Domenica 12 gennaio 2020. Battesimo del Signore
DOSSIER
Di seguito, una breve rassegna stampa riguardante la situazione internazionale
SULEIMANI UCCISO PER RIELEGGERE TRUMP
Fulvio Scaglione
Nemmeno la terribile “lezione” del massacro siriano fa rinsavire i potenti. Altre guerre per procura si annunciano, altre stragi di civili si preparano per un 2020 che comincia dov’era crudelmente finito il 2019. I droni americani hanno ucciso, a Baghdad, il generale iraniano Qassem Suleimani, 62 anni. Era il comandante dei Guardiani della rivoluzione ma, soprattutto, l’uomo di fiducia dell’ayatollah Alì Khamenei, la guida suprema dell’Iran. Suleimani era lo stratega di tutte le situazioni di crisi in cui la Repubblica islamica avesse messo mano: Iraq, Siria, Libano, Yemen. Un colpo durissimo per l’Iran perché Suleimani che aveva combattuto giovanissimo nella guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein, aveva un’esperienza che lo rendeva quasi insostituibile.
L’attacco americano è a tutti gli effetti una dichiarazione di guerra. La motivazione addotta dal Pentagono per giustificare l’azione (“Suleimani stava progettando attacchi contro diplomatici e militari americani in Iraq e in tutta la regione”) è risibile. La storia dell’ormai lunga crisi tra gli Usa di Trump e l’Iran dimostra che quella era proprio l’unica cosa che Suleimani, che tutto era tranne che uno stupido, non avrebbe mai fatto. Né ha senso l’idea che l’attacco dei droni americani sia la risposta alla furiosa protesta che gruppi di iracheni sciiti avevano portato qualche giorno prima contro l’ambasciata americana di Baghdad. Li aveva di certo manovrati l’altra vittima illustre del raid, Abu Mahdi al Muhandis, numero due delle milizie irachene filo-iraniane, un corpo paramilitare affiliato all’esercito. Ma non dichiari una guerra perché ti hanno sporcato i muri.
Gli Usa sono forti in Medio Oriente. Secondo i dati più recenti, tengono quasi 60 mila soldati nella regione e hanno installazioni militari in 14 Paesi: Egitto, Israele, Libano, Siria, Turchia, Giordania, Iraq, Kuwait, Arabia Saudita, Yemen, Oman, Emirati Arabi Uniti, Qatar e Bahrein. Nel solo 2019, e proprio in seguito alle tensioni con l’Iran, Trump ha inviato altri 2.500 soldati nella sola Arabia Saudita. E ancora più forti si sentono, gli Usa, da quando sono riusciti a saldare l’alleanza tra Arabia Saudita e Israele, i Paesi che più fortemente temono l’estendersi dell’influenza iraniana. È certo, tra l’altro, che le informazioni decisive sugli spostamenti di Suleimani siano venute dai loro servizi segreti, da lungo tempo ottimamente infiltrati in Iraq.
Trump ha ereditato da Barack Obama la crisi siriana e la sconfitta della triangolazione americo-saudo-israeliana, determinata ad abbattere Bashar al-Assad per spezzare la catena del potere sciita che lega tra loro Iran, Iraq, Siria, Libano e Yemen, e tutti insieme alla Russia. Vuole la rivincita e mira all’Iran, sapendo che il Cremlino, sceso in campo per Assad, non farebbe altrettanto per gli ayatollah.
Ma soprattutto Trump usa la politica mediorientale (e in genere la politica estera) per fini di politica interna. Punta alla rielezione. E sa che il suo elettorato, quello repubblicano ma non solo (pensiamo, per esempio, ai gruppi di influenza filo-israeliani), ama l’America dura, che si fa rispettare armi in pugno. Eliminare un generale iraniano come Suleimani è un ottimo sistema per trasformare l’impeachment in un atto antipatriottico. E se per caso gli iraniani dovessero reagire, ecco una scusa perfetta per trasformare la campagna elettorale in un referendum tra chi vuole difendere l’America (lui, ovvio) e chi vuole invece arrendersi. Non a caso i democratici, che in passato non si sono mai negati guerre e guerricciole, ora contestano il suo operato anti-Iran. E se pensiamo che c’è ancora un anno prima delle presidenziali Usa, e che pare impossibile che l’Iran non cerchi una rivalsa, dobbiamo prepararci ad altri momenti drammatici.
