Minima Cardiniana 272/5

Domenica 8 marzo 2020
II Domenica di Quaresima
San Giovanni di Dio
Festa della Donna

LIBRI LIBRI LIBRI
MA C’È ANCORA QUALCOSA DA DIRE SU ADOLF HITLER?
Molti mi chiedono qualche indicazione su libri da leggere. Purtroppo non ho troppo tempo da dedicare a una nuova rubrica di recensioni, come pur mi piacerebbe fare. Facciamo così: d’ora in poi pubblicherò eventuali mie prefazioni o presentazioni di libri recenti e anche qualche brevissima scheda bibliografica. Di più – credetemi – non posso fare.
Comincio, con il permesso dell’Editore, riproponendo qui l’Introduzione a un libro che può lasciare interdetti e che fa molto pensare: il romanzo H. Come Hitler vedeva i suoi tedeschi di Johann Lerchenwald, edito dalla Felix Krull di Monaco di Baviera e tradotto da Ludovica San Guedoro e Gerd Hertel nel 2020 per i tipi della Jouvence, ormai trasferitasi da Roma a Milano. Non è un romanzo storico, non è una histoire de l’âme, non è un’autobiografia immaginaria redatta cesarianamente in terza persona, non è nemmeno una “pseudobiografia” del tipo di quella proposta dal sublime Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar. Certo è un libro sui generis dedicato a uno dei personaggi più esecrati della storia: anche per questo è molto difficile da intendersi, pur sotto la scorza d’una prosa piana e limpida (caratteristica dell’Autore, che i due Traduttori hanno adeguatamente contribuito a mantenere).

FRANCO CARDINI
INTRODUZIONE
“La vita è lotta. È un’antica verità” (Johan Huizinga, Nelle ombre del domani)
“È un testo ‘lacustre’: ovvero superficie limpida e trasparente, fondale stratificato ricolmo di riferimenti e dati. I testi storici, di solito, tendono alla fluvialità: il lettore si lascia trascinare dalle correnti, ma poi finisce per annaspare se non ha dotazioni adeguate. Qui invece riceve l’impulso a fermarsi, a cercare conferme attraverso una più lenta rilettura, e allora scopre il nuovo: una visione più dinamica del rapporto uomo-popolo nel progressivo imporsi della rappresentazione del Potere fino al raggiungimento di una comune, tragica cecità.
Particolarmente efficace il ricorrente ‘c’era da morir dal ridere’, così tetro e così vero”.
Per quanto sia irrituale e tutto meno che consueto, non trovo miglior avvìo per queste mie poche note del giudizio straordinariamente acuto e profondo espresso, a proposito del libro di Johann Lerchenwald, da una correttrice di bozze dell’Editore Felix Krull, Maria Teresa Iudica, che non ho il piacere di conoscere e che spero non si adonti se dal canto mio cito un periodo a quel che so inedito e senza ch’essa me ne abbia data autorizzazione. Se dovessi riassumere in poche righe un libro enigmatico e “serenamente terribile” come questo Hitler, non saprei davvero far meglio di quanto essa abbia fatto.
Il vecchio, venerabile professor Droysen, ben radicato nelle sue ferme convinzioni evoluzionistiche che lo scopo della ricerca storia è quello della ricostruzione il più esatta, minuziosa e obiettiva possibile del passato, als es ist eigentlich gewesen. Ma la considerazione di quel ch’è avvento, nel processo dinamico delle scienze – e non solo di quelle storiche – dai suoi tempi, ci tutti ha persuasi (pur inducendoci al tempo stesso a motivare le nostre persuasioni in molteplici modi, opposti e contrastanti fra loro) che proprio questo, la ricostruzione precisa del passato, è un obiettivo al quale è legittimo mirare e un risultato che è nobile e necessario tender a conseguire solo se e nella misura in cui è necessariamente ben viva in noi la limpida consapevolezza che tale obiettivo è per sua stessa natura irraggiungibile, tale risultato è per sua stessa natura inconseguibile. Possiamo anche esser convinti – molti di noi lo sono – che esista una Verità assoluta e obiettiva, quella sintetizzata dall’affermazione di Gesù dinanzi a Pilato; ma alla replica disperata o irridente di questi (Quid est Veritas?) non risulta sia stata data risposta.
