dell’ISIS, il problema curdo è stato malissimo gestito: l’ingiustizia consumata un secolo fa, alla fine della prima guerra mondiale, quando un Kurdistan finalmente libero e unito – che avrebbe dovuto nascere come conseguenza diretta e immediata della “dottrina Wilson” sull’indipendenza e l’autodeterminazione dei popoli” – non sorse in quanto i vincitori vollero punire i curdi per essere restati durante tutto il conflitto fedeli sudditi del sultano nonostante le sollecitazioni dei servizi segreti alleati (che invece avevano avuto successo con gli arabi, come si vide con la “rivolta nel deserto” guidata da Thomas E. Lawrence), si è perpetuata nel tempo frammentando la nazione curda e il suo territorio in quattro stati dai confini fittizi (Siria, Turchia, Iraq, Iran). Dopo la sconfitta di al-Baghdadi, l’opinione pubblica curda – pur attraversata da forti discordie politiche – si aspettava una riconsiderazione del suo caso, che non è avvenuta soprattutto a causa sia della rigorosa e pesantissima avversione del governo di Ankara a qualunque rivendicazione dei curdi insediati nel suo paese, sia della debolezza e dell’indeterminazione di Damasco e di Baghdad e del mancato appoggio di Teheran. Tale errore ha indotto i curdi, sia pure per un momento, a sperare addirittura nell’appoggio di Trump e di Netanyahu, se non addirittura del governo di Ryad. Ma già in questo autunno la verità è drammaticamente emersa di nuovo: dai primi di ottobre, Trump ha senza preavviso ritirato le sue forze dal Kurdistan siriano limitandosi alla tutela armata di alcuni pozzi di petrolio e blaterando – proprio lui! – di non voler combattere “guerre assurde”, e abbandonando praticamente i curdi alla mercé delle armi di Erdoğan; reiterati attacchi turchi – sostenuti anche da milizie siriane jihadiste e antisaddamiste – contro obiettivi curdi hanno provocato decine di morti e 150.000 sfollati. La situazione, in Italia, è stata da più parti denunziata: ricordo une esemplare articolo di Domenico Chirico, Il Kurdistan nella morsa fra Turchia e Stati Uniti, a p. 8 del numero di novembre della rivista “Confronti”. D’altra parte, a questo punto, la politica al tempo stesso dura e ambigua del leader turco Erdoğan, che per risolvere i suoi problemi meridionali non ha esitato un istante ad abbandonare quella politica antirussa e antiraniana ch’era almeno dal Cinquecento un punto fermo della diplomazia turca e ad accordarsi con Putin per porre fine all’esperimento indipendentista-libertario curdo del Rojava. Nel contempo, le reciprocamente indipendenti ma convergenti pressioni israeliana e saudita mirano a porre le condizioni per una nuova fase della loro lotta unilaterale contro l’Iran in tutto il quadrante settentrionale del Vicino Oriente. I cristiani locali si trovano stretti in questa drammatica morsa, che si rifrange in infiniti e contraddittori episodi di violenza: ma in tutto ciò l’’Iran è l’oggetto attaccato, non il soggetto attaccante. L’esatto contrario della morale che lo spettatore medio del programma Decimati ha tratto dalla visione di esso. Lasciamo che almeno i fraterni amici del Sacro Convento di Assisi siano rispettati e non coinvolti in strumentalizzazioni nei confronti delle quali non hanno responsabilità alcuna.