Domenica 22 marzo 2020, IV domenica di Quaresima
Domenica Laetare Jerusalem, prima domenica di primavera
EDITORIALE
LORETTA GOGGI ON TRIAL: MA QUESTA PRIMAVERA È MALEDETTA O NO?
Approfittate della forzata stasi per leggere (anche se è in questo momento difficile anche procurarsi dei nuovi libri: c’è una stasi forzata sia nelle edizioni, sia nella distribuzione) un libro bellissimo, Primavera. La stagione inquieta, di Alessandro Vanoli (Il Mulino), che fra l’altro ci ricorda col supporto della storia, dell’antropologia e della letteratura come la stagione che stiamo vivendo è splendida ma anche pericolosa e può essere crudele – il clima instabile, spesso (appunto) le epidemie –, il che ci riconduce alla necessità di vivere intensamente con gli strumenti che abbiamo un tempo nel quale alcune libertà ci sono vietate.
La primavera, Vanoli docet, è stagione densa di tradizioni. Pensate soltanto a quello che per gli antichi latini era il ver sacrum. È stato detto che la tradizione non è culto delle ceneri, bensì memoria del fuoco. E Oscar Wilde, il quale diceva molte più verità (e molto più profonde) di quanto non credesse, ha affermato che “una tradizione è un’innovazione ben riuscita”. Proprio così: basta capire che cosa significa questa frase che sembra iconoclasta. Una tradizione non è una consuetudine, qualcosa che si è verificato una volta e che noi continuiamo a celebrare per pigrizia o per superstizione o per abitudine. No: una tradizione è un evento che viene assunto a paradigma in quanto vi si riconosce l’orma di un rapporto profondo tra uomo e cosmo, tra uomo e quel che Rudolf Otto ha definito “il Sacro” nel senso di Ganz Anderes, “totalmente diverso, qualitativamente diverso” da lui, tra uomo dotato del senso della realtà che va oltre l’esistenza visibile (cioè l’homo religiosus) e quello che si definisce il Divino: differente, ben inteso, a seconda che si appartenga al mondo delle “religioni naturali” immanentistico-mitiche o delle “religioni rivelate” trascendenti e storiche (cioè le abramitiche).
Nella nostra Italia, le tradizioni folkloriche d’origini anche antichissime – quelle connesse con il ritorno del tempo migliore e con il fiorire della natura – si sono andate intrecciando a partire dal IV secolo d.C. con quelle cristiane, fondate sull’equinozio di primavera che segna la Pasqua e la preparazione per essa, la “quarantena” di digiuno e di purificazione detta, appunto, Quaresima.
In questo senso la festività odierna, la domenica Laetare Jerusalem, essendo la quarta (dunque la centrale) delle sette che separano l’inizio della Quaresima dalla Pasqua, coincide con un momento di ristoro e di riposo all’interno del lungo periodo di digiuno e di penitenza. Ci si concede quindi un certo sollievo dal rigore del periodo. La Chiesa può legittimamente abbandonare il violaceo dei paramenti sacri segno di penitenza utilizzato nelle domeniche precedenti e rivestire i suoi sacerdoti di rosato; non tutte le regioni italiane hanno dimenticato l’antico rito dello sventramento del fantoccio-quaresima dal ventre aperto del quale escono ghiottonerie (è il rito della “Pentolaccia”, il vecchio utensile domestico che viene sacrificato a tale scopo) e che è una facies di quel rito iniziatico di fine inverno caratterizzato dalla distruzione di vari beni sacrificati come buon auspicio per il futuro della comunità e che, con un termine desunto dalle lingue dei native Americans del Canada occidentale delle tribù Haida, si chiamava Potlac: una parola che i canadesi europei tradussero maccheronicamente con il termine misto di francese e d’inglese Pot (francese “pentola”)-Luck (inglese “fortuna”). La Pentola della Fortuna, quella delle fiabe.
