Domenica 22 febbraio 2020, San Policarpo
VII Domenica del Tempo Ordinario
ANCORA GLI AMERIKANI
Da tempo Manlio Dinucci ci ha abituato alle sue cronache sul tramonto dell’impero americano e sulla sua senile isterìa militare. Convinti come siamo (è una realtà fisica) che gutta cavat lapidem, continuiamo imperterriti a predicare, voce clamantes in deserto, che fare il mestiere degli ascari e dei collaborazionisti degli USA e della NATO è criminale ancor prima di essere idiota; che da Conte a Renzi (non parliamo di Berlusconi, di Di Maio, di Salvini e purtroppo anche di Giorgia Meloni – e di lei mi dispiace –, che ormai sembrano aver fatto una definitiva scelta di campo) i leaders politici debbono convincersi che non si può far la politica dello struzzo su questo punto e parlar sempre d’altro; che qualunque forma di sovranismo è vana e ridicola se non comincia dall’istanza del recupero della sovranità in politica estera e militare.
Diciamo la verità: e parliamoci chiaro una volta per tutte. Viviamo – come europei in generale, come italiani in particolare – in un paese privo di sovranità, assediato, occupato e controllato (Ghedi, la Dal Molin, Camp Darby…): anche se, per il momento, i poveri untorelli refrattari come noi li lasciano parlare, o non hanno ancora deciso se e come tappar loro la bocca. Ma non illudiamoci. Nella lista ci siamo.
E allora, tanto vale: o si chiede scusa e si dichiara che abbiamo scherzato, o si va avanti. Scegliamo l’ipotesi B: compagno Dinucci, sotto col tormentone. È un bell’esercizio artigiano, se si vuole una bella tecnica di precisione, cacciar le pulci nelle orecchie della gente…
Danno per danno e malanno per malanno, sentiamo un po’ al riguardo perfino il famigerato Thierry Meyssan.
Intendiamoci: prendo atto di quanto dice Dinucci e invito a riflettere sui dati che fornisce, anche se non dico che abbia ragione su tutto e che i suoi giudizi siano oro colato. Quanto a Meyssan, spero proprio che sbagli molti calcoli e molte previsioni: ma purtroppo non dispongo al momento attuale né di mezzi, né di argomenti atti a smentirlo. E poi, se non altro, la sua sguaiata campana è pur sempre una voce fuori dal coro. Un coro belante, insopportabile, stonato e fastidioso.
MANLIO DINUCCI
IL FUTURO DELL’AMERICA SEMPRE PIÙ ARMATO
Il “Budget per il futuro dell’America”, presentato dal Governo Usa, mostra quali sono le priorità dell’Amministrazione Trump nel bilancio federale per l’anno fiscale 2021 (che inizia il 1° ottobre di quest’anno).
Anzitutto ridurre le spese sociali: ad esempio, essa taglia del 10% lo stanziamento richiesto per il Dipartimento della Sanità e dei Servizi Umanitari. Mentre le stesse autorità sanitarie comunicano che la sola influenza ha provocato negli Usa, da ottobre a febbraio, circa 10.000 morti accertati su una popolazione di 330 milioni.
Notizia taciuta dai grandi media, i quali lanciano invece l’allarme globale per i 1.770 morti a causa del coronavirus in Cina, paese con 1,4 miliardi di abitanti. Non può non venire il sospetto sulle reali finalità della martellante campagna mediatica, la quale semina terrore su tutto ciò che è cinese, quando, nella motivazione del Budget Usa, si legge che “l’America ha di fronte la sfida proveniente da risorgenti Stati nazionali rivali, in particolare Cina e Russia”.
La Cina viene accusata di “condurre una guerra economica con cyber armi contro gli Stati Uniti e i loro alleati” e di “voler plasmare a propria somiglianza la regione Indo-Pacifica, critica per la sicurezza e gli interessi economici Usa”.
Perché “la regione sia libera dalla malefica influenza cinese”, il Governo Usa finanzia con 30 milioni di dollari il “Centro di impegno globale per contrastare la propaganda e disinformazione della Cina”.