Ormai, circa quattro secoli dopo la nascita con i Padri Maurini di Saint-Germain-des-Près della metodologia storica moderna, i progressi raggiunti nell’interrogazione sistematica delle fonti e nell’organizzazione di una sempre più rigorosa rete d’invenzioni e di applicazioni tecnico-scientifiche ai più vari aspetti del passato, esso è – nonostante l’irreparabile, definitiva perdita di gran parte delle realtà che lo testimoniavano in seguito all’usura del tempo, agli incidenti naturali, alle distruzioni volontarie e involontarie, per tacere degli occultamenti, delle falsificazioni, insomma delle più diverse forme d’inquinamento delle fonti e delle prove – più vicino alla nostra conoscenza di quanto nei secoli o anche solo nei decenni a noi anteriori non fosse. Immani distruzioni di monumenti e di monumenti stanno alle nostre spalle; tragiche e incolmabili perdite di testimonianze ormai scomparse hanno scavato vuoti incolmabili nelle nostre conoscenze; eppure oggi la decifrazione di un solo rigo di un testo scritto condotta alla luce dei metodi e delle acquisizioni scientifiche più recenti, oppure la lettura di un minimo frammento organico alla luce dei codici del DNA, sono in grado da soli di rivelarci più cose di quanto non ci abbiano fatto conoscere secoli di scavi archeologici meticolosamente condotti e di documenti papiracei, pergamenacei o cartacei accuratissimamente esaminati. La conclusione di tutto ciò è, al tempo stesso, fonte di definitiva gloria e d’invincibile disperazione per lo studioso: la sostanza del Vero assoluto ci resterà per sempre preclusa, e impossibile a calcolarsi sarà sempre la distanza che la separa dal nostro “vero” storico, a sua volta destinato a modificarsi di continuo se non altro perché quel che cambia, nella vita non meno che nella ricerca, non è il passato, bensì noi stessi.
Ma quest’intima e condivisa consapevolezza sembra venir battuta d’incanto in breccia, travolta e rinnegata in un atteggiamento pratico diffuso, di fronte al quale non si sa, non si vuole (non si può?) opporsi. Esistono casi, fatti, situazioni dinanzi ai quali da chissà quali remote profondità della nostra acquiescenza a una perentoria “volontà generale” riemerge l’antica volontà dogmatica, l’arcaica – forse nel senso etimologico di questo aggettivo – sete di assoluto. Ed ecco allora riproporsi il remoto e di solito diafano fantasma del “Tribunale della Storia” che giudica e manda al pari del Minosse dantesco, e dinanzi al giudizio del quale l’opporsi comporta l’infamia, la damnatio espressa da termini quali “revisionismo” e “negazionismo”. Vi sono pur pochissimi ed eccezionali argomenti nei confronti dei quali le armi della critica debbono tacere; vi sono limiti oltre i quali non si può procedere oltre in un giudizio storico che pure, per sua stessa natura, mai dovrebb’essere inquinato da istanze né assolutorie né condannatorie: dal momento che la comprensione storica non ha nulla a che vedere né con la giustificazione né con la condanna.
Su Adolf Hitler e le sue creature, il nazionalsocialismo e il Terzo Reich, le fonti a nostra disposizione sono moltissime e disparate, tali da assorbire per intero le lunghe vite di molte migliaia di studiosi che a tempo pieno vi si dedicassero (e c’è chi lo ha fatto); l’abbondanza, la diversificazione e la complessità delle fonti sono tante e tali da scoraggiare, eppure al tempo stesso vengono incessantemente affrontate; oceani d’inchiostro e montagne di carta stampata sono stati impiegati e prodotti al riguardo; e i mezzi informatici comparsi da qualche decennio hanno analizzato e sistematizzato una massa incredibile e inimmaginabile di dati su quel medesimo tema. Quanto tuttavia non si preferisca rifugiarsi nell’analisi di questo o di quell’altro aspetto minuto e magari irrilevante di tanto imponente problematica, si ha sempre la sensazione che la montagna produca topolini tutti simili per non dire uguali.
