Minima Cardiniana 271/1

Domenica 1 marzo 2020, I Domenica di Quaresima

EDITORIALE
DE OMNIBUS REBUS ET DE QUIBUSDAM ALIIS
Ci sono, nella storia di tutti noi e in quella comunitaria, e anche nella storia dei giornali e dei blogs, momenti più e momenti meno densi. In questo momento siamo a un punto nodale: uno di quelli in cui, avrebbe detto Fernand Braudel, l’emergenza si scontra con la “media” o la “lunga” durata.
Il Coronavirus continua a imperversare o forse no, e ci troviamo immersi nell’incertezza e nella malainformazione: troppi i politici che vi vedono non già un problema nazionale e internazionale da gestire con prudenza, bensì un’occasione per accaparrar nuovi voti o un pericolo di perderne.
Il fronte vicino-orientale ricomincia a farsi caldo, con aberrazioni e menzogne intollerabili. Alcuni soldati turchi sono caduti in battaglia: sono appunto dei caduti, e a loro spetta l’onore e il rispetto di tutti. Non sono delle vittime: e i siriani che hanno sparato su di loro sono a loro volta dei combattenti. Non è lecito sostenere che i militari turchi siano stati “uccisi”, sottintendendo quasi che fossero lì per caso e a buon diritto. Appartenevano a un esercito invasore in suolo siriano, e i loro nemici stavano facendo il loro dovere e difendendo la loro terra. Quanto ai poveri profughi, essi non fuggono “dalla dittatura di Assad”, come hanno sostenuto alcuni disonesti e alcuni imbecilli. Vanno accolti e assistiti, non debbono diventare oggetto di ricatti come invece il governo turco minaccia di aver intenzione di fare.
Infine, oportet ut scandala eveniant. Non si creda che noialtri stiamo sottovalutando quando accaduto alcuni giorni fa in una scuola di Civitanova Marche. Non siano affatto in presenza di una semplice baruffa politica di provincia: qui è in gioco uno degli infiniti “casi” che formano l’allarmante mosaico della crisi dell’intelligenza e della libertà. Non basta parlare di “intolleranza”: c’è qualcosa di più grave, di più malato, di più marcio, di più ottuso. C’è l’incapacità di comprendere le ragioni dell’Altro, l’insofferenza di chi sentendosi minacciato da argomenti migliori dei suoi ricorre all’arma dell’intimidazione, di chi preferisce urlare slogan e pretendere che le sue ragioni siano riconosciute senza la verifica di un dibattito anziché accettare un franco confronto. Non è la prepotenza, in questi casi, a sorprendere: è l’ottusità a far cadere le braccia.
Noi qui ricostruiremo fedelmente, in questo numero e se è necessario nei prossimi, l’increscioso incidente di Civitanova e le sue conseguenze. Proporremo un franco e leale dibattito; se non sarà accettato, denunzieremo la defezione di chi si sarà dimostrato incapace di ragionare e difendere il suo punto di vista con argomentazioni chiare e pacate.
Sono abbastanza vecchio per conoscere chi ha vissuto da protagonista il dramma della guerra civile italiana del ’43-’45, combattuta da un pugno di militanti dell’una e dell’altra parte (o delle molte parti che in qualche modo si erano collegate o affrontate fra loro) mentre la maggioranza degli italiani stava dubbiosa a guardare e a capire da che parte convenisse schierarsi all’ultimo istante per correre in aiuto del vincitore. Queste cose le ho vissute sulla pelle della mia famiglia, che a suo tempo si era spaccata in due. Ma ho vissuto anche la sincera speranza e la coraggiosa buona volontà di molti che, dall’una e dall’altra parte (o dalle une e dalle altre parti, fatte spesso di semialleati), esprimevano un franco desiderio di reciproca comprensione e di riconciliazione. Ho sentito con le mie orecchie il professor Carlo Francovich, presidente “storico” del Comitato di Liberazione Nazionale della Toscana, dichiarare che dall’altra parte, “insieme con la feccia dei criminali e alla schiuma dei fanatici, c’erano tante persone in buona fede convinte di fare il proprio dovere”; ero presente nel 1962 a una dichiarazione di Giorgio Almirante, in un teatro fiorentino, quando egli ebbe a testimoniare (e ne avrebbe anche scritto) che in quei convulsi giorni di metà settembre del ’43 “alcuni di noi si erano trovati quasi per caso nell’esercito di Badoglio, o in quello di Graziani, o spinti in montagna, e nessuno di noi sapeva bene che cosa fare, e tutti avevamo solo un maledetto desiderio di tornare a casa”; ricordo bene le nobili parole di Luciano Violante quando in parlamento perorò la causa di un’autentica riconciliazione nazionale, riconoscendo pari dignità a quanti – lontano dai crimini, dal fanatismo e dal tornaconto personale – avevano combattuto chi per la “libertà”, chi per “l’onore”, tutti comunque per l’Italia; rammento Umberto Eco, che ricordava con affetto commosso i partigiani delle Langhe eppure parlava anche di “quei bravi ragazzi della San Marco”. E so bene, sappiamo tutti bene, che anche tra i partigiani e tra quelli della San Marco c’erano gli assassini e i mestatori: ma, come sempre, un grammo di bene vale molto di più di una tonnellata di male. Dissero le stesse cose, in tempi e modi diversi, Cesare Pavese e Carlo Mazzantini.
