Minima Cardiniana 263/2

Domenica 5 gennaio 2020, Sant’Edoardo

A questo punto, è chiaro che uno sguardo disincantato e analitico sull’Europa, la sua situazione istituzionale, il suo ruolo internazionale, è diventato indispensabile. Partiamo concretamente da due libri recenti, entrambi editi dal Mulino di Bologna: Andrea Zannini, Storia minima d’Europa. Dal neolitico a oggi, e Piero S. Graglia, L’Unione europea. Perché stare ancora insieme. Si tratta di puro “materiale di lavoro”, che ha il pregio di una facile accessibilità e di un buon aggiornamento: non è necessario concordare in tutto con nessuno dei due autori. Ma cominciamo a discutere sistematicamente dei problemi comuni. Tanto per cominciare, ecco il ponderato e documentato avviso dell’amico Adolfo Morganti, di Identità Europea.

L’ANALISI EUROPEISTICA DI ADOLFO MORGANTI, DI “UNIVERSITÀ EUROPEA”

“Ad immediata smentita della vulgata preelettorale dominante fino alle elezioni del 26 maggio scorso1, il dibattito su “chi ha vinto o perso” non ha potuto nascondere l’estrema difficoltà nel riproporre le dinamiche di egemonia dominanti all’interno delle Istituzioni Europee fino alla legislatura appena conclusasi.
Appena resi noti i numeri degli eletti al Parlamento Europeo2 in Italia è immediatamente prevalsa una lettura conservatrice e quasi esorcistica dei risultati elettorali, per la quale i timori di un vasto cambiamento all’interno dell’UE sarebbero stati esorcizzati dal predominio di una maggioranza autodefinitasi “europeista” e comprendente per la prima volta una triarchia composta da popolari (PPE), socialisti (S&D) e liberali3: 444 seggi su 751, il 59,12%. Numeri che hanno consentito di far ripetere ad un vasto novero di analisti ed organi di stampa (gli stessi che precedentemente avevano gonfiato il “pericolo sovranista” ben al di là del limite di ogni realismo) che l’assalto dei “nuovi nazionalismi” era stato fermato sulla linea del Piave elettorale4.
Quanto di rassicuratorio questa veloce diagnosi contenesse è emerso immediatamente nei primi atti politicamente essenziali della nuova legislatura europea, cominciando dalla complicata elezione della Presidente della Commissione Europea. La tesi di questo breve scritto è che la triarchia non costituisca un rafforzamento in extremis del ferreo controllo delle istituzioni europee esercitato dalla guerra fredda dalla diarchia popolari-socialisti, ma al contrario il sintomo principale non solo della sua fine, ma della crisi terminale degli attuali gruppi politici europei sia come insiemi coerenti ideologici e di interessi, sia quindi come soggetti politici.

Il cordone sanitario
La campagna elettorale in quasi tutti i paesi dell’ovest europeo è stata segnata da una narrazione transazionale compatta, tendente alla mobilitazione dell’elettorato di centro-sinistra contro un pericoloso nemico, il “sovranismo”. Con toni non troppo diversi, i partiti afferenti ai gruppi socialista, liberale e popolare hanno cercato di mobilitare i propri simpatizzanti proponendo un “cordone sanitario” che mantenesse fuori dal potere i “sovranisti” rinsaldando un’alleanza trasversale capace di superare le differenze fra le tre famiglie politiche europee in nome del problema più urgente, per l’appunto la battaglia contro i “sovranisti”. I risultati elettorali non hanno dato sempre ragione a questa narrazione. È appena il caso di notare come questo termine in realtà costituisca pressoché uno spauracchio massmediale, accomunando in un’accezione comune e spregiativa realtà politiche e movimenti totalmente irriducibili fra loro, dai 5 Stelle italiani all’Alternative für Deutschland tedesca, aventi in comune solamente una posizione critica nei confronti dell’establishment dominante la scena politica continentale. E volutamente rimuovendo la crescente presenza di una sinistra spiccatamente antiglobalizzazione.

