Domenica 15 marzo 2020, III Domenica di Quaresima
Vangelo della Samaritana
A LEZIONE DALLA PANDEMIA
MAGISTRA PESTIS
In questi giorni, molti fra noi debbono passare più tempo del solito in casa. Qualcuno si organizzerà per continuare il suo abituale lavoro, se gli è possibile. Qualcun altro cercherà di darsi ad attività varie per migliorare la condizione domestica o per scacciare la noia. Ci sarà chi scoprirà che, in fondo, questa è una buona occasione per conoscere meglio chi già dovremmo conoscere bene, i propri familiari: che si può anche reimparare che con la moglie, col marito, con i figli, è possibile parlare anche di cose che vadano al di là delle banalità quotidiane.
D’accordo: c’è chi si sentirà un topo in gabbia e diventerà intrattabile; e chi si spaparanzerà a ingurgitare programmi di TV-spazzatura davanti al piccolo schermo. Magari però ci sarà anche qualcuno che si ricorderà della sua più o meno smilza bibliotechina domestica e andrà a ripescarci qualche libro.
La mia personale esperienza di semiottantenne “autoquarantenato” in un discreto appartamento di un condominio un tempo elegante, oggi un po’ trascurato, ma in campagna tra il verde, non è per il momento delle migliori. Siamo a pochi giorni dalla “pubblica quarantena” stabilita per decreto governativo e già cominciano ad affiorare le vecchie tensioni domestiche, cui se ne aggiungono di nuove. La “malattia condominiale” (che è già derivata da quella “familiare”), secondo cui si parla solo per discutere, e non si sa discutere senza litigare, ha messo radici profonde nella nostra società. Se poi accendiamo la radio o ci mettiamo a scorrere i social, la musica è sempre quella, soprattutto quella: discussioni a non finire, specie con gli adolescenti che non capiscono perché ci si debba tappare in casa e si rifiutano di farlo. Si vuol evadere, torna l’antico adagio per cui se vuoi che un italiano faccia sul serio qualcosa devi proibirglielo. Tra i miei vicini di casa c’è gente che per decenni non ha mai messo – per dirne una – piede in chiesa e che adesso se la prende con la CEI per le sue prudenziali misure restrittive in materia di frequentazione degli edifici di culto.
In altri termini, l’epidemia o comunque la “cosa” che viene definita così ci sta aiutando a scoprire un vecchio male forse non solo italiano, forse quanto meno occidentale, ma che nel nostro paese picchia particolarmente duro: un individualismo spinto fino all’eccesso egoistico ed egocentrico, una carenza preoccupante di capacità di autodisciplinarsi, una caduta verticale del senso di comunità e di quello che per secoli si è definito il “pubblico bene”. Pur di continuare a fare il proprio comodo, sia pure per piccole, meschine, inutili cose, si arriva a mettere a repentaglio la salute propria e altrui.
Gli adolescenti, in particolare, sono un esempio tipico di questa malattia. Se a un bambino o a un adulto è relativamente facile far capire che certe cose in questo momento è meglio non farle, o comunque obbligarli ad astenersene, con un quattordici-diciassettenne si arriva spesso a sfiorare i limiti del dramma domestico. Ma in realtà il problema non riguarda solo gli adolescenti. È almeno dalla fine degli anni Sessanta che le conseguenze del benessere e del consumismo (magari sopravvissute a se stesse anche quando le condizioni socioeconomiche erano cambiate) si sono sovrapposte alle parole d’ordine pseudopolitiche e pseudosociologiche del tipo “vietato-vietare” e “il-corpo-è-mio-e-me-lo-gestisco-io”: che poteva sembrare anarchismo magari d’accatto o “marxismo immaginario”, ma che in realtà era mancanza di senso di responsabilità sostenuto dalla certezza pratica dell’impunità o quasi, qualunque cosa si facesse.