Anche Recep Tayyep Erdogan usa l’estero per soffocare i problemi interni. L’economia della Turchia è da tempo in bilico (nonostante una parziale ripresa nella seconda metà del 2019, il reddito pro capite, il Prodotto interno lordo e la produzione industriale sono da tempo in calo) e lo scontento è palpabile. Già l’offensiva militare nel Nord della Siria contro i curdi rispondeva, almeno in parte, all’esigenza di alzare una bandiera populista per placare gli istinti profondi del Paese. Quella spedizione, però, ha aperto un’altra questione: che fare dei miliziani islamisti, in gran parte affiliati ad Al Nusra (l’ex Al Qaeda), che la Turchia ha armato e finanziato per anni e che occupano la provincia siriana di Idlib? Al Nusra ha sedi, militanti e conti correnti in Turchia. Erdogan è a un bivio: abbandonare i vendicativi miliziani alle bombe dei russi e dei siriani, e così dover quasi sicuramente affrontare un’ondata di attentati in patria? Oppure tradire i patti siglati con Vladimir Putin (la “pulizia” di Idlib in cambio del via libera all’avanzata anti-curda), sponda che gli è indispensabile per tenere a bada gli Usa?
Per sua fortuna c’è la Libia. Il governo di Fayez al-Sarraj, l’unico riconosciuto dalle Nazioni Unite, è in crisi profonda. Il generale Khalifa Haftar, con le armi della Francia, i droni degli Emirati Arabi Uniti, i quattrini dell’Arabia Saudita, l’aviazione dell’Egitto e i mercenari della Russia, controlla ormai gran parte del Paese e stringe d’assedio Tripoli. Al-Sarraj ha chiesto aiuto un po’ a tutti e la cosiddetta “comunità internazionale”, dalla Ue alla stessa Onu, non ha prodotto altro che chiacchiere. Come se le belle parole servissero a qualcosa contro le bombe e i carri armati. Più seriamente gli ha risposto appunto Erdogan, che così prende tre piccioni con una fava. Da un lato interviene in una crisi sulla sponda Sud del Mediterraneo, conquistando un ruolo di grande rilievo geopolitico. Dall’altro si libera dei militanti di Al Nusra. Perché il bello è questo: a combattere per Al-Sarraj, cioè per il governo timbrato Onu, andranno i tagliagole di Idlib, quelli che qualche settimana fa destavano lo sdegno del mondo per le violenze contro i civili curdi. E infine allunga le mani sulle risorse energetiche della Libia: Al-Sarraj ha già firmato con lui un accordo che investe i preziosi giacimenti di gas e petrolio del Mediterraneo.
Ora tutti, dalle grandi istituzioni come la Ue ai Paesi come Francia e Italia, chiedono alla Turchia di lasciar perdere, alla Russia di smetterla, a questo e a quell’altro di fare il bravo. Al-Sarraj ha già risposto: dove eravate quando vi chiedevo aiuto?
(Famigliacristiana.it, 3 gennaio 2020)
NOT IN OUR NAME
Giulietto Chiesa
Damned if you do it, damned if you don’t. Traduzione: se lo fai sei fregato, ma sei fregato anche se non lo fai. Chi è il “fregato”? Donald Trump. Sulla graticola c’è lui. E non per sua scelta. La prova è che pochi giorni fa ha scritto: “Questa guerra non la vuole l’America e non la vuole l’Iran”.