Il rimosso
Questo Leitmotiv è stato al contrario vivacemente contraddetto dall’andamento della campagna elettorale nei 9 paesi europei ex-comunisti (in questo elenco comprendiamo – con un paradosso solo apparente – l’ex Germania Est5) e nei due paesi balcanici ora parte dell’UE. Qui il tema della “lotta al sovranismo” è stato patrimonio di élites ristrette quanto apertamente ispirate dai soggetti forti della globalizzazione mondiale6, e semmai i partiti popolari hanno sposato una linea diffusamente identitaria e critica verso la globalizzazione, l’immigrazione, etc. Del pari, anche i due Piccoli Stati mediterranei facenti parte dell’Unione (Malta e Cipro), e l’Irlanda (in realtà Piccolo Stato anch’esso) ne sono stati utilmente risparmiati. In Grecia l’esperienza concreta della globalizzazione dal volto inumano di Alexīs Tsipras (esponente paradigmatico di una sinistra post-marxista tristemente asservita alle multinazionali ed alle banche franco-tedesche) ha cancellato dal dibattito pubblico l’apologia della globalizzazione e il richiamo ad improbabili alleanze trasversali per difendere l’indifendibile7. Ancora più interessante e del tutto peculiare il caso dell’Inghilterra, il cui governo dev’esser considerato probabilmente l’unico veramente “sovranista” in assoluto, e dove i partiti realmente sovranisti ed identitari sono schierati apertamente dalla parte dell’UE8.
Considerando quindi il numero totale di Stati facenti attualmente parte dell’UE, scopriamo che questo dibattito è stato incanalato verso l’ideologia della Santa Alleanza antisovranista solo negli Stati medio-grandi dell’occidente continentale9. Meno del 50% degli Stati dell’UE. E siccome gli Stati nell’architettura dell’UE hanno un peso, ciò come vedremo costituirà immediatamente un bel problema per la tenuta del “cordone sanitario”.

Destra e sinistra, globalismi ed antiglobalisti
L’ideologia del cordone sanitario anti-“sovranisti” possiede un proprio retroterra implicito, e ripropone con un minimo d’adattamento lessicale il consociativismo nato all’indomani della creazione di un Parlamento europeo ancora lungi dall’esser eletto direttamente dai cittadini: la logica dell’ “arco costituzionale” ben nota anche alla storia della Prima Repubblica italiana. Questa logica giustificò la sinergia fra partiti d’eredità democristiana (in Europa soprattutto dopo la fuoriuscita dei Conservatori britannici, il PPE) e socialista (il PSE) per tener fuori dal potere le cd. “estreme”, di destra e di sinistra, salvo ovviamente valersene al bisogno. Essendo il PPE il maggior contenitore politico naturale dei partiti e movimenti filoamericani, e il PSE (soprattutto dopo il crollo dell’URSS e il rientro nei suoi ranghi del già Partito Comunista Italiano) il naturale erede delle aggregazioni “popolari” del secondo dopoguerra, storicamente l’ideologia dell’arco costituzionale (in Europa, della diarchia PPE-PSE) si è rivelato uno strumento per la conservazione degli equilibri generatesi dopo il 1945-55 e la guerra fredda. In Europa oggi ripropone la medesima conventio ad excludendum spostando l’attenzione dall’asse destra-sinistra a quello globalisti-“sovranisti”10. Ignorando in entrambi i casi le conseguenze del terremoto costituito dal 1989, e pertanto condannandosi al fallimento.
Tuttavia il cambio di paradigma c’è ed è oramai acquisito: tramontata la contrapposizione destra-sinistra l’Europa è oramai costretta a ragionare sullo schema globalismo-antiglobalismo11. E su questo asse si divide. Al punto che ogni tentativo d’interpretazione dei risultati delle ultime elezioni europee fermo a vecchi schemi ideologici postbellici non può che essere del tutto fuorviante ed inutile.

