Minima Cardiniana 270/1

Domenica 22 febbraio 2020, San Policarpo
VII Domenica del Tempo Ordinario

EDITORIALE
Tempi eccezionali, come vediamo: si parla di restrizioni nella mobilità, nella vita pubblica, nei servizi… addirittura dell’intervento delle forze armate. Nelle sue ultime sedute, il nostro governo ha smesso di dar l’impressione di essere un tavolo di contrattazione tra gente che pensa solo a come accaparrarsi voti futuri per legittimare la lottizzazione di future poltrone e ha recuperato il linguaggio dei governi-che-governano. Se questo è il prezzo, ebbene sì, viva le emergenze.
E con l’epidemia alle porte, sia o no un vero pericolo (questo lo vedremo), il linguaggio dell’emergenza è doveroso e necessario. È saggio usare la massima prudenza e ricorrere al massimo della disciplina preventiva possibile, nell’interesse di ciascuno di noi stessi e di noi tutti: su ciò, nessun dubbio. Ma attento a te, popolo dei
blogs e dei facebooks: è altrettanto saggio abbandonarsi al pànico, diffondere indiscriminatamente tutti i cries de la rue che càpitano sottomano, come troppi stanno già facendo? Tutto ciò, fra l’altro (potenza dei simboli), si verifica nella settimana del passaggio tra il Carnevale e la Quaresima. Il coronavirus rischia di guastare le feste, da Venezia a Viareggio. Quanto ai credenti, chi può il 26 prossimo faccia un salto in chiesa: sarà il Mercoledì delle Ceneri. Un po’ di meditazione e di umiltà fa bene a tutti.

DI NUOVO L’ANTICA COMPAGNA…
A peste, fame et bello – libera nos domine…
è un verso di un’antica sequenza liturgica, in realtà una litania popolare con cui il buon popolo cristiano pregava il Signore di tener lontani da lui una serie di flagelli, dalle tempeste alle invasioni delle locuste alle incursioni saracene: ma le minacce più orribili erano sempre loro, i “quattro cavalieri dell’Apocalisse”. La guerra, la fame, la peste e infine la morte, esito fatale delle altre tre. In effetti, come ha insegnato anche la storiografia moderna da Michel Mollat a Jean Delumeau, fra esse si stabiliva una tragica concatenazione. Era spesso il passaggio degli eserciti a recare ai popoli dei territori da loro attraversati qualche tragica malattia contagiosa; inoltre i saccheggi e le rapine alle guerre connessi comportavano la fame, e sugli organismi da essa indeboliti s’insediava il morbo. Ma non era nemmeno necessaria la guerra: nella lunga età preindustriale del mondo le carestie erano ricorrenti: e su corpi malnutriti e igienicamente trascurati i germi o i virus prosperavano.
E allora, i millenni passano e, ciclicamente, eccoci di nuovo qua.
Siccome ognuno di noi ha diritto alle sue manìe professionali, lasciate a me che faccio o cerco di fare il professore di storia il diritto di ricordare l’Antica Compagna per eccellenza della nostra civiltà: dai tempi di Pericle, di Giustiniano, del Boccaccio.
Nel 1346 la peste, proveniente dall’Asia centrale – pare dall’area del lago Balkhash –, aveva colpito Tabriz e Astrakan; da quest’ultimo centro, risalendo il Volga e raggiungendo quindi il Don per ridiscendere verso il Mar Nero, arrivò ad invadere la penisola di Crimea. Nel 1347 i mongoli del khanato dell’Orda d’Oro all’attacco della città di Caffa, oggi Feodosija, importante emporio commerciale genovese, gettarono corpi di appestati oltre le mura, inventando senza saperlo la guerra batteriologica. In questo caso, non c’era bisogno che la città fosse invasa dai ratti: bastava che i morti usati come bomba batteriologica fossero abbastanza recenti: difatti la pulce in grado d’inoculare il bacillo non abbandona i cadaveri prima che la loro temperatura corporea sia scesa al di sotto dei 28 gradi. Alla fine di quello stesso anno 1347, la peste aveva raggiunto Messina e poi Marsiglia e Genova, mentre stava infuriando già nell’Isola di Cipro, ad Alessandria e al Cairo; un anno dopo, stava devastando le città interne del mondo mediterraneo e aveva già invaso i porti atlantici francesi, inglesi, danesi. Tutta l’Europa fu praticamente interessata al contagio: dalla penisola iberica all’Inghilterra e dalla penisola scandinava alla Moscovia (per quanto riguarda tutta l’area europea orientale resta il dubbio relativo alle linee seguite dal contagio, se attraverso i grandi fiumi russi oppure risalendo dal Mediterraneo). Fu comunque dal Mar Nero o dai porti del Mediterraneo settentrionale che la peste arrivò al delta del Nilo da dove risalì il fiume verso sud, mentre si estese anche in Siria e in Palestina. Si calcola che le regioni interessate dal contagio persero circa dalla metà ai due terzi dei loro abitanti. Fra 1351 e 1354 venne infine colpita la Cina: anche in quel caso resta dubbio se l’epidemia sia stata trasmessa direttamente dall’Asia centrale o sia arrivata fin là dal Mar Nero oppure dalla Siria lungo la Via della Seta. La peste in Cina fu comunque violentissima, probabilmente soprattutto data la densità demografica di quel paese.