Invece c’è chi la vuole. A tutti i costi. L’uccisione del generale iraniano Suleimanì, all’aeroporto di Baghdad (un atto terroristico compiuto dagli Stati Uniti sul territorio di un paese sovrano, cosa che tutti gli osservatori si dimenticano di notare) è una colossale provocazione il cui obiettivo è fare precipitare la situazione e innescare la guerra tra Stati Uniti e Iran.
Chi vuole questo esito? Lo vuole Israele, nella persona di Benjamin Netanyhau. Lo vuole il Deep State americano, cioè Pentagono, CIA, FBI, NSA. Lo vuole il Partito Democratico (Obama, Clinton, Biden, Soros, con tutto il codazzo dei maggiori media americani).
Non bisogna farsi illusioni, il momento è gravissimo. Come è chiara la successione degli eventi che l’hanno preceduto negli ultimi giorni dell’anno che si è appena concluso. A cominciare da un attacco contro una base USA in territorio siriano che – è stato detto – avrebbe provocato la morte di un “contractor” USA. Cosa ci stesse a fare il mercenario americano laggiù non è chiaro. Chiara è invece la risposta militare americana, che bombarda le milizie iraniane in Irak e in Siria, provocando decine di morti.
C’è la protesta di massa a Baghdad. Migliaia di dimostranti assediano e attaccano furibondi l’ambasciata americana. Sfondano le prime difese ma vengono fermati. Però il Pentagono e tutti i media strillano che si ripeterà la tragedia di Bengasi, in Libia, quando l’ambasciatore USA fu ucciso dalla folla (dalla folla?). Ma non c’è il morto americano a Baghdad. Per ora. Fin qui a Baghdad.
Ma a Mar-a-lago, negli Stati Uniti, dove il presidente americano sta riposando, arrivano all’improvviso (è il 29 dicembre) il Segretario di Stato Mike Pompeo, il Segretario alla Difesa, Mark Esper e il Capo degli Stati Maggiori Riuniti del Pentagono, Mike Miley. Vanno a “informare” Donald Trump (che, si noti, è il comandante in capo di tutte le forze statunitensi). E fanno un conferenza stampa per, appunto, “informare il Presidente sulle attività che si sono svolte in Medio Oriente nelle ultime 72 ore”. Che è come dire che Trump non ne era al corrente.
Ma Donald Trump non solo non è presente alla conferenza stampa. Addirittura prende il volo per andarsene a West Palm Beach, al suo campo da golf privato. Senza neanche scrivere un twit, lui che ne fa cinque al giorno per molto meno. Cioè resta in silenzio. Inoltre: Che ci faceva Pompeo a Mar-a-lago? Lui non è un capo militare. Il tutto aveva l’aria di un pronunciamiento (meglio dirlo alla sud-americana): “o agisci o sei un inetto”!
Cioè: l’impeachment non funzionerà? La crisi economica sarà rimandata a dopo le elezioni? Allora occorre costringere il Presidente in carica a fare un gesto inconsulto, mettendolo con le spalle al muro. Cioè guerra contro l’Iran. Il Cremlino guarda con grande preoccupazione e affida a una figura di secondo piano, Andrej Bystritsky, presidente del Club Valdai, il compito di far capire che a Mosca vedono “un rischio, e un rischio molto serio” che Donald Trump sia messo in una situazione “senza via d’uscita”.
Tutto questo avveniva prima dell’assassinio di Suleimanì. Trump twitta una bandiera americana, senza dire altro. E il Pentagono dichiara che la decisione di uccidere è stata presa da Donald Trump. Dall’Iran giungono dichiarazioni furibonde di vendetta per il “martirio” di Suleimanì. Salvini ringrazia il Presidente Trump per avere ucciso il terrorista numero uno. Dimostrando così che il livello di stupidità assoluta è stato superato con un balzo record. L’Italia non ha dirigenti capaci di dire l’unica cosa sensata: noi non vogliamo una guerra contro l’Iran e non parteciperemo a questa guerra, se ci sarà.