Tra le rovine dell’Arco
La geografia spaziale del Parlamento Europeo è, come quello di quasi tutti gli Stati che compongono l’Unione, ancora strutturata secondo il classico schema ottocentesco destra-centro-sinistra. Quest’abitudine ha indotto molti a fare i conti nel modo apparentemente più comodo, sommando ai seggi del classico centrosinistra europeo quelli dei liberali, allargando in tal modo l’Arco costituzionale comunitario (il centrosinistra globalista) e relegando a destra la minoranza dei “sovranisti”. Un errore non solo culturale, ma prima di tutto politico.
Le truppe globaliste sono in realtà asserragliate in un fortino al centro dell’emiciclo di Strasburgo, assediate da destra e da sinistra da truppe strane e sovente sfuggenti, che non portano le solite uniformi, e senza nemmeno potersi fidare delle proprie truppe fino in fondo. Inedite ed antiche linee di frattura hanno dapprima incrinato e poi fatto crollare l’Arco. Un dominio dal centro è diventato un difficile assedio, da troppe parti condotto e probabilmente non più gestibile.
Basta fare un po’ di conti.
Benché le categorie politiche dei media italiani pressoché lo ignorino, il primo dato di novità di queste elezioni europee è la nascita di una vasta, plurale e vigorosa sinistra antiglobalista, d’altronde in Italia pressoché assente. Che ha coscientemente rotto col tradizionale ruolo della sinistra europea, essere cioè puntello degli equilibri di Yalta. In realtà oggi in Europa se esiste una sinistra questa non abita più nei vetusti apparati socialdemocratici e si è lasciata dietro da tempo gli ultimi Mohicani del comunismo irrealizzato. Questa nuova sinistra, che esprime una vastissima percentuale del voto giovanile europeo (soprattutto nei paesi del centro-nord del continente di cultura protestante), è oggi incarnata dai Verdi, una delle pochissime formazioni politiche in netta crescita transnazionale che si è immediatamente smarcata dalle pelose offerte di collaborazione consociativa da parte della triarchia. Questa nuova sinistra ecologista si riunisce nel Gruppo Verdi/ALE, forte di 74 parlamentari, con poco meno del 10% dei voti in Parlamento. Ad essa vanno però aggiunti i consensi di una sinistra-sinistra risolutamente antiglobalista, particolarmente forte in Francia ed in Grecia. Un mondo nuovo, che deve ancora trovare una propria strada, ma che ha scelto di non condividere le strade della neopalude globalista. In tutto non si arriva al 15% dei nuovi europarlamentari. Troppo pochi?

