Domenica 22 marzo 2020, IV domenica di Quaresima
Domenica Laetare Jerusalem, prima domenica di primavera
OMAGGIO A UNA GRAN SIGNORA DEL BELCANTO ITALIANO
Dedico al vecchio amico Ugo Barlozzetti, storico dell’arte e studioso di istituzioni e tecniche militari nonché coraggioso cittadino ed esemplare galantuomo, l’offerta a tutti gli Amici dei Minima Cardiniana di due belle pagine comparse sullo “storico” quotidiano triestino “Il Piccolo”. Vi si celebra la grande Fedora Barbieri, che alcuni decenni fa riempiva del suo nome glorioso (italianizzazione della versione russa del nome dell’imperatrice Teodora) le cronache battesimali di tutt’Italia (ricordo ancora la canzone che negli anni Cinquanta si cantava d’estate in Mugello, dedicandola a una sua omonima dalle generose forme: “Guarda che bella mora – gli è la Fedora…”) e le vetrine delle migliori pasticcerie con un dolce sontuoso che si chiamava come lei, in omaggio a lei. Fedora Barbieri era – sua dote non minore – la madre del professor Barlozzetti.
CENT’ANNI DI FEDORA BARBIERI, UNA VOCE PIENA DI “MORBIN” CHE HA RIEMPITO LE SCENE
Il mezzosoprano triestino, autodidatta, era nata il 4 giugno del 1920.
La sua voce era piena, scura, modulata su un temperamento sfacciatamente genuino e diretto, ma capace anche di vestirsi di sentimentalismo e una grazia carica di personalità. Fedora Barbieri era un mezzosoprano che certamente non si adattava a un ruolo da mediano e si imponeva con forza sia vocalmente che in scena. Sapeva essere eroina e caratterista, in scena e nella vita. La sua Azucena era impressionante, potente e sulfurea, la sua Quickly piena di graffiante “morbin”, come forse avrebbe detto lei stessa, nata a Trieste il 4 giugno del 1920.
Cantante “per caso”, d’istinto si sarebbe adattata piuttosto a un’attività commerciale, seguendo l’inclinazione storica della città. Sembra che l’idea di farle studiare canto sia stata di una corista del Verdi che in una festa privata la sentì cantare O sole mio.
“La Fedora” amava cantare, per diletto, con le finestre aperte. Non ha studiato molto prima di iniziare la carriera, e questo l’ha sempre ammesso, ma ha recuperato in seguito lo studio mancato con l’esperienza e il perfezionamento, aiutati da un indubbio talento e una voce importante. La sua impostazione di base si deve a Federico Bugamelli e Luigi Toffolo, poi è arrivata la scuola del Maggio Musicale Fiorentino. Il “suo” teatro non è stato il Verdi (nel quale ha cantato in seguito), ma il Comunale di Firenze, dove ha debuttato nel 1940 nel Matrimonio segreto di Cimarosa e ha chiuso la carriera nel 2000 con Cavalleria rusticana, interpretando il ruolo di Mamma Lucia. A Firenze è legata anche la sua vita privata, il matrimonio con il marito Luigi Barlozzetti e la nascita dei due figli.
I leggendari aneddoti della scena operistica del passato appartengono a un mondo che non potremmo confrontare con quello attuale, votato al perfezionismo: nonostante la scarsa esperienza, negli stessi giorni del debutto a Firenze la Barbieri fu reclutata inaspettatamente per sostituire una cantante nel Trovatore, ottenendo un grande successo in entrambi i ruoli.
Sarà un triestino ad accompagnarla molto presto sul palco della Scala di Milano, il maestro De Sabata, con la Nona di Beethoven. Lo stesso direttore diversi anni dopo la dirigerà nel Samson et Dalila, non risparmiandole osservazioni severe, rese più efficaci dal linguaggio comune: il dialetto triestino (“Ma cossa te gà nel sangue, acqua?”).
Alla scena scaligera è rimasta legata per diversi decenni, con numerose recite. Seguono il Metropolitan, il Covent Garden, direttori come Toscanini, Karajan, Giulini, Bernstein, Furtwängler, Gavazzeni, registi come Visconti, Ponnelle, Zeffirelli. Al suo debutto nella Grande Mela con il Don Carlos di Verdi, il giornalista del New York Times la definisce “splendido mezzosoprano italiano, dal temperamento particolarmente ardente”.
Il suo repertorio, che comprende oltre centro titoli, è stato molto ampio, da Händel a Henze. Si è cimentata anche in Monteverdi e Gluck, in anni in cui la ricerca filologica non aveva ancora portato specifici canoni di stile esecutivo sui palcoscenici operistici. Verdi e Rossini sono gli autori che ricorrono più frequentemente nel suo repertorio e le opere verdiane sono certamente quelle che le hanno dato l’opportunità di dimostrare una peculiare