L’orgia dell’irresponsabilità e del nihilismo pratico era del resto cominciata presto: e, sulle prime, era stata quasi all’unanimità gabellata come estensione dei princìpi democratici. Fino dagli anni Cinquanta si era andata dilatando la cultura generalizzata dei “diritti” (di chiunque e di qualunque cosa: della donna, del bambino, degli ammalati, dei “diversi” degli animali, dell’ambiente, della natura…), il che sarebbe stato anche sacrosanto se gli fosse stata correttamente affiancata quella (“cattolica” o “mazziniana” che fosse: e magari, orrore!, perfino “fascista” oppure, raccapriccio!, addirittura “comunista”) dei doveri: cioè di quel che nella stessa Italietta, e poi nell’Italia unita per più di mezzo secolo si era insegnato – per quanto imperfettamente e spesso ipocritamente e in malafede – nelle famiglie, nella scuola, nelle parrocchie, sui posti di lavoro, nelle case del popolo. Sedicenne liceale a metà anni Cinquanta, ricordo bene come si mettesse alla berlina come “fascista” chiunque osava parlare di disciplina o di doveri civici o di amor di patria. Poi è arrivato il resto: il Sessantotto, il Settantasette, le “pantere”, e insieme anche la “neve” e le “pere”, insomma la droga, e la pornografia spinta fino al degrado della dignità del corpo gabellata come “libertà di esprimersi e di sperimentare”. E si è arrivati al punto che i genitori hanno cominciato ad aver paura dei loro figli che crescevano o a farsi loro complici, che maestri e professori hanno cominciato a temere i loro allievi mentre scuola e famiglia, da alleate e collaboratrici, si trasformavano in avversarie e contendenti.
Ma la cosa più laida era un’altra: cioè che tutto ciò sembrava a molti il prezzo, magari alto, da pagare per una crescita della “libertà”, della “democrazia”. Non ci rendevamo conto, o non avevamo il coraggio di denunziare, che tutto ciò era invece uno sconcio privilegio.
Sissignori, cari genitori ed educatori che tanto male avete gestito la crescita progressiva, da oltre mezzo secolo, di almeno due-tre generazioni. La cultura generalizzata del “vogliamo-tutto-e-subito”, quella in forza della quale le classi delle nostre scuole si sono riempite di marchingegni informatici sempre accesi e i nostri insegnanti si sono visti negare il diritto di sequestrarli per quanto ben consci ch’essi erano (sono) strumenti possenti di un pericoloso analfabetismo di ritorno, ci ha riempiti di beni di consumo costosissimi ma segno – e sovente status symbol – non d’eguaglianza, bensì di privilegio.
Chi ha spiegato ai nostri ragazzi viziati (che tali sono per colpa non di un loro vizio intrinseco, bensì della nostra pigrizia vigliacca) che in Afghanistan ci sono ragazzi che da più di mezzo secolo sono vissuti sotto i bombardamenti, che in Palestina esistono adolescenti che vivono sosto assedio, che in Africa bambini di pochi anni debbono fare ogni giorno chilometri per riempire luride taniche d’acqua potabile per la famiglia e ragazzini schiavizzati, obbligati a prostituirsi, imbacuccati in uniformi quasi militari e mandati a uccidere e a morire? Chi ha insegnato loro a farsi carico almeno un po’ dei mali del mondo, anziché scimmiottare i loro familiari nell’attribuire i nostri nuovi mali ai “migranti”, ai “diversi”? E adesso, chi pensa tra tante anime belle che in questo paese siamo pieni di gente senza casa che non sa dove andare e non può isolarsi anche se lo vorrebbe? Li condanneremo tutti a morte, in nome del darwinsimo-malthusianesimo da quattro soldi dell’imbecille che fa il premier a Londra?