Tradizioni. Una volta la primavera, quando arrivava, era anche una stagione temuta. Bisognava ripulire la casa da cima a fondo. “Pulizie di primavera”, si diceva appunto. Ed erano una faticaccia, anche se vivevi in un buco di campagna o di periferia. Per un fatto, soprattutto. In quaresima arrivava il parroco a “benedire le case”. Certo, precisavano i buoni sacerdoti, si benedicono le famiglie, non le mura e i mobili dell’edificio. Ma non c’era verso. Specie poi se durante l’anno in una casa era successo qualcosa – una disgrazia, una sfortuna, anche un semplice diverbio – le antiche superstizioni in apparenza dimenticate si collegavano alla “mitologia” cristiano-popolare per rendere più attesa la lustratio primaverile. E allora era sempre una festa: anche in una casa socialcomunista come la mia, dove comunque le donne andavano in chiesa e anche gli uomini erano buoni lavoratori e bravi cristiani. E il parroco era un vecchio amico: si sbirciava il suo arrivo dalla finestra, ci si spazientiva se indugiava troppo con quei chiacchieroni dei vicini di casa (“Ma icchè gli avranno da raccontagli?!”, commentava inviperita e un po’ preoccupata la zia Rosina), quando arrivava gli si lasciava a stento fare quelle che a Firenze si chiamavano “le funzioni” – vale a dire gli adempimenti liturgici – perché poi si doveva sedere, posare la situla e l’aspersorio (“secchio e pennello”, come lo chiamava un solerte compagno di “Peppone” Bottazzi rivolto a don Camillo), ascoltare pazientemente le chiacchiere e le recriminazioni delle donne di casa contro le altre parrocchiane, ingozzarsi di caffè, vinsanto e pasticcini (lo facevano tutte le famiglie…); poi accettava con imbarazzata discrezione la busta con la rituale piuttosto magra offerta – ma si faceva quello che si poteva – e se ne andava con il suo codazzo di chierichetti che le zie avevano riempito di moine, di cioccolatini e di speccioli, dopo aver benedetto anche il gatto di casa (il quale dal canto suo, rivelando il demonietto che sonnecchia in tuti i felini domestici del mondo, mostrava di non gradire affatto lo spruzzo d’acqua gelida).
Oggi, questo è un mondo finito. I parroci non fanno più il loro giro per le strade della parrocchia, la “benedizione alle famiglie” si prenota per telefono, le pulizie di primavera non si fanno più. Un tassello in più nel mosaico del disordine chiamato Modernità.
E intanto, una nuova settimana da passare in casa: e sia chiaro – se lo caccino in testa tutti – che chi ha la fortuna di poterci stare, perché non ha obblighi o necessità esistenziali o professionali di uscire deve anche starci: e ringraziare Iddio, se è credente. Diciamolo e spieghiamolo soprattutto ai ragazzi, i quali nella stragrande maggioranza dei casi in Italia sono stati allevati a far quello che vogliono e ad avere il diritto di farlo. No, cari giovani amici (e mi rivolgo soprattutto ai miei sei nipoti dei quali sono nonno e ai cinque dei quali sono zio). Oggi, anche se è scomodo e spiacevole, avete la possibilità d’imparare una lezione forse ancora più importante di quella che avreste potuto ricevere a scuola; una lezione che noi anziani avremmo dovuto impartirvi energicamente, e non abbiamo saputo o voluto farlo.
La lezione è questa: che nel mondo e nella società in cui vivete (e della quale fra pochi anni, con la maggior età, sarete cittadini a tutti gli effetti) nessuno può fare quello che vuole: perché non ci sono soltanto i diritti, ma anche i doveri. V’immaginate che cosa succederebbe se i vostri genitori omettessero i loro doveri di pensare a voi, di lavorare per voi, di sostenervi in ogni modo e magari anche di soddisfare i vostri desideri e perfino i vostri capricci? Lasciati a voi stessi, voi sapreste soltanto piangere: o affidarvi a qualcun altro, se aveste fortuna, perché dovete capire che nessuno è un’isola e che ciascuno di noi dipende da qualcun altro, il che è lo stesso che dire in ultima analisi che ciascuno di noi dipende da tuti gli altri (che non sempre fanno il loro dovere: chiedetelo ai bambini africani, a quelli afghani, a quelli brasiliani…). E pensate anche ai molti, ai troppi vostri coetanei sparsi in tutto il mondo, che appartengono a famiglie troppo povere per potersi curare, e magari anche per potersi alimentare e vestire? Chi di voi può farlo, quindi, stia in famiglia: e impari a combattere i due grandi nemici di chi deve stare a lungo in pochi metri quadrati, che sono la noia e la pigrizia. Imparate a lavorare in casa, a studiare, a scrivere, a leggere, ad ascoltar leggere, a vedere in TV non solo i soliti programmi-divertimento, spesso insulsi, ma anche qualche bel film e perfino i programmi culturali e i notiziari. Imparate magari perfino a parlare con i genitori e i familiari: loro magari non sono mai stati bravi a farlo con voi, ma voi ci avete provato? Non vi dico di rispolverare il monòpoli, la tombola, il gioco dell’oca o il mercante in fiera: ma qualcuno fra quelli che lo hanno fatto assicura che i ragazzini ci si sono divertiti più che con la play station. Qualche altra settimana di Coronavirus e finiremo col riscoprire di essere una comunità.