(Pandora TV, 3 gennaio 2020)
L’IRAK DECIDE: VIA TUTTE LE TRUPPE AMERICANE
Giulietto Chiesa
170 deputati del parlamento di Baghdad hanno votato ieri per il ritiro immediato di tutte le truppe americane dall’Irak.
Erano necessari almeno 150 voti. La gran parte delle fazioni irachene, che, fino a ieri, erano divise, hanno dunque deciso assieme la cacciata degli americani. La richiesta – sotto ogni profilo storico – è diventata nazionale.
Circa 5000 soldati USA sono attualmente sul territorio iracheno. La decisione è stata presa in base all’art. 58 della Costituzione, come protesta per l’azione “illegale” degli Stati Uniti e come riaffermazione della sovranità e dell’orgoglio nazionale.
Resta da vedere dove andranno a dislocarsi i 20.000 soldati USA che il Pentagono annuncia di voler inviare in Medio Oriente.
(Pandora TV, 5 gennaio 2020)
INTERVISTA AD AHMAD ASSADI
Lorenzo Cremonesi
Ahmad Assadi: «Via le truppe Usa, ma i soldati italiani vogliamo che restino: addestrano i nostri»
Parla il deputato sciita promotore del provvedimento varato dal parlamento per espellere le truppe straniere
«Ovvio che il contingente italiano può restare in Iraq col compito di addestrare i nostri quadri dell’esercito e della polizia. Conta quasi mille soldati, è il secondo in termini numerici degli oltre settanta contingenti che formano la coalizione internazionale, tanto importante per aiutarci a battere i terroristi di Isis negli ultimi anni. Più numerosi di loro sono solo gli americani. Ma con gli italiani in linea di massima potrebbero restare tutti gli europei e altri. Comunque valuteremo, ci consulteremo, decideremo caso per caso. L’importante però è che se ne vadano subito gli americani. Nessuno in Iraq può tollerare che restino dopo il terribile crimine che hanno commesso per volere diretto del bandito Trump, proprio qui, alle porte della nostra capitale. Il passo compiuto dal nostro Parlamento contro la presenza di truppe straniere nel nostro Paese nella sostanza riguarda solo gli americani».
Così Ahmad al Assadi, deputato del Parlamento di Bagdad per la coalizione di partiti sciiti Al Fatah vicini alle milizie legate a Teheran, spiega il significato della risoluzione votata domenica per espellere i contingenti stranieri. Una mossa che coinvolge le truppe italiane e getta nella confusione l’intero meccanismo degli aiuti militari internazionali al governo iracheno. Fuori dal suo ufficio, nel quartiere di Jadria, poche decine di metri dal muro che protegge la «zona verde» dove è situata l’ambasciata americana, le vie sono tappezzate con i manifesti e gli slogan di condanna per l’assassinio di Soleimani e di Abu Mahdi al Muhandis, leader locale della milizia Kataib Hezbollah. Con quest’ultimo Assadi aveva un rapporto diretto e quotidiano.
Davvero credete che i soldati italiani possano restare nel caso il contingente americano venisse espulso?
«Perché no? Il loro lavoro è molto utile. Il nostro Parlamento presto formerà alcune commissioni tecniche assieme ai dirigenti delle forze di sicurezza per valutare con i vari contingenti stranieri le modalità, i luoghi, gli ambiti e le durate dei loro impegni. Daremo centralità ai compiti di addestramento. In particolare gli europei potranno lavorare con noi senza bisogno di consultare Washington».
In Iraq sono in tanti a sostenere che il voto parlamentare non sia valido.
«Sbagliano. Quel voto è validissimo. C’era il quorum necessario dei deputati e la voce del premier è stata fondamentale per legittimarlo».
Come vede le migliaia di iracheni, anche sciiti, che detestano le vostre milizie e non hanno pianto per la morte di Soleimani?