Geografia dei reprobi
Dalla parte opposta dell’emiciclo di Strasburgo dovrebbero venir confinati i rappresentanti dei “sovranisti”. Dopo il 26 maggio troppi media hanno barato sui conti, riportando con un diffuso compiacimento che i seggi dei movimenti e partiti riuniti nel gruppo Identità e democrazia sono 73 ed assommano ad un misero 9,72%. Insomma, un sovranismo mignon, isolato ed imbelle, come dimostra il fatto che non abbia ottenuto nemmeno la presidenza di una Commissione. Numeri esatti, ma menzogneri. Nello stile del mendacio più efficace, quello per omissione. A dimostrazione del fatto che la categoria dei “sovranisti” è un artificio letterario, e che le grida preelettorali contro l’imminente invasione di questi nuovi Hyksos avevano lo scopo di distrarre l’attenzione dagli autentici problemi dell’Unione Europea (e sono tanti) in una logica puramente conservatrice. I dati elettorali dicono altro, ovvero che la galassia dei movimenti critici nei confronti della passata gestione della cosa pubblica comunitaria ospitati alla destra dell’emiciclo di Strasburgo è così vasta e sfrangiata da tratteggiare un “sovranismo” non uno, ma quasi trino, un “sovranismo” 2.5. Seguiamo per un attimo il pessimo uso giornalistico di appioppare questo termine senza discernimento a chiunque sia il nemico del momento, stato dopo stato dell’Unione. Facciamo finta che questo nome copra una cosa. E vediamo dove sono.
Il già citato gruppo Identità e democrazia: riunisce parlamentari della Lega (I), Rassemblement National (F – ex Front National), Alternative für Deutschland (G), Vlaams Belang (B), Freiheitliche Partei Österreichs (A), Perussuomalaiset (F), Svoboda a přímá demokracie (CZ), Dansk Folkeparti (D), Eesti Konservatiivne Rahvaerakond (Est). 73 parlamentari, 9,72%.
Esiste tuttavia un secondo gruppo parlamentare contiguo, Conservatori e riformisti: riunisce parlamentari di Prawo i Sprawiedliwość (PL), Conservative Party (UK), Fratelli d’Italia (I), Forum voor Democratie (O), Nieeuw-Vlaamse Alliantie (B), Vox (E), Sverigedemokraterna (S), Nacionālā apvienība “Visu Latvijai!” (Lt), Familien-Partei Deutschlands (G), Sloboda a Solidarita (Slo), Staatkundig Gereformeerde Partij (O), Staatkundig Gereformeerde Partij (Lt), Hrvatska konzervativna stranka (Cr), Občanská demokratická strana (CZ), VMRO (Bg), Elliniki Lusi-Greek Solution (Gr), Solidarna Polska Zbigniewa Ziobro (PL). 62 parlamentari, 8,26 %.
Infine, all’interno dell’attuale Gruppo dei “non iscritti” (ex Gruppo misto) ritroviamo altri conclamati”sovranisti” attualmente senza casa: 5 Stelle (I), Brexit Party (UK), Democratic Unionist Party (I), Jobbik (U), Alba dorata (GR). 46 parlamentari, 6,2%.
La palese disunione rivela la nota e plateale difficoltà dei movimenti e partiti eurocritici a trovare una piattaforma politica comune. Ma non nasconde l’assai più robusta e diffusa attitudine comune al rigetto dei precedenti equilibri comunitari, oggi reincarnatisi nella triarchia. Questo comune, evidente rigetto mette insieme una percentuale di parlamentari pari al 24,1% dell’emiciclo di Strasburgo. Se volessimo giocare con le percentuali, sarebbe il 2° gruppo del Parlamento europeo, ad un’incollatura dal PPE (24,23%) e ben più rilevante del PSE-S&D, imploso al 20,51%. Se la calura estiva ci inducesse poi ad addizioni ancor più azzardate, potremmo constatare come gli eurocritici di “destra” e di “sinistra” mettono assieme quasi un buon 40% degli eletti. E ciò senza contare i “sovranisti” (provvisoriamente?) a casa altrui, come Fidesz di Viktor M. Orbán (Ungheria) con i suoi 13 seggi12.

