Minima Cardiniana 235/2

Domenica 24 febbraio 2019 – VII Domenica del Tempo ordinario – Santa Felicita

UN EVENTO SUL PICCOLO SCHERMO

STAT ROSA PRISTINA NOMINE

Torna, quasi un quarantennio dopo (il doppio dei fatidici “Vent’anni dopo” cari ad Alexandre Dumas), il fatidico romanzo di Umberto Eco. Nel 1980, fece sul serio epoca: da allora, è stato tradotto in una quarantina di lingue e ha venduto più di 50 milioni di copie. Se, tuttavia, appena un 10 per cento di chi lo ha comprato lo avesse letto sul serio e avesse cercato di capirlo, lasciatemelo dire, il mondo, oggi, sarebbe diverso. 5 milioni di persone in grado di seguire le vicende del francescano-detective Guglielmo di Baskerville e del novizio Adso da Melk in un’abbazia-biblioteca-labirinto, tra le insidie del Santo Satana benedettino Jorge de Burgos, cieco al pari del suo modello (il grande Borges: il poeta reazionario argentino, che Eco detestava e idolatrava), e del doctor terribilis, l’inquisitore domenicano Bernard Gui, sarebbero state davvero il sale della terra. Non è purtroppo stato così: e, nell’odierna avanzata dell’analfabetismo di ritorno dalla quale l’Occidente odierno è afflitto, i risultati si vedono.

Il libro acquistato, strapremiato, idolatrato e quasi per nulla letto del sulfureo professore alessandrino – da allora divenuto romanziere prolifico – ha fatto davvero strada. Lo abbiamo visto sul grande schermo, con un leggendario Sean Connery (lo 007 per eccellenza: e chi altri sennò?) nel saio bigio di frate Guglielmo; ha dato vita a innumerevoli games informatici e a migliaia di quasi sempre pessime imitazioni; ora lo vedremo sul piccolo schermo, dove è probabile che il pur valente John Turturro ci faccia rimpiangere Connery.

Era, a modo suo e in un certo senso, un fantaromanzo storico, zeppo di testi autenticamente medievali tradotti quasi alla lettera, ricchissimo di dotte e funamboliche citazioni e allusioni, che impietosamente attaccava quella che per lui era la cultura reazionaria del Novecento (il “fascismo eterno”, lo avrebbe più tardi definito) e che al tempo stesso prendeva finemente posizione su un’infinità di problemi storico-filologici relativi all’età nella quale inseriva la sua fabula:un Trecento attraversato da paure apocalittiche e da audaci eresie e storicamente parlando molto più fedele alla storia di quanto parve a molti. Ma per rendersene conto bisognava saperne di cose, su quel tormentato XIV secolo e su quel cattolicissimo professore e polemista ateo innamorato della scolastica. Lo capì bene il medievista Jacques Le Goff, suo grande amico, strapagato e inascoltato consulente della versione cinematografica del 1986, diretta da Jean-Jacques Annaud.

In un duro paesaggio di montagne desolate, un’abbazia arcigna come una fortezza cela al suo interno un torreggiante edificio, un gigantesco pozzo librario a pianta ottagonale evidentemente ispirato al mirabile battistero di Parma e dal labirintico interno a molti piani. Là, si svolge un’intricata storia di assassini e di assassinati, di grotteschi eppur tenerissimi cercatori di Dio e di sapienti spietati teologi, di fraticelli che cedono al fragile richiamo d’amore di ragazzine celate sotto luridi cenci e di ormai anziani religiosi che molto hanno studiato e molto sbagliato, che sanno di aver tradito sé stessi e che sono abilissimi nel decodificare il minimo indizio (“Elementare, Adso…”, ripete fra Guglielmo al suo ingenuo discepolo). Là, si snoda il tragico duello tra chi dai propri errori e dalla lezione della storia ha appreso l’umana pietà e chi cerca nell’Eterno la chiave dell’inflessibile Verità, che ignora il sorriso e condanna il perdono.

Il nome della rosa è un capolavoro fortunatissimo e incompreso: al pari, del resto, del secondo romanzo echiano, Il pendolo di Foucault, o dell’ultimo, Il cimitero di Praga, che, per alquanti versi ne sono la continuazione semiautobiografica. Ma anche lì l’autobiografia, come il diavolo (o come il buon Dio?), sta nei dettagli.