È ancora possibile, è plausibile, scrivere una sola ulteriore riga su Adolf Hitler? E come sfuggire, in pari tempo, alla sensazione disperante che quel ch’è stato detto non sia mai abbastanza, che non si arrivi mai al fondo? Che al di là di un giudizio di condanna totale e irremissibile che sovente addirittura precede le premesse e che s’impone come irrinunziabile e necessario Apriti-Sesamo si stenda inviolabile e pauroso il cupo, profondo, silenzioso deserto dell’incomprensione intesa come incapacità-impossibilità non già – si badi bene – di condannare, che non è ciò in questione, bensì di capire?
Vista la situazione, si sarebbe tentati di ricominciare da zero: come se nulla fosse mai stato detto né scritto, né sussurrato né gridato, né fotografato né filmato, né osannato né maledetto. Si sarebbe tentati di adottare la metodologia – se non la stilistica – proprio di quegli scrittori “di regime” del Terzo Reich che furono detti “i Poeti dell’Assoluta Piattezza”. La semplicità al di là del semplicismo: il quale – si badi bene – della semplicità non è affatto la conseguenza o l’esaltazione, bensì l’esatto contrario o il perfido stravolgimento.
Libri come questo – che peraltro non sono molti –, anche soltanto per il loro oggetto, sono sempre causa di letture equivoche e di errate valutazioni da parte soprattutto di due categorie di lettori: i superficiali e frettolosi da una parte, i prevenuti e malevoli dall’altra. Autore, editore e magari perfino traduttore e prefatore rischiano in partenza l’accusa di faziosità, di mendacio e magari di apologia. C’è sempre qualcuno che non è contento, che accusa chi ha “sbattuto il mostro in prima pagina” di non averlo presentato come abbastanza mostruoso. E’ accaduto anche a proposito dei films: come quello nel quale il Führer und Kanzler era interpretato da Bruno Ganz, a proposito del si è accusato regista e protagonista di aver ritratto un Hitler “buonista” se non addirittura “umano-troppo-umano”, uno che ad onta dei suoi celebri, terribili scoppi d’ita era eccessivamente gentile perfino con le segretarie e il personale di servizio e che giungeva a manifestare simpatìa e affetto non solo per la povera Blondi. Si sarebbe preferito vederlo magari mangiar bambini, come l’Orco della fiaba…
Ma critiche del genere, proprio in quanto scontate, non possono disturbare né irritare più di tanto. Paulo maiora canamus. L’autore ha almeno in apparenza scelto il registro del “tono basso”, magari minimalistico, ma – si potrebbe osservare – quasi costantemente ex parte subiecti. Espediente criptoapologetico? Qui bisogna esser chiari e netti, altrimenti l’equivoco è dietro l’angolo e minaccia di trasformarsi in qualcosa d’irrimediabile. La chiave di tutto è la scelta della narrazione in terza persona, ovvia e normale in tutti i libri che non siano autobiografici, ma trattata qui secondo moduli che molto spesso insistentemente ricordano la terza persona dei Commentarii cesariani: una terza persona iperautobiografica e autoapologetica, come tutti sanno. Non saranno in pochi a chiedersi, subito o dopo le prime pagine, se non sia questa l’audace scelta – e tanto più audace in quanto non dichiarata – di Johann Lerchenwald.
Sarò sincero: ho tentato e ritentato, con il mio poverissimo tedesco ma anche con l’aiuto di amici perfettamente bilingui, di farmi dal canto mio un’idea che mi sarebbe stata indispensabile per comprendere bene (intus legere, dicevano i latini) intenzioni ed esiti di queste pagine. Scartate sia l’ipotesi della “biografia pura” tendenzialmente – e tendenziosamente – autoassolutoria perché qui di assolutorio non c’è proprio nulla (nemmeno i silenzi su cose e fatti fin troppo noti lo sono), sia quella della fredda e irraggiungibile obiettività asettica e atarassica, resta in piedi quella dell’esperimento ipoteticamente “pseudoautobiografico” visto psicologicamente parlando “dall’interno”: il che implica certo da parte dell’autore l’accettazione del rischio dell’errore e dell’equivoco, ma anche la coscienza profonda – e magari un tantino ottimistica, e magari un po’ troppo superba – di un’intima cognizione della complessa personalità biografata.