E allora, amici cari, chissà che la nuova peste che ci sta arrivando addosso, se davvero è tale (e probabilmente non lo è), non ci sia maestra di vita. Nel passato lo è stata, come per certi versi lo sono state le guerre. È doloroso ma necessario il dirlo. Passato il tempo della sofferenza e della paura, si viene invasi da una nuova voglia di vivere e di fare. Dopo le epidemie, come dopo le guerre, le società civili tendono a rifiorire e presentano doti che magari nemmeno sospettavano di avere. È successo dopo il 1348 e dopo il 1630: perché non adesso, per quanto il Coronavirus è augurabile non sia né la Morte Nera, né la peste del Manzoni. Ma sarà un bene se le limitazioni e le privazioni imposte dalla necessità del momento ci aiuteranno a riscoprire l’autodisciplina (che poi è la vera libertà, quella che insegna a governare se stessi), la solidarietà, il senso del limite e della misura. Magari usciremo da questo tunnel scoprendoci padri, madri, figli, politici, educatori, professionisti migliori; e imparando, dopo la cultura “dei diritti” e quella “delle libertà”, un altro tipo di cultura che troppo finora ci è mancato. La cultura dei doveri comuni e del rispetto reciproco.
Comunque, ormai l’Organizzazione Mondiale della Sanità si è pronunziata nel modo più esplicito: è pandemia. Si tratta cioè di un’epidemia estesa su tutti i continenti e che riguarda l’intero genere umano. Ma attenzione. L’uguaglianza, come sapete, sarà una bellissima cosa e fa anche parte dei diritti dell’uomo, ma ha un difetto: non esiste. Il Coronavirus può sicuramente colpire chiunque, ma non allo stesso modo. Si è esposti ad esso in modo differente a seconda delle fasce d’età; ma anche della qualità delle difese organiche di ciascuno che possono essere più alte o più basse a causa di vari fattori, quelli sociali inclusi; del tipo di società e di ambiente in cui si vive; del clima che si deve affrontare e via dicendo. Abbiamo per esempio imparato – dopo decenni di svalutazione economica, tecnica e perfino etica dello “stato sociale” – che il welfare tutela i cittadini meglio di quanto non lo faccia una società fondata su un liberismo più o meno accentuato: se ne stanno accorgendo oggi negli Stati Uniti, appunto a proposito dell’epidemia in corso.
D’altronde, in tempi come questi si torna a constatare la verità di due vecchi proverbi arabi: il primo, tanto solenne quanto celebre, insegna ottimisticamente che “è nel buio della notte che bisogna sperare nell’alba”; e il secondo, che ha non a caso anche versioni castigliana e siciliana, recita che “quando soffia il vento, fatti canna”, vale a dire adàttati alle situazioni sfavorevoli per sopravvivere.
E l’epidemia, che senza dubbio è una scomoda coinquilina del nostro mondo, si rivela al tempo stesso anche una brava maestra: magari siamo noialtri dei mediocri o dei cattivi allievi. A noialtri occidentali in genere, italiani in particolare, troppo abituati a pensare di poter fare quel che vogliamo e di andar dove ci pare e piace, il professor Coronavirus ci sta insegnando, con un metodo un tantino energico, l’arte della prudenza e la scienza della prevenzione. Che si traduce anche in limiti alla libertà individuale e sociale, in doveri di contrarre abitudini che sulle prime possono sembrare inutili o fastidiose: dal restar in casa al curare con più attenzione l’igiene personale. Non è una lezione facile: a una società abituata per decenni a dilatare la sfera dei “diritti” e delle libertà private, bisogna tornar a insegnare la lezione austera, per qualcuno amara, dei “doveri” e delle responsabilità reciproche e comunitarie.
L’epidemia, in altri termini, può essere sul piano sociale una buona maestra, per quanto amaro e gravoso a sopportarsi sia il suo magistero. Saranno forse i giovanissimi, gli adolescenti e gli early twenties abituati a scarsissima disciplina sia familiare sia scolastica e a poco rispetto delle regole e delle persone, a trovarsi a maggior disagio nella situazione che dovremo affrontare nelle prossime settimane (e, auguriamoci, non troppo più a lungo).