Nel quadro di “una crescente competizione strategica”, il Governo Usa dichiara che “il Budget dà la priorità al finanziamento di programmi che accrescano il nostro vantaggio bellico contro la Cina, la Russia e tutti gli altri avversari”. A tal fine il presidente Trump annuncia che, “per garantire la sicurezza interna e promuovere gli interessi Usa all’estero, il mio Budget richiede 740,5 miliardi di dollari per la Difesa nazionale” (mentre ne richiede 94,5 per il Dipartimento della Sanità e dei Servizi Umanitari).
Lo stanziamento militare comprende 69 miliardi di dollari per le operazioni belliche oltremare, oltre 19 miliardi per 10 navi da guerra e 15 miliardi per 115 caccia F-35 e altri aerei, 11 miliardi per potenziare gli armamenti terrestri. Per i programmi scientifici e tecnologici del Pentagono vengono richiesti 14 miliardi di dollari, destinati allo sviluppo di armi ipersoniche e a energia diretta, di sistemi spaziali e di reti 5G.
Queste sono solo alcune voci di una lunga lista della spesa (con denaro pubblico), che comprende tutti i più avanzati sistemi d’arma, con colossali profitti per la Lockheed Martin e le altre industrie belliche.
Al budget del Pentagono si aggiungono diverse spese di carattere militare iscritte nei bilanci di altri dipartimenti. Nell’anno fiscale 2021, il Dipartimento dell’Energia riceverà 27 miliardi di dollari per mantenere e ammodernare l’arsenale nucleare. Il Dipartimento per la sicurezza della patria ne avrà 52 anche per il proprio servizio segreto. Il Dipartimento per gli affari dei veterani riceverà 243 miliardi (il 10% in più rispetto al 2020) per i militari a riposo.
Tenendo conto di queste e altre voci, la spesa militare degli Stati Uniti supererà, nell’anno fiscale 2021, 1.000 miliardi di dollari. La spesa militare degli Stati Uniti esercita un effetto trainante su quelle degli altri paesi, che restano però a livelli molto più bassi. Anche tenendo conto del solo budget del Pentagono, la spesa militare degli Stati uniti è 3/4 volte superiore a quella della Cina e oltre 10 volte superiore a quella della Russia.
In tal modo “il Budget assicura il dominio militare Usa in tutti i settori bellici: aereo, terrestre, marittimo, spaziale e cyber-spaziale”, dichiara la Casa Bianca, annunciando che gli Stati uniti saranno tra non molto in grado di produrre in due impianti 80 nuove testate nucleari all’anno. “Il futuro dell’America” può significare la fine del mondo.
(il manifesto, 18 febbraio 2020).
THIERRY MEYSSAN
NATO GO HOME
Da due decenni le truppe statunitensi dettano legge nel Medio Oriente Allargato. Interi Paesi sono privi di uno Stato che li difenda. Popolazioni intere sono assoggettate alla dittatura degli islamisti. Vengono perpetrate uccisioni di massa. Si provocano carestie. Il presidente Donald Trump ha imposto il rimpatrio dei propri soldati, ma il Pentagono non desiste, vuole proseguire l’opera con soldati della NATO.
Il presidente Trump dedicherà l’ultimo anno di mandato a riportare a casa i boys. Le truppe di stanza nel Medio Oriente Allargato e in Africa dovranno ritirarsi, ma questo non significherà la fine del dominio USA su queste regioni. Anzi, accadrà il contrario.
La strategia del Pentagono
Dal 2001 gli Stati Uniti hanno adottato in segreto la strategia formulata da Donald Rumsfeld e dall’ammiraglio Arthur Cebrowsky – ed è questa una delle principali ragioni degli attentati dell’11 Settembre. Strategia menzionata due giorni dopo gli attentati dal colonnello Ralph Peters sulla rivista dell’esercito, nonché confermata cinque anni più tardi dalla pubblicazione della mappa del nuovo Medio Oriente dello stato-maggiore. Thomas Barnett, assistente dell’ammiraglio Cebrowski, l’ha dettagliata in un libro destinato al grande pubblico, The Pentagon’s New Map (“La nuova mappa del Pentagono”).