Operazione Timmermans
Quanto i numeri nella loro oggettività mentano per omissione è emerso immediatamente nel caso del tentativo di far eleggere il socialista belga Frans Timmermans a Presidente della Commissione Europea il 1 luglio 2019. Un fallimento dagli aspetti tragicomici, che ha immediatamente palesato le fragilità strutturali della nuova triarchia.
I retroscena sono ben noti: nel corso del G20 di Osaka (28-29 giugno 2019), la premier tedesca Angela Merkel si è fatta promotrice di colloqui diretti con Emmanuel Macron e il premier olandese Mark Rutte (per i liberali) e con lo spagnolo Pedro Sanchez (per i socialisti). Scopo dei colloqui, accordarsi in anticipo – fra capi di stato – sulla spartizione delle cariche europee nella nuova logica triarchica, anticipando i lavori parlamentari della settimana successiva13. Ovviamente la spartizione si realizza rapidamente e con consumata professionalità, dribblando lungo il cammino anche una manifesta rivolta dei vari leaders del PPE: Timmermans (PSE-S&D) alla presidenza della Commissione, Georgieva (PPE) alla presidenza del Consiglio Europeo, Weber (PPE) al Parlamento Europeo, il belga Michel o la danese Vestager (liberali) sulla diafana poltrona di “Alto rappresentante per la politica estera dell’UE”, più poltrone minori14. La prassi spartitoria fra vertici di partiti che incarnano i vertici dei grandi stati dell’UE è una caratteristica storica delle istituzioni comunitarie, un modus operandi che ha sempre funzionato; eppure questa volta l’accordo di vertice si schianta contro il più rappresentativo momento della democrazia comunitaria: la plenaria del Parlamento Europeo. Già minato dal plateale “non appoggio” del presidente uscente del Consiglio Europeo, il liberale polacco Donald Tusk, dopo 20 ore di negoziato questo “pacchetto” si sfalda di fronte ad un’opposizione tanto larga quanto eterogenea: Italia (governo “sovranista”), Irlanda (governo PPE), Paesi di Visegrad (governi che spaziano dal PSE al PPE ai Conservatori, con dietro a questi, anonimi fino al momento del voto eventuale, un numero imprecisato di altri Stati ex-comunisti parimenti politicamente variegati). Angela Merkel ammette a bocca storta la sconfitta: “Votare contro l’intero gruppo di Visegrad – ha spiegato la cancelliera – e un paese come l’Italia, quindi contro 100 milioni di abitanti europei, sarebbe davvero difficile, potrebbe portarci a tensioni”; Macron s’adombra e mette il broncio: “Un fallimento… una pessima immagine per l’Europa15. In realtà, un preciso segnale per la triarchia: molti Stati, persino i “piccoli”, indipendentemente dalla loro collocazione all’interno delle famiglie politiche europee, non sono più disposti a delegare il futuro dell’Europa (ed il loro) a un Direttorio franco-tedesco. La lezione greca pare esser stata appresa, e l’Italia non è francamente apparsa isolata e ininfluente come troppi commentatori italofoni hanno sostenuto per ragioni di schieramento. Anzi.

Il singolare “trionfo” di Ursula von der Leyen
Passano pochissimi giorni e la prova d’appello sottolinea ancor più nettamente le fragilità strutturali degli attuali equilibri politici dell’UE. Il 16 luglio viene faticosamente eletta Presidente della Commissione Europea la tedesca Ursula Von der Leyen, ritenuta da tutti i commentatori “molto vicina” alla premier Angela Merkel. Ce la fa con 383 voti a favore, 327 contrari e 22 astenuti. La somma dei voti di popolari, liberali e socialisti ammonta a 444; in più di 100 non la votano, un parlamentare su 4 della coalizione. Nei giorni precedenti la geografia del rifiuto si fa palese, evidenziando nuovamente linee di frattura trasversali che ricalcano una geografia politica fondata sugli stati e non sugli accordi di Osaka, sia pur riveduti e corretti: annunciano ad esempio pubblicamente il loro “no” i socialisti tedeschi, britannici. scandinavi e romeni, attorno ai 50 parlamentari, ossia un terzo del gruppo socialista in Europa16; altri franchi tiratori si contano fra i liberali e (sospettano i commentatori) anche fra i popolari. In sintesi una cristallina manifestazione della smaccata frammentazione interna delle 3 grandi famiglie politiche europee in un momento cruciale.
La Von der Leyen viene eletta solamente grazie al contributo pesante dei 26 eurodeputati polacchi del PiS, il partito al governo in Polonia ed ai vertici del gruppo europarlamentare bollato come “populista” Conservatori e riformisti, e a quello meno pesante del 14 eurodeputati italiani dei 5 Stelle17. Quest’ultimo fatto non dovrebbe sorprendere nessuno: da candidata la Von der Leyen ha cercato appoggio ovunque, avendo ben chiaro lei per prima la fragilità del suo consenso ufficiale poggiato sulla triarchia; non a caso ha incontrato ufficialmente i 5 Stelle fra i primi interlocutori già l’11 luglio, benché questi non abbiano per il momento alcun gruppo di riferimento. “Punto di convergenza” ufficiale, il passaggio del discorso post-elezione della Von der Leyen in cui accenna alla necessità di un “salario minimo europeo”18. Come già accennato, in realtà l’appoggio del PiS polacco è il vero dato politico nuovo del momento, soprattutto perché è giunto senza una contropartita in termini di poltrone: come ha dichiarato una “delle vecchie figure carismatiche della CDU” una settimana circa prima del voto dell’Europarlamento, “…Merkel e Macron hanno voluto portarsi a casa l’intero piatto, mettendo tutti gli altri in condizione di sentirsi dei parvenu, dei vassalli. E allora non stupiamoci se poi ci sarà un po’ di fronda al momento del voto, e soprattutto se ci troveremo in Parlamento una maggioranza a quattro19. Ove il quarto commensale sarà evidentemente l’Eurogruppo “populista” Conservatori e riformisti, a trazione polacca (appunto il PiS), forte – lo ricordiamo – di 62 europarlamentari.