Non tutta l’Europa venne comunque devastata dal morbo. Aree anche ampie ne restarono immuni: l’Alvernia in Francia, l’Italia settentrionale, la Fiandra, la Franconia, l’Europa centrale. Si è osservato che esse coincidevano con regioni mancanti del “sostrato murino”, nelle quali cioè non era diffuso il cosiddetto “topo nero”, il Rattus rattus, o topo di città, che ama i granai e i solai, le zone tiepide e secche, ma accetta volentieri di venir ospitato anche a bordo delle navi ed è considerato l’ospite per eccellenza della pulce portatrice del bacillo pestoso, la Xenopsylla cheopis, ma non sempre e non chiaramente distinguibile dal Rattus norvegicus Berkenhout, il “topo grigio”, o topo di campagna che a partire dal XVIII secolo sembra averlo soppiantato e ch’è portatore di un altro tipo di pulce, il Ceratophyllus fasciatus. Non mancano tuttavia altre spiegazioni: si è proposto che l’immunità di quelle aree sia dipesa dal fatto che in esse abbondavano gli esseri umani portatori di sangue di tipo B e di fattore Rh negativo, molto diffuso specialmente in Ungheria, mentre il sangue di tipo 0 sarebbe quello più vulnerabile da parte del bacillo della peste; le ipotesi relative all’isolamento geografico o alla minore densità demografica sono ancor meno convincenti.
Parlare di una speciale epidemia, la cosiddetta “Morte Nera” che infuriò in tutto il macrocontinente asiatico tra 1346 e 1352 richiamerà senza dubbio in molti anzitutto la memoria di un grande capolavoro della letteratura italiana: il Decameron di Giovanni Boccaccio. Quel flagello, placandosi nel biennio ’51-’52, lasciò dietro di sé una terribile scia di conseguenze immediate e remote e continuò a circolare nella medesima area, in forma endemica, riproponendosi con drammatici ritorni periodici del picco epidemico almeno fino alla pandemia del 1630, quella descritta appunto dal Manzoni. Ma in aree ristrette sopravvisse anche a tale data, ripresentandosi crudelmente in Italia tra 1656 e 1657 e in Inghilterra un decennio più tardi. È stato calcolato che tra la pandemia avviatasi nel 1346 e la peste del 1656-57 il morbo si ripresentò, nella sola Italia, per ben 27 volte successive. Per il Mediterraneo della seconda metà del Cinquecento, Fernand Braudel ha potuto parlare della peste come di una “struttura del secolo”.
A partire dall’ultimo quarto del Seicento, tuttavia, il contagio cominciò a perder anche la residua forza. Si ripresentò a Bari nel 1690-92, sferrò un ultimo duro assalto epidemico a Marsiglia nel 1720 (se ci passate, non mancate una visita al magnifico lazzaretto), ricomparve a Messina nel 1743, poi in forma blanda di nuovo a Marsiglia nel 1720 e nel 1786, quindi a Noja e a Venezia nel 1815-16; casi isolati si verificarono a Parigi nel 1920, nell’ambiente degli straccivendoli o, come diciamo noialtri a Prato (Malaparte insegna) dei cenciaioli; alcuni episodi furono riscontrati ancora in Italia meridionale nel 1945; attualmente essa è ancora endemica in Asia centrale.