Il piano consiste nell’adattare le missioni delle forze armate USA a una nuova forma di capitalismo, dove la Finanza ha il primato sull’Economia. Il mondo deve essere diviso in due. Da un lato gli Stati stabili, integrati nella globalizzazione (requisito che possiedono anche Russia e Cina); dall’altro una vasta zona di sfruttamento delle materie prime. Per questo motivo, conviene indebolire notevolmente – in linea ideale annientare – le strutture statali dei Paesi della zona e impedire con ogni mezzo che risorgano. Un “caos distruttore” – secondo l’espressione di Condoleeza Rice – che non deve essere scambiato con l’omonimo concetto rabbinico, benché i partigiani della teopolitica abbiano cercato in tutti i modi di seminare confusione. Non si tratta di distruggere un ordine cattivo per costruirne un altro migliore, bensì di distruggere ogni forma di organizzazione per impedire qualunque resistenza e permettere ai transnazionali di sfruttare la zona senza intralci politici: un progetto coloniale nel senso anglosassone del termine (da non confondere con una colonizzazione di popolamento).
Iniziando ad attuare la strategia Rumsfeld/Cebrowski, il presidente George Bush figlio parlò di “guerra senza fine”: non si tratta più di vincere guerre e sconfiggere avversari, bensì di far durare i conflitti il più a lungo possibile. Una guerra lunga “un secolo”, disse Bush. È stata, nei fatti, la strategia applicata in Medio Oriente Allargato, una zona che si estende dal Pakistan al Marocco e copre l’intero teatro operativo del CentCom nonché la parte settentrionale di quello dell’AfriCom. In passato i GI’s garantivano agli Stati Uniti l’accesso al petrolio del Golfo Persico (dottrina Carter). Ora i soldati statunitensi sono presenti in una zona quattro volte più vasta, con l’obiettivo di distruggere qualsiasi forma d’ordine. Le strutture statali dell’Afghanistan (dal 2001), dell’Iraq (dal 2003), della Libia (dal 2011), della Siria (dal 2012) e dello Yemen (dal 2015) non sono più in grado di difendere le popolazioni. Contrariamente alla versione ufficiale, lo scopo non era rovesciare governi, ma distruggere Stati e impedirne la ricostruzione. Un esempio per tutti: la situazione delle popolazioni dell’Afghanistan non è migliorata con la caduta dei talebani, avvenuta 19 anni fa, anzi peggiora di giorno in giorno. Il solo controesempio potrebbe essere la Siria che, fedele alla propria tradizione storica, nonostante la guerra ha conservato uno Stato, assorbito i colpi e, sebbene in rovina, superato la tempesta.
Si noti, en passant, che il Pentagono non ha mai considerato Israele uno Stato medio-orientale, bensì europeo. Lo sconvolgimento non investe perciò Tel Aviv.
Nel 2001 il colonnello Ralph Peters assicurava, entusiasta, che la pulizia etnica “funziona!” (sic), peccato però che le leggi della guerra impediscano agli Stati Uniti di praticarla. Ed ecco la trasformazione di Al Qaeda e la creazione di Daesh, organismi che compirono per procura quanto il Pentagono auspicava ma che non poteva intraprendere alla luce del sole.
Per capire bene la strategia Rumsfeld/Cebrowski è opportuno distinguerla dall’operazione “Primavere arabe”, concepita dai britannici sul modello della Grande Rivolta Araba: issare al potere la Confraternita dei Fratelli Musulmani, come fece Lawrence d’Arabia nel 1915 con i Wahhabiti.
In generale, gli occidentali non hanno una visione del Medio Oriente Allargato come regione geografica. Conoscono soltanto alcuni Paesi e li percepiscono isolati gli uni dagli altri. Si convincono così che i tragici avvenimenti che le popolazioni vi patiscono siano determinati da ragioni particolari: qui una guerra civile, là il rovesciamento di un dittatore sanguinario. L’Occidente ha per ciascun paese una storia plausibile che spiega le ragioni del dramma, ma non ne ha mai una che chiarisca perché non si faccia finire la guerra e, soprattutto, non vuole che lo s’interroghi sull’argomento. Gli occidentali denunciano ogni volta “la negligenza degli americani”, incapaci di far finire una guerra, e si dimenticano che, dopo la seconda guerra mondiale, furono in grado di ricostruire Germania e Giappone. Si rifiutano di prendere atto che da due decenni gli Stati Uniti perseguono un piano annunciato da tempo, al prezzo di milioni di morti. Perciò gli occidentali non si percepiscono mai come corresponsabili di questi massacri.