All’inizio degli Anni Sessanta ogni tanto ci scazzottavamo, noialtri – io militavo allora nel MSI – e i nostri coetanei, colleghi d’Università e avversari del PCI e dello PSIUP: ma occupavamo anche insieme le Facoltà, come sarebbe accaduto più tardi a Valle Giulia, e discutevamo, e studiavamo insieme. C’erano delle idee, dietro le botte che ci capitava di darci: e poi andavamo insieme all’osteria.
Dove sono finiti quei giorni, quei ragazzi? Poi sono arrivati gli Anni di Piombo, poi il Riflusso e la corruzione, poi la mafia e gli attentati, poi la fine dell’Unione Sovietica che qualcuno di noi salutò forse sul momento con gioia (che Dio lo perdoni), ma anche con apprensione rivelatasi poi ampiamente giustificata…
E ora? Quando vedo i “popoli” di Casapound o dei Centri sociali ormai sempre più afasici, sempre più impotenti ad esprimere idee e posizioni articolate, capaci solo di urlare slogans poverissimi di senso e miserabili di significato, di ridurre vecchie logori simboli e gesti politici solo a sguaiate manifestazioni di teppismo, mi chiedo se davvero quelli là sono i nipoti dei ragazzi che sognavano di andar a combattere con gli insorti ungheresi o con il “Che” Guevara, che si affrontavano a colpi di Lenin e di Drieu La Rochelle, di Mao e di José Antonio. Nei pur duri Anni Sessanta, al di là delle finzioni dell’“arco costituzionale” che costituzionale non era affatto perché si contrapponeva a quello parlamentare riconosciuto dalla Costituzione, c’era pur un diffuso desiderio di comprensione reciproca. Quando sento parlare i giovincelli dell’ANPI o quelli di Casapound, “partigiani” o “repubblichini” immaginari che il sapore acre della vera guerra civile non l’hanno per loro fortuna mai conosciuto e che pure sanno parlare solo il linguaggio dell’odio, mi cadono le braccia.
Eppure non è colpa loro. Siamo noi, i bravi ragazzi che nei loro anni verdi studiavano e discutevano, gli appartenenti a una generazione che ha fallito; e hanno fallito anche i nostri figli sessantottini e “pantere”; e i teppistelli afasici che adesso si affrontano in scontri sbracati sulle piazze, i nostri nipotini, sono le vittime del nostro fallimento. Di tutti, naturalmente: di noialtri “apocalittici” che sognavamo rivoluzioni e rigenerazioni e dei nostri coetanei “integrati” che badavano a far soldi e ad accaparrar poltrone in parlamento: e che sono ben più colpevoli di noi perché ci hanno condotto fino a questo ingestibile garbuglio d’ingiustizia e di disordine che è lo stato attuale della globalizzazione.
Ecco perché a questo punto è necessario far chiarezza: i ragazzi di oggi, che saranno costretti a subire chissà quali e quante prove nei prossimi decenni, magari per ora non lo esigono ma ne hanno comunque diritto. Spettacoli come quello di Civitanova Marche, dove ci si rifiuta al confronto delle idee, nuocciono loro molto più di mille Coronavirus.
E consentitemi adesso, in chiusura di questo sfogo, una dichiarazione sulla quale non intendo più tornare perché l’ho ripetuta mille volte. Alla “destra” e alla “sinistra” non ci credo più da anni e non m’interessano; che io sia un “fascista” o un “comunista” è un interessante quesito la soluzione del quale lascio alle signore di Forza Italia; sono cattolico e “bergoglista” convinto, e me ne vanto; a chi sussurra che mi sono convertito segretamente all’Islam rispondo suggerendogli di studiare, perché all’Islam ci si può convertire solo pubblicamente dinanzi a testimoni (del resto io, come il mio Maestro Giulio Basetti Sani, sono in effetti muslim, nel senso etimologico del termine, cioè sottomesso serenamente alla volontà di Dio).
A sventare dubbi e perplessità residui, per l’ennesima e definitiva volta esplicito la mia professione politica: io sono cattolico, socialista ed europeista (rigorosamente in quest’ordine). Non ho bisogno di altre etichette, non mi servono, non le merito.
E ora, al lavoro. Nell’ordine: la Siria, il Coronavirus, il “pasticciaccio bbrutto” di Civitanova.