Lasciamo quindi da parte (senza, beninteso, scordandone i contenuti) le grandi ricostruzioni à la Bullock, Kershaw, Fest, Rosenbaum, Irving, Eberle, Uhl e via dicendo. Teniamoci lontani – con tutto il rispetto, beninteso – dalle avventure psicanalitiche alla Maser e da quelle esoteriche alla Goodrick-Clarke. Qui siamo dinanzi a una sintesi lucida, impietosa, del tutto priva di eufemismi. L’alibi della follìa, chiunque lo proponga e comunque lo si voglia usare, è un’arma spuntata, una “spiegazione” che non spiega nulla. Gli scoppi d’ira e il sordo, cupo, ostinato spirito di vendetta sono svianti se usati come strumenti esplicativi. Resta una ferrea – e quella sì, al fondo di tutto, “folle”… – nietzscheana volontà di potenza, una fede incrollabile (“sonnambolica”, amava dire lui) nel proprio destino che giunge a un tragico amor fati specie quando l’Autore insinua, se non vogliamo proprio dire che quasi dichiara, che l’uomo il quale pur autorecluso nella ripugnante e maleolente gabbia di cemento armato del Führerbunker del giardino della cancelleria continuava a dislocare fino all’ultimo ormai inesistenti Panzerdivisionen e a blaterare d’Immancabile Vittoria avesse in realtà, fino dall’indomani della sconfitta della “Battaglia d’Inghilterra” se non nel momento stesso in cui aveva ricevuto la dichiarazione di guerra da parte di Francia e di Gran Bretagna, nel settembre del 39, lucidamente compreso – o quanto meno intuito – che la guerra era irrimediabilmente perduta e il suo sogno di universale palingenesi nel nome della Herrenrasse naufragato.
“È la filosofia del dormitorio pubblico”: così Alan Bullock, nel suo classico Hitler. Studio sulla tirannide, commenta l’esposizione da lui stesso proposta dell’evoluzionistica, vitalistica e darwinistico-sociale Weltanschauung definitivamente maturata e mai più mutata nella mente del giovane Adolf, ai tempi della sua bohème viennese e delle sue continue, sterminate, indigeste, maniacali letture che più tardi Timothy W. Ryback avrebbe indagato nel suo illuminante Hitler’s private library. Una visione spietata e desolata, quella dell’inflessibile Legge naturale nella quale solo i migliori e i più forti trionfano e non c’è posto per la compassione. A questa irremissibile divinità egli sottopose il suo popolo – sia finché wagnerianamente lo esaltò e lo venerò almeno in apparenza, sia allorché nietzscheanamente non esitò a disprezzarlo (e a disprezzare in modo implicito se stesso) perché non aveva saputo reggere la prova, non era riuscito a vincere. Giunto quasi all’istante estremo della sua vita, Hitler confessò con feroce, implacabile sincera serenità che i russi – quel popolo disprezzato e condannato al servaggio nel quadro del Lebensraum – erano i veri Signori della Guerra, e della Natura, e della Storia, perché avevano vinto il confronto con lo Herrenvolk. La storia aveva emesso il suo verdetto secondo l’implacabile Legge di Natura. Hitler pronunziò in limine vitae la più dura e irreversibile condanna del nazionalsocialismo che secondo lui si potesse concepire: fu un giudice ben più spietato di molti che in seguito si sarebbero sforzati di esserlo considerandolo dalla sponda dei vincitori.