Gli Stati Uniti stessi davanti ai loro concittadini negano di perseguire una tale strategia. Difatti, l’ispettore generale incaricato d’indagare sulla situazione in Afghanistan ha redatto un rapporto in cui si duole delle innumerevoli occasioni che il Pentagono si è lasciato sfuggire per portare la pace, non rendendosi conto che è precisamente la pace che il Pentagono vuole evitare.
L’intervento russo
Per polverizzare tutti gli stati del Medio Oriente Allargato, il Pentagono ha organizzato un’assurda guerra civile regionale, come già aveva fatto con l’insensata guerra tra Iraq e Iran (1980-1988). Allora però il presidente Saddam Hussein e l’ayatollah Khomeini si resero conto che iracheni e iraniani si stavano ammazzando per nulla e, a dispetto degli occidentali, fecero la pace.
Oggi lo strumento è il contrasto tra sunniti e sciiti: da un lato Arabia Saudita e alleati, dall’altro Iran e associati. Poco importa che durante la guerra di Bosnia-Erzegovina (1992-1995) l’Arabia Saudita wahhabita e l’Iran khomeinista abbiano combattuto insieme sotto il comando della NATO, o che numerose truppe dell’Asse della Resistenza non siano sciite (100% della jihad islamica palestinese, 70% dei libanesi, 90% dei siriani, 35% degli iracheni, 5% degli iraniani).
Nessuno sa perché questi due campi si combattano; quel che conta è che si dissanguino vicendevolmente.
Comunque sia, nel 2014 il Pentagono, conformemente alla mappa dei propri obiettivi, si apprestava a far riconoscere due nuovi Stati: il Kurdistan Libero (fusione del Rojava siriano e del Governatorato kurdo d’Iraq, cui si sarebbero poi aggiunti parte dell’Iran e tutta la zona orientale della Turchia) e il Sunnistan (formato dalla parte sunnita dell’Iraq e dall’est della Siria). Distruggendo quattro Stati, il Pentagono avrebbe aperto la strada a una reazione a catena che avrebbe dovuto di rimbalzo distruggere l’intera regione.
La Russia intervenne perciò militarmente per fare rispettare i confini della seconda guerra mondiale. Ovviamente, le frontiere frutto degli accordi Sykes-Picot-Sazonov del 1915 sono arbitrarie e talora difficili da accettare, ma modificarle con il sangue è ancora meno ammissibile.
Il Pentagono ha sempre finto di ignorare quanto fosse in gioco, sia perché non assume ufficialmente la strategia Rumsfeld/Cebrowski, sia perché ritiene l’adesione della Crimea alla Federazione Russa un colpo di mano.
La mutazione dei partigiani della strategia Rumsfeld/Cebrowski
Dopo due anni di lotta accanita al presidente Trump, gli ufficiali generali del Pentagono – pressoché tutti formati personalmente dall’ammiraglio Cebrowski – gli si sono sottomessi con riserva. Hanno accettato: – di non istituire uno Stato terrorista (il Sunnistan o Califfato); – di non modificare i confini con la forza; – di ritirare le truppe USA dai campi di battaglia del Medio Oriente Allargato e dell’Africa. In cambio hanno ordinato al fedele procuratore Robert Mueller, che già utilizzarono contro il Panama (1987-89), la Libia (1988-92) e per gli attentati dell’11 Settembre (2001), di insabbiare l’inchiesta sul Russiagate.
Da allora l’ingranaggio ha funzionato alla perfezione.
Il 27 ottobre 2019 il presidente Trump ha ordinato l’esecuzione del califfo Abou Bakr al-Baghdadi, principale figura militare del campo sunnita. Due mesi dopo, il 3 gennaio 2020, ha ordinato l’uccisione del generale iraniano Qassem Soleimani, figura di maggiore spicco dell’Asse della Resistenza.