Conclusione
Sarebbe a questo punto fin troppo facile esercitare un variegato registro di ironie in merito all’ideologia del “cordone sanitario” anti-sovranista con cui abbiamo aperto questo breve articolo. E senza voler divinare il futuro, i nuovi equilibri istituzionali dell’Unione Europea evidenziano importanti tratti di novità rispetto a tutti quelli passati: dal seppellimento ufficiale della diarchia PPE-PSE al ritorno degli Stati (persino di quelli “piccoli”); dal veloce decadimento della caricatura dell’asse franco-tedesco (oggi incarnata da un Macron minoranza a casa propria e da una Merkel incapace di rinnovare politiche rifiutate apertamente da buona parte del suo medesimo partito sia in Germania che in Europa); dalla nascita di una nuova sinistra Verde refrattaria ad ogni consociativismo globalista al peso politico reale della galassia “sovranista”, a dispetto delle sue stesse frammentazioni e della sua attuale debolezza in termini di proposta politica comune. Vecchi equilibri vacillano, nuove possibilità si aprono.
Appare evidente che sia comunque iniziata una nuova stagione per l’Unione Europea: forse possiamo riprendere a sperare, credo quia absurdum, in una rinascita europea; forse, dal 2019, una nuova Europa è realmente possibile”.
Adolfo Morganti