È spaventoso – e spiega altri aspetti spaventosi della sua esperienza di vita e della sua avventura di governo – lo specchiarsi di Hitler nel suo fallimento e quasi il suo riconoscerlo con l’occhio freddo e insensibile dello scienziato evoluzionista: il suo affermarne la legittimità secondo le leggi naturali, che si affermano fatalmente anche nella storia. D’altronde, in fondo finì coerentemente con i valori secondo i quali era vissuto: come capo di stato e di governo, si era imposto come un sacro dovere dinanzi alla sua missione, a se stesso e al suo popolo di non cedere mai alla tentazione della clemenza. Era convinto di non averne il diritto e che, se lo avesse fatto, sarebbe venuto meno in modo imperdonabile al suo dovere, sarebbe diventato indegno di continuar a governare.
Eppure, nel suo intimo – e questo è un paradosso nel paradosso -, egli non era affatto così: le sue radicate convinzioni stavano rispetto alla sua più intima indole in un contrasto tragico. Quell’Adolf che si sentiva intimamente anzitutto un artista, che adorava la musica di Anton Bruckner e che si commoveva quasi fino alle lacrime dinanzi allo spettacolo di un prato in fiore o di un bambino in festa, l’Adolf che nutriva i topolini nei giardinetti viennesi e che poche ore prima di uccidere la povera compagna di quella sua miserabile vita che si esita a definir “sentimentale” (non diciamo erotica…) e di darsi la morte senza pietà per se stesso – anzi, forse con intimo disprezzo: non era forse egli stesso un vinto, quindi un indegno di sopravvivere secondo la sua inflessibile visione etoantropologica? – accarezzava i ragazzi della Volksturm che fino all’ultimo avevano combattuto per lui armati solo di un Panzerfaust e giocava con i cuccioli di Blondi, non era per nulla l’Übermensch che la propaganda nazista aveva ostinatamente cercato di far credere. Se lo paragoniamo – e non c’è motivo di farlo – con quel gigante di olimpica spietatezza e di adamantina crudeltà ch’era Jozip Stalin, vien quasi voglia di rivolgere ad Hitler l’accorata domanda di Hans Fallada: E adesso, pover’uomo?
E si conosceva bene. Al punto che non volle mai visitare un Lager, che provvide accuratamente di non doversi mai confrontare con lo spettacolo delle sofferenze che pur aveva causato a tanti esseri umani. Rifiutò sempre il rischio di sentirsi male assistendo a un’esecuzione o a un’agonia, come invece era capitato al maldestro e incauto Himmler.
Un tragico caso politico. Un desolante caso umano. Tra le molte opere letterarie che gli sono state dedicate, alcune raccontano di un’eteroesistenza che avrebbe potuto vivere se il suo destino fosse andato in una qualche altra maniera. Ce n’è per tutti i gusti: il trionfo dopo una guerra vinta, la sopravvivenza triste e delusa in un mondo segnato dalla vittoria da lui conseguita, la vita nascosta in qualche plaga dell’America meridionale dopo una rocambolesca fuga dell’ultim’ora dalla sua Berlino in fiamme, l’esistenza serena e successfull di architetto emigrato in America al tempo di Weimar e nella nuova patria divenuto professionista ricco e stimato, e giù giù fino al suo inspiegabile e strampalato Wiederleben nella Berlino del 2011 proposto dal best seller di Timur Vermes dal quale è stato ricavato anche un inquietante film.
Si è molto discusso sulla legittimità dell’ucronia. Che, in fondo, se non si esaurisce in un interminabile gioco di specchi è plausibile solo nella misura nella quale un grande studioso come David Landes ammette, anzi prescrive, che la storia non solo si possa, bensì addirittura si debba scrivere al condizionale, con tutti i se e i ma possibili e immaginabili. Perché in tal modo risulta alla fine chiara, lampante, l’importanza di quello che veramente è successo: valorizzata appunto dall’esame delle infinite possibilità che invece mai si sono tradotte in storia reale ed effettiva. Ma che alla luce appunto di essa Adolf Hitler permanga un insondabile mistero non deve né può sorprendere. Così è, in fondo, per tutto quel che accade sotto il sole.