Avendo così dimostrato che il presidente Trump, eliminando le personalità-simbolo dei due campi e rivendicando la paternità delle azioni senza incorrere in reazioni significative, continuava a condurre il gioco, il 19 gennaio, al Cairo, il segretario di Stato Mike Pompeo ha svelato lo strumento risolutivo: la prosecuzione della strategia Rumsfeld/Cebrowski non più con le forze armate USA, ma con quelle della NATO, allargate a Israele e Paesi arabi.
Il 1° febbraio la Turchia ufficializzava la rottura con la Russia assassinando a Idlib quattro ufficiali dell’FSB. Il presidente Erdogan è poi andato in Ucraina, dove ha scandito il motto dei Banderisti (i legionari ucraini del III Reich che si battevano contro i sovietici) insieme alla Guardia Nazionale dell’Ucraina e ha ricevuto il capo della Brigata Islamista Internazionale (i tatari anti-russi), Mustafa Djemilev (detto Mustafa Kırımoğlu).
Il 12 e il 13 febbraio i ministri della Difesa dell’Alleanza Atlantica hanno preso atto del ritiro ineluttabile delle forze USA e della prossima dissoluzione della Coalizione Internazionale contro Daesh. Pur sottolineando che non avrebbero dispiegato truppe combattenti, hanno deciso di inviare soldati per addestrare gli eserciti arabi, ossia per supervisionare i combattimenti sul campo.
Gli istruttori della NATO saranno dispiegati prioritariamente in Tunisia, Egitto, Giordania e Iraq.
In tal modo la Libia sarà accerchiata a oriente e occidente. I due governi rivali di Fayez al-Sarraj – sostenuto da Turchia e Qatar, nonché da 5 mila jihadisti arrivati dalla Siria attraverso la Tunisia – e del maresciallo Khalifa Haftar – sostenuto da Egitto ed Emirati – potranno perpetuare il reciproco massacro. La Germania, felice di ricoprire il ruolo internazionale di cui è stata privata dopo la seconda guerra mondiale, farà la mosca cocchiera dissertando sulla pace per sovrastare i gemiti degli agonizzanti. La Siria sarà accerchiata da ogni parte. Israele è già di fatto membro dell’Alleanza Atlantica e bombarda chi e quanto vuole. La Giordania è già il “migliore partner mondiale” della NATO. Il 14 gennaio Re Abdallah II si è intrattenuto a lungo a Bruxelles con il segretario della NATO Jens Stoltenberg e ha partecipato a una seduta del Consiglio Atlantico. Israele e Giordania hanno già un ufficio permanente nella sede dell’Alleanza. Anche l’Iraq beneficerà di istruttori NATO, benché il parlamento abbia votato il ritiro delle truppe straniere. La Turchia è già membro dell’Alleanza e controlla il Nord del Libano grazie alla Jamaa Islamiya. Insieme, potranno fare applicare la legge statunitense “Caesar”, che vieta a qualsivoglia impresa, di qualunque provenienza, di partecipare alla ricostruzione del Paese.
Così il saccheggio del Medio Oriente Allargato, iniziato nel 2001, andrà avanti. Le popolazioni martiri della regione, il cui solo torto è essersi divise, continueranno a soffrire e morire in massa. Gli Stati Uniti terranno a casa al calduccio i loro soldati, preservando la propria innocenza; gli europei invece dovranno assumersi la responsabilità dei crimini dei generali USA.
Secondo il presidente Trump l’Alleanza potrebbe cambiare denominazione e diventare la NATO-Medio Oriente (NATO-MO/NATO-ME). La sua funzione anti-Russia passerebbe in secondo piano, a profitto della strategia di distruzione della zona non-globalizzata.
Resta da vedere come Russia e Cina reagiranno a questa redistribuzione delle carte. La Cina ha bisogno per il proprio sviluppo dell’accesso alle materie prime del Medio Oriente. Dovrebbe quindi opporsi al dominio occidentale, benché abbia una preparazione militare ancora incompleta. La Russia e il suo immenso territorio sono autosufficienti. Mosca non ha motivazioni materiali per battersi. I russi potrebbero essere addirittura alleggeriti dal nuovo orientamento della NATO. È però probabile che, per ragioni morali, non abbandoneranno la Siria e forse sosterranno altri popoli del Medio Oriente Allargato.
(www.voltairenet.org, 18 febbraio 2020, traduzione di Rachele Marmetti)