Note
1 Cfr. l’Introduzione al presente numero de I Quaderni di Domus Europa.
2 Cfr. http://www.europarl.europa.eu/news/it/press-room/elections-press-kit/0/risultati-delle-elezioni-europee.
3 Riuniti nel nuovo gruppo Renew Europe, definizione imposta dal premier francese Emmanuel Macron per paradossale maquillage elettorale, tanto da coprire un programma di assoluta conservazione degli equilibri e degli orientamenti egemoni nella precedente legislatura comunitaria: un “rinnovamento” che all’indomani del 26 maggio risulta comunque a tutti gli effetti evaporato.
4 Esemplare per concisione e chiarezza a tal proposito la lettera inviata a nome del Movimento Europeo dal suo Presidente, Pier Virgilio Dastoli, su Avvenire, all’indomani delle elezioni europee.
5 Cfr. sul tema i molteplici contributi dedicati alla ex-DDR contenuti nel numero 12/2018 di Limes, dedicato a “Essere Germania”.
6 Oramai quasi ogni cittadino europeo oramai conosce le polemiche attorno alla presenza operante della Open Society Fondation e le controverse attribuzioni che contornano la figura del suo ideatore, il magnate statunitense d’origine ungherese George Soros. Anche se, ovviamente, la sua Fondazione è ben lungi dall’essere in ciò isolata sia in Italia che nel resto dell’Unione Europea.
7 Syriza, il partito di Tsipras, è stato infatti protagonista di uno dei più marcati crolli elettorali delle ultime elezioni europee, fermandosi al 23,9% dei consensi. Parallelamente va ricordato l’interessante esordio della sinistra antiglobalizzazione di Yanis Varoufakis.
8 È ovviamente il caso dello Scottish National Party.
9 Sarà infine solo il caso di rammentare che nel secondo e terzo Stato dell’Unione Europea per numero di abitanti, Francia ed Italia, questo richiamo massmediale non ha impedito che in entrambi i casi gli elettori consegnassero la vittoria a movimenti apertamente “sovranisti”, vittoria rafforzata dalla crescita dei movimenti antiglobalisti “non classificati” come i 5 stelle italiani o della sinistra antiglobalizzazione francese di Jean-Luc Mélenchon (su di lui vedi http://temi.repubblica.it/micromega-online/dai-gilet-gialli-al-sovranismo-vi-racconto-chi-e-melenchon/).
10 Ovviamente, come ogni schema anche questo possiede le sue eccezioni che finiscono per rafforzare la regola. Esemplare il caso della Danimarca, in cui la nuova premier socialdemocratica, Mette Frederiksen, ha vinto pochi giorni dopo le elezioni europee le elezioni politiche con il 25% dei voti (che le hanno garantito la maggioranza assoluta dei seggi al parlamento danese, 90 su 179) facendo propria e con grande energia tutta la retorica anti-immigrazione (la “tolleranza zero”) che la vulgata attribuisce come tratto spregevole ai “sovranisti”, e prosciugando con ciò il 50% del bacino elettorale della destra “sovranista” locale, il Dansk Folkeparti, calato dal 21 al 10% dei voti. Con notevole coerenza la sinistra italiana non ha mancato di salutare l’oggettivo trionfo di questo ircocervo social-sovranista come “un segnale positivo per la crescita della sinistra europea”: cfr. https://www.repubblica.it/esteri/2019/06/05/news/ danimarca_elezioni_risultati_ socialdemocratici_ immigrazione-228057918/.
11 Il tema della globalizzazione (e della sua critica) è di per sé sconfinato; il lettore italiano curioso troverà comunque utili riferimenti, bibliografie e riflessioni in tre preziosi testi di Franco Cardini: L’invenzione dell’Occidente, Rimini 2004, La globalizzazione, fra nuovo Ordine e caos, Rimini 2005, e (assieme a Marina Montesano e Stefano Taddei) Capire le multinazionali. Capitalisti di tutto il mondo, unitevi!, San Marino 2012.
12 Il quale, continuando a giocare, se venisse effettivamente espulso dal PPE come richiesto da più parti, fungerebbe da paradossale ago della bilancia, portando l’immaginario partito unico dei sovranisti al 1° posto del Parlamento europeo. E, più seriamente, è per questo non è stato espulso dal PPE a dispetto di ogni clamore mediatico. Ma il gioco non finisce qui: che accadrebbe/accadrà in caso di Brexit e dell’uscita da Strasburgo di Conservatori, alleati nordirlandesi e Brexit Party?
13 Stile colloquiale che ben evidenzia l’usuale ben scarsa considerazione delle Istituzioni parlamentari comunitarie da parte dei premier di Germania, Francia e Spagna, con l’Olanda di scorta, fatto che scatenerà alcune veementi dichiarazioni trasversali nel Parlamento di Strasburgo.
14 Vedasi l’accurata ricostruzione di G.M. Del Re su Avvenire, 2 luglio 2019, pag. 6.
15 Riportato in Idem. È interessante notare il lapsus della Merkel, che rimuove l’Irlanda a guida PPE dal fronte degli stati che han fatto crollare il “patto di Osaka”.
16 Dati segnalati da G.M. Del Re su Avvenire, 11 luglio 2019, pag. 7 e 12 luglio 2019, pag. 21.
17 Segno di un consolidato provincialismo è la corale titolazione dei media italiani, che “sparano” i voti grillini come unici salvatori della neoeletta trascurando quasi totalmente il “caso” polacco, in prospettiva ben più interessante.
18 Questo voto d’altronde è il frutto di un rapido avvicinamento dei 5 Stelle verso un nuovo porto politico, dopo la dissoluzione del vecchio gruppo euroscettico che li vedeva assieme al britannico Farage. Caso al momento unico di “sovranismo” in via di conversione al centro, chi scrive scommette su una loro adesione al gruppo Renew Europe (liberali) una volta superata l’esperienza dell’attuale governo italiano.
19 Riportato da G. Ferrari nel suo articolo su Avvenire, 11 luglio 2019, pag. 7.