«Sono un’infima minoranza. Noi abbiamo visto immense manifestazioni di solidarietà popolare per i nostri martiri. Il terrorismo di Trump ci ha tutti uniti contro il male americano».
E i giovani di piazza Tahrir che hanno festeggiato sostenendo che Soleimani aveva armato i cecchini sciiti che li uccidono per la strada?
«So bene che alcuni dicono questo. Ma sono solo menzogne, falsità funzionali alla propaganda di Trump. Posso affermare in totale buona fede che nessun cecchino sciita ha mai preso di mira un manifestante. Va anche aggiunto che quei manifestanti sono una frazione della popolazione, rappresentano solo se stessi».
Crede possibile una guerra tra Iran e Stati Uniti combattuta anche in Iraq?
«Impossibile dire. Tutto è aperto. Certo occorre dare una lezione agli americani. E deve essere forte, proporzionata alla gravità del loro crimine. D’altro canto, Trump è un pazzo fuori controllo. Voi europei è di lui che dovete avere paura, non di noi».
(Corriere della Sera, 6 gennaio 2020)
QUAL È LA VERA MINACCIA NUCLEARE IN MEDIO ORIENTE
Manlio Dinucci
“L’Iran non rispetta gli accordi sul nucleare” (Il Tempo), “L’Iran si ritira dagli accordi nucleari: un passo verso la bomba atomica” (Corriere della Sera), “L’Iran prepara le bombe atomiche: addio all’accordo sul nucleare” (Libero): così viene presentata da quasi tutti i media la decisione dell’Iran, dopo l’assassinio del generale Soleimani ordinato dal presidente Trump, di non accettare più i limiti per l’arricchimento dell’uranio previsti dall’accordo stipulato nel 2015 con il Gruppo 5+1, ossia i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu (Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Russia, Cina) più la Germania.
Non vi è quindi dubbio, secondo questi organi di “informazione”, su quale sia la minaccia nucleare in Medio Oriente. Dimenticano che è stato il presidente Trump, nel 2018, a far ritirare gli Usa dall’accordo, che Israele aveva definito “la resa dell’Occidente all’asse del male guidato dall’Iran”. Tacciono sul fatto che vi è in Medio Oriente un’unica potenza nucleare, Israele, la quale non è sottoposta ad alcun controllo poiché non aderisce al Trattato di non-proliferazione, sottoscritto invece dall’Iran.
L’arsenale israeliano, avvolto da una fitta cappa di segreto e omertà, viene stimato in 80-400 testate nucleari, più abbastanza plutonio da costruirne altre centinaia. Israele produce sicuramente anche trizio, gas radioattivo con cui fabbrica armi nucleari di nuova generazione. Tra queste mini-nukes e bombe neutroniche che, provocando minore contaminazione radioattiva, sarebbero le più adatte contro obiettivi non tanto distanti da Israele. Le testate nucleari israeliane sono pronte al lancio su missili balistici che, con il Jericho 3, raggiungono 8-9 mila km di gittata.
La Germania ha fornito a Israele (sotto forma di dono o a prezzi scontati) quattro sottomarini Dolphin modificati per il lancio di missili nucleari Popeye Turbo, con raggio di circa 1.500 km. Silenziosi e capaci di restare in immersione per una settimana, incrociano nel Mediterraneo Orientale, Mar Rosso e Golfo Persico, pronti ventiquattro’ore su ventiquattro all’attacco nucleare.
Gli Stati uniti, che hanno già fornito a Israele oltre 350 cacciabombardieri F-16 e F-15, gli stanno fornendo almeno 75 caccia F-35, anch’essi a duplice capacità nucleare e convenzionale. Una prima squadra di F-35 israeliani è divenuta operativa nel dicembre 2017. Le Israel Aerospace Industries producono componenti delle ali che rendono gli F-35 invisibili ai radar. Grazie a tale tecnologia, che sarà applicata anche agli F-35 italiani, Israele potenzia le capacità di attacco delle sue forze nucleari.