D’altronde, com’è regola fisiologica inflessibile che dalle epidemie una società esce demograficamente ridimensionata ma qualitativamente rinforzata in quanto l’epidemia, da brava predatrice, si porta via i più deboli, è norma sociologica non meno rigorosa il fatto che, da esse – come dalle guerre – si esce sì provati, ma anche provvisti di una nuova energia, di una visione più positiva del futuro. Nelle società immediatamente postbelliche ci si rinnova, si abbandonano o si superano vecchie istituzioni e vetuste convenzioni, si torna con rinnovata fiducia alla vita tanto individuale quanto collettiva; anche le famiglie si rafforzano e sono protagoniste di un’impennata demografica destinata a riempire i vuoti lasciati dal passaggio dei Cavalieri dell’Apocalisse. Lo zoccolo del cavallo della guerra o di quello della peste non è come quello del cavallo di Attila: l’erba, da loro calpestata, rinasce più rigogliosa e i fiori sbocciano più vividi e forti.
Gli esempi di tutto ciò dal punto di vista sociale sono visibili all’indomani delle guerre: basti pensare alla rinascita dell’Occidente nel biennio dopo il 1918, sia pure nell’infuriare delle contese sociali – sintomo del resto esse stesse di vitalità –, e più ancora dopo il 1945 in un’Europa occidentale che bruciò le tappe pervenendo, in meno di vent’anni, a un vero e proprio boom economico anche se esso venne seguito, subito dopo, da una crisi. D’altronde, anche questa è una legge sociostorica ben nota: le crisi, superate, generano effetti positivi e addirittura salutari; è semmai il benessere a produrre assuefazione, perdita di energie, a lungo andare crisi. Nell’XI secolo l’uscita da un periodo socialmente e addirittura climaticamente difficile, segnato da incursioni barbariche e carestie, dette luogo a un periodo fiorentissimo d’incremento demografico, di fondazione di nuovi centri demici, di disboscamenti e di bonifiche con conseguente maggior ampiezza di terra coltivabile e miglioramento alimentare, di commerci e di ampliamento dei mercati euromediterranei; ma questo benessere si degradò nel corso dei due secoli successivi, finché la peste del 1347-1352 poté aver ben presto ragione di una società che aveva perduto slancio e si era indebolita. Ma passata la Morte Nera i commerci rinacquero, nuovi proprietari acquisirono le terre lasciate deserte dalle vittime dell’epidemia e il terreno tornò ad acquistare valore, la circolazione monetaria s’impennò rapidamente, nacque un nuovo ceto di banchieri e d’imprenditori così come si fondò una nuova cultura, quella umanistica. La Modernità ha avuto nella Morte Nera la sua “levatrice violenta”, brutale sì ma al tempo stesso benefica nei suoi risultati di medio e lungo periodo.
Per quanto non si possa ipotecare il futuro e, se non altro per scaramanzia, non sia opportuno essere troppo ottimistici, si può sperare che il Coronavirus non risulti un rullo compressore paragonabile al 1348 o al 1630. La storia c’invita però a guardare ai suoi possibili futuri esiti con cauto, sorvegliato ottimismo. In termini sociali, comportamentali, etici, la nostra società cominciava a dar segni di vecchiaia: la caduta demografica ne era ad esempio un sintomo. Partiamo magari da qui. Siamo obbligati a restare più tempo in casa, e per ora dobbiamo osservare una certa distanza di sicurezza. Ma di qui a qualche tempo, non poi troppo, queste cautele diventeranno superflue. E la rinnovata abitudine a stare insieme avrà i suoi effetti. Anche sentimentali, quindi anche demografici. Non tutte le epidemie vengono per nuocere: o meglio, non vengono mai esclusivamente per nuocere. Guarite presto, ragazzi: e imparate di nuovo ad amare. In tutti i sensi. Una nuova socialità, un nuovo rispetto reciproco, una riscoperta del corpo e dello spirito.