La parola, “peste”, è paurosa e terribile: ma il suo impiego nella storia è stato generico, a indicare un’ampia gamma di flagelli a carattere epidemico. I nostri padri definivano con termini come l’ebraico deber, il greco loimòs e il latino pestis affezioni contagiose di tipo diverso come le epidemie di tifo esantematico e il vaiolo: con le quali il pur temibile bacillo della Pasteurella pestis, scoperto da Alexandre Émile Jean Yersin durante l’epidemia di Hong-Kong nel 1894 e chiamato per questo anche Yersinia, non ha nulla a che vedere.
Nella storia generale dell’umanità, si è usi ricordare come “pesti” alcuni grandi flagelli d’origine in realtà eterogenea: dalle “pestilenze” ricordate dalla Bibbia a proposito delle “piaghe d’Egitto” o dell’epidemia che decimò l’esercito dei filistei dopo che essi si furono impadroniti dell’Arca dell’Alleanza fino alla grande “peste” di Atene del 429 a.C., descritta da Tucidide, e ancora alla “peste” di Roma del 66 d.C. di cui ci ha parlato Tacito, a quella scoppiata nel II secolo d.C. dinanzi alla quale fuggì anche il grande medico Galeno, sino alla “peste di Giustiniano” sulla quale c’informa Procopio da Cesarea relativamente all’anno 542, quand’essa giunse a Costantinopoli, a quella del 1347-50 da cui parte appunto il Decameron del Boccaccio fino a quella del 1630,della quale com’è noto diffusamente tratta il Manzoni nel saggio storico su La colonna infame, oltre che – naturalmente – ne I promessi sposi. Nei casi descritti da Tucidide e da Galeno si tende oggi a ritenere che si trattasse piuttosto di epidemie di vaiolo.
Noi diciamo dunque “peste”, “pestilenza”: ma sono termini vaghi, imprecisi. Tra la peste polmonare, quella setticemica e quella ghiandolare, la “bubbonica”, caratterizzata dai linfonodi ingrossati e dolenti, c’è per esempio una bella differenza. Si tratta di affezioni del tutto diverse; il che non vuol dire che non possano presentarsi assieme, come difatti accadde nell’epidemia del 1347-50: la peste bubbonica viene inoculata attraverso il morso della pulce che è portatrice del relativo bacillo, quella polmonare si trasmette da uomo a uomo.
Insomma, si fa presto a dire peste…
Le malattie contagiose sono antichissime compagne dell’uomo. Ma, se rapida è stata l’intuizione del loro travolgente e tempestoso diffondersi, tardiva viceversa è stata l’elaborazione d’ipotesi sulle loro cause e sulla presenza di agenti patogeni del loro diffondersi. Comune era la sensazione che fosse “l’aria” a trasmetterle e che particolari condizioni di temperatura atmosferica (il “freddo”, il “caldo”) le favorissero.
Il fatto è che, in effetti, come il clima è dominato da una “sinusoide” che grosso modo ogni 500 anni consente il passaggio da una fase di calore più alto possibile (un optimum, come con un certo eufemismo ottimistico si ama dire) a una di massimo raffreddamento (un pessimum), così le grandi epidemie sembrano seguire analoga alternanza. È stato notato ad esempio che quelle in età storica qualificata come “pestilenze” (che non sempre sono però vera e propria “peste”, bubbonico o polmonare che sia) si presentano di solito sì nei mesi estivi, ma durante i periodi di generale peggioramento climatico: cioè ogni millennio circa, a ciascun ritorno del livello del pessimum.