Israele – che tiene puntate contro l’Iran 200 armi nucleari, come ha specificato l’ex segretario di stato Usa Colin Powell nel 2015 – è deciso a mantenere il monopolio della Bomba in Medio Oriente, impedendo all’Iran di sviluppare un programma nucleare civile che potrebbe permettergli un giorno di fabbricare armi nucleari, capacità posseduta oggi nel mondo da decine di paesi. Nel ciclo di sfruttamento dell’uranio non esiste una netta linea di demarcazione tra uso civile e uso militare del materiale fissile. Per bloccare il programma nucleare iraniano Israele è deciso a usare ogni mezzo. L’assassinio di quattro scienziati nucleari iraniani, tra il 2010 e il 2012, è con tutta probabilità opera del Mossad.
Le forze nucleari israeliane sono integrate nel sistema elettronico Nato, nel quadro del“Programma di cooperazione individuale” con Israele, paese che, pur non essendo membro della Alleanza, ha una missione permanente al quartier generale della Nato a Bruxelles. Secondo il pianotestato nella esercitazione Usa-Israele Juniper Cobra 2018, forze Usa e Nato arriverebbero dall’Europa (soprattutto dalle basi in Italia) per sostenere Israele in una guerra contro l’Iran. Essa potrebbe iniziare con un attacco israeliano agli impianti nucleari iraniani, tipo quello effettuato nel 1981 contro l’impianto iracheno di Osiraq. Il Jerusalem Post (3 gennaio) conferma che Israele possiede bombe non-nucleari anti-bunker, usabili soprattutto con gli F-35, in grado di colpire l’impianto nucleare sotterraneo iraniano di Fordow.
L’Iran però, pur essendo privo di armi nucleari, ha una capacità militare di risposta che non possedevano la Jugoslavia, l’Iraq o la Libia al momento dell’attacco Usa/Nato. In tal caso Israele potrebbe far uso di un’arma nucleare mettendo in moto una reazione a catena dagli esiti imprevedibili.
(il Manifesto, 7 gennaio 2020)
L’“AGGRESSIONE” DELL’IRAN
Maurizio Blondet
Ormai lo sapete dalle radio: “L’Iran ha attaccato diverse basi in Irak simultaneamente “lanciando decine di missili” balistici (Pentagono). Le Guardie della Rivoluzione chiedono agli Usa “di non rispondere”.
L’Iran “ha rivendicato”: in modo “proporzionato secondo l’articolo 51 della Carta dell’ONU” apparentemente firmato dal ministro degli esteri Zarif.
“Iran took & concluded proportionate measures in self-defense under Article 51 of UN Charter targeting base from which cowardly armed attack against our citizens & senior officials were launched. We do not seek escalation or war, but will defend ourselves against any aggression” (Iranian Foreign Minister Javad Zarif)
Attenzione: le fonti sono tutte occidentali. Al ministro Zarif, che intendeva recarsi all’ONU per fare appello al Consiglio di Sicurezza, Washington ha negato il visto d’entrata: di per sé grave violazione del diritto, perché il palazzo di Vetro è zona extraterritoriale. Evidentemente sapendo che Zarif avrebbe portato al Consiglio la documentazione del doppio tradimento americano, che sapeva che Soleimani era in Irak in veste di diplomatico, e Trump aveva chiesto al primo ministro iracheno di prestarsi alla mediazione.
Stupefazione riportata da Zero Hedge.
Michael Every di Rabobank ha una prima visione della situazione:
In questa fase, con notizie confuse e fatti sul terreno assenti, appaiono due scenari realistici.
Uno è che questo attacco è teatro per placare le grandi folle che erano così di recente nelle strade dell’Iran.
L’alternativa è che l’Iran ha davvero deciso di testare Trump alzando anche la posta.
L’unico modo per decidere è se ci sono vittime negli Stati Uniti.
Se otteniamo immagini di soldati americani morti e feriti, allora gli scenari peggiori iniziano ad aprirsi. Se questi missili non hanno causato danni reali, ma Teheran mostra alla folla che ha risposto, allora sono ancora disponibili ulteriori possibilità positive. Lo scopriremo tra poco, ma le ultime notizie dicono che ci sono “solo” vittime irachene, secondo il suo Ministero della Difesa. Resta da vedere se questa è una linea rossa per Trump, o è il tipo di danno collaterale che si aspettava dopo aver eliminato l’ex capo dell’IRGC Soleimani.
Dato che questa mossa dall’Iran appare totalmente in contrasto con il loro solito acume strategico, o la perdita di Soleimani ha significato una perdita totale di talento e / o autocontrollo, o questo è davvero un livello simbolico di vendetta”.
Anche i media anti-Iran ammettono che “NON” ci sono vittime americane.
Qui un canadese collegato ai servizi:
Thomas Juneau (@thomasjuneau)
La mia ipotesi su questa sera: L’Iran conosce ogni centimetro delle basi di Al-Asad ed Erbil e sapeva che le truppe statunitensi erano sicure; le ha evitate di proposito. I suoi missili a corto raggio sono abbastanza precisi per farlo. L’Iran sta bene con le vittime irachene (è felice di combattere gli Stati Uniti fino all’ultimo iracheno).
L’Iran ha scommesso che questo non innescherà una risposta USA. L’Iran vuole assolutamente evitare un’escalation che sa che perderebbe. Non sarei nemmeno sorpreso se l’Iran lo segnalasse agli Stati Uniti attraverso un backchannel stasera .
Infatti la risposta di Trump sembra confermare: All is weel! Tutto bene! Interessante anche la reazione del Pentagono:
Josh Kraushaar (@HotlineJosh)
Barbara Starr della CNN riferisce che i funzionari del Pentagono sono stati difficili da raggiungere “perché sono stati rimandati a casa presto in previsione di una grande tempesta di neve”.
Basta, per ora.
Un consiglio non richiesto a Di Maio: una letterina alla NATO “che ci protegge”. Per adesso, caro Stoltenberg, sono i nostri soldati che proteggono gli americani in Irak. In una guerra che dura da 17 anni e di cui il nostro interesse nazionale continua a sfuggire, con gradi spese mai rifuse. Ora, i nostri soldati sono messi in pericolo. Possiamo chiedere di portarli via di lì? Anche perché potremmo aver bisogno di dispiegarli in Libia, dove i nostri interessi sono messi a rischio da un alleato della NATO, occasionalmente la Turchia?
Magari anche Salvini potrebbe scrivere a Trump con copia al suo grande amico Bibi: “Padrone, l’ho lodata ed esalata per il suo ultimo assassinio. Le possiamo umilmente ricordare che tutta la nostra servilità, che dura da 70 anni, è giustificata dall’implicita intesa che l’America, la potente America, ci dovrà difendere in caso di conflitto? Volete per favore difenderci contro Erdogan? C’è niente per me, che sono stato così brava scimmietta?”. Magari una carta verde. Perché chi vuole bene a Salvini (sono legioni) dovrebbe cominciare a raccogliere i fondi per affittargli la villetta ad Hammamet o in California.
(www.maurizioblondet.it, 8 gennaio 2019)
LA CINA, NON SOLO L’IRAN, SOTTO TIRO USA IN MEDIORIENTE
Manlio Dinucci
L’assassinio del generale iraniano Soleimani autorizzato dal presidente Trump ha messo in moto una reazione a catena che si propaga al di là della regione mediorientale. Ciò era nelle intenzioni di chi ha deciso tale atto. Soleimani era da tempo nel mirino Usa, ma i presidenti Bush e Obama non avevano autorizzato la sua uccisione. Perché lo ha fatto il presidente Trump? Vi sono vari motivi, tra cui l’interesse personale del presidente di salvarsi dall’impeachment presentandosi quale strenuo difensore dell’America di fronte a un minaccioso nemico.
Il motivo fondamentale della decisione di assassinare Soleimani, presa nello Stato profondo prima che alla Casa Bianca, va però ricercato in un fattore che è divenuto critico per gli interessi statunitensi solo negli ultimi anni: la crescente presenza economica cinese in Iran.
L’Iran ha un ruolo di primaria importanza nella Nuova Via della Seta varata da Pechino nel 2013, in fase avanzata di realizzazione: essa consiste in una rete viaria e ferroviaria tra la Cina e l’Europa attraverso l’Asia Centrale, il Medio Oriente e la Russia, abbinata a una via marittima attraverso l’Oceano Indiano, il Mar Rosso e il Mediterraneo. Per le infrastrutture viarie, ferroviarie e portuali in oltre 60 paesi sono previsti investimenti per oltre 1.000 miliardi di dollari.
In tale quadro la Cina sta effettuando in Iran investimenti per circa 400 miliardi di dollari: 280 nell’industria petrolifera, gasiera e petrolchimica; 120 nelle infrastrutture dei trasporti, compresi oleodotti e gasdotti. Si prevede che tali investimenti, effettuati in un periodo quinquennale, saranno successivamente rinnovati.
Nel settore energetico la China National Petroleum Corporation, società di proprietà statale, ha ricevuto dal governo iraniano un contratto per lo sviluppo del giacimento offshore di South Pars nel Golfo Persico, la maggiore riserva di gas naturale del mondo. Inoltre, insieme a un’altra società cinese, la Sinopec (per i tre quarti di proprietà statale), è impegnata a sviluppare la produzione dei campi petroliferi di West Karoun.
Sfidando l’embargo Usa, la Cina sta aumentando le importazioni di petrolio iraniano. Ancora più grave per gli Usa è che, in questi e altri accordi commerciali tra Cina e Iran, si prevede un crescente uso del renminbi cinese e di altre valute, escludendo sempre più il dollaro.
Nel settore dei trasporti la Cina ha firmato un contratto per l’elettrificazione di 900 km di linee ferroviarie iraniane, nel quadro di un progetto che prevede l’elettrificazione dell’intera rete entro il 2025, e probabilmente ne firmerà anche uno per una linea ad alta velocità di oltre 400 km. Quelle iraniane sono collegate alla linea ferroviaria di 2.300 km che, già in funzione tra Cina e Iran, riduce i tempi di trasporto delle merci a 15 giorni rispetto ai 45 del trasporto marittimo.
Attraverso Tabriz, grande città industriale dell’Iran nord-occidentale – da cui parte un gasdotto di 2.500 km che arriva ad Ankara in Turchia – le infrastrutture dei trasporti della Nuova Via della Seta potranno raggiungere l’Europa.
Gli accordi tra Cina e Iran non prevedono componenti militari ma, secondo una fonte iraniana, per salvaguardare gli impianti occorreranno fino a 5.000 guardie cinesi, assunte dalle società costruttrici per i servizi di sicurezza. Significativo è anche il fatto che, alla fine di dicembre, si sia svolta nel Golfo di Oman e nell’Oceano Indiano la prima esercitazione navale tra Iran, Cina e Russia.
Su questo sfondo appare chiaro perché a Washington si è deciso l’assassinio di Soleimani: si è volutamente provocata la risposta militare di Teheran per stringere la morsa sull’Iran e poterlo colpire, colpendo in tal modo il progetto cinese della Nuova Via della Seta a cui gli Usa non sono in grado di contrapporsi sul piano economico. La reazione a catena messa in moto dall’assassinio di Soleimani coinvolge quindi anche Cina e Russia, creando una situazione sempre più pericolosa.
(il Manifesto, 9 gennaio 2020)