La nostra tradizione c’induce ancora a pensare alla peste quando si tratti di una terribile malattia epidemica e della forza irresistibile del contagio. Ma, come si diceva, il pur temibile bacillo della Pasteurella pestis non ha nulla a che vedere con infinite altre affezioni non meno funeste che si sono abbattute sull’umanità in tempi moderni: o che soltanto allora sono state riconosciute come tali: il colera, il tifo, il vaiolo, la cosiddetta “spagnola”. L’assuefazione o meno poteva essere determinante: ci si “vaccinava” ammalandosi e guarendo, mentre chi non aveva passato tale trafila non ce la faceva. Nell’America latina del Cinquecento una malattia contagiosa tanto poco mortale come il morbillo, che appunto colpiva i bambini e di solito passava (morbillus: “piccolo morbo”), era tollerata con tranquillità dagli spagnoli – che ne erano appunto “portatori sani” –, ma faceva strage tra gli indios. E non parliamo delle coperte infettate dal vaiolo che il governo statunitense faceva distribuire, insieme con generose partite di pessimo whisky, alle tribù dei native Americans che facevano l’errore di fidarsi di lui (come dice in una sua canzone Fabrizio de André ricordando quei vecchi genocidi che sono stati perdonati anzi dimenticati d’ufficio, e dei quali è maleducato parlare, “e al Dio degli inglesi non credere mai”: dove inglese sta, ovviamente, per yankees).
Le capacità di nuocere di queste affezioni, o quella degli esseri umani di resistere o meno ai loro effetti, sono commisurate a differenti fattori: primi fra i quali le difese fisiologiche interne alle strutture fisiche di ciascun individuo, che possono essere valorizzate o compromesse da molteplici fattori esterni: l’età, la salute, le generali condizioni di vita e d’igiene, i livelli di maggiore o minore densità demografica nei quali ciascuno di noi vive; e ovviamente anche i fattori socioeconomici, nel senso che in linea di massima un ricco può alimentarsi meglio e scegliere di vivere in ambienti più salubri mentre un povero dispone ovviamente di minori risorse. Si dice che la morte è uguale per tutti, ed è certo vero che si tratta di un destino comune: ma, così come si vive, càpita anche di morire peggio o meglio.
Quel che comunque colpisce quando una società è colpita da una malattia epidemica, in qualunque società e in qualunque tempo, è il suo caratteristico iter. Il contagio si manifesta sulla prima in maniera incerta e sporadica, e si tende a sottovalutarlo o a negarlo. Poi, mano a mano che si diffonde, si genera nelle aree limitrofe ai luoghi dove si presenta un’ansia sempre maggiore, che può giungere a livelli d’isteria collettiva. In questi casi succede di tutto: gli ammalati vengono fuggiti e lasciati senza cure oppure fatti segno di violenze in quanto ritenuti responsabili della loro affezione; si passa poi facilmente a teorie più o meno complottistiche (gli “untori”, le streghe o i malfattori assoldati da potenze nemiche i quali “ungono le porte” o “avvelenano i pozzi” eccetera): e nascono molte leggende, le quali magari poi si folklorizzano. L’esperienza – empirica prima, scientifica poi (in Europa dal XVIII secolo) – insegna a difendersi: e allora alla farmacopea tradizionale fatta di solito di unguenti e polveri “odorose” atte a “purificare l’aria” succedono i fàrmaci efficaci. Teoria scientifica, ricerca clinica ed esperienza, alleati, finiscono col battere il contagio: anche se con inevitabili danni.
E i risultati? Sulle prime il contagio ha effetti deleteri sia civili sia socioeconomici; poi s’impara a sfruttarlo, spesso anche disonestamente (i sani rapinano gli ammalati, i superstiti s’impadroniscono delle ricchezze e delle eredità dei defunti); infine, magari nelle “medie” o “corte” durate, affiorano anche i lati positivi di tipo strutturale: dalle epidemie si esce immunizzati e irrobustiti, i vuoti lasciati nelle società dai decessi procurano nuovi lavori e abbassano i costi di certi beni specie immobili procurando ricchezza, la terra lasciata riposare a causa della rarefazione degli agricoltori torna a produrre in modo ferace. Insomma, come al solito, non sempre e non tutto il male viene per nuocere. La ricetta, in fondo, è sempre la stessa: se si è sani, cercar di evitare le occasioni di probabile contagio; se si è ammalati, far di tutto per guarire. Come al solito, il pericolo maggiore e il danno peggiore è la perdita di lucidità mentale, di razionalità, di coraggio, di speranza. Tutto passa. Vedrete che passerà anche il coronavirus, pur ammesso che davvero sia la peste del XXI secolo. Ricordate la SARS? Pareva la fine del mondo, ma si rivelò poco più che un’influenza.
Chi vuol saperne di più, ricorra al lungo saggio di Bernardino Fantini edito in “L’Idomeneo”, n. 17 (2014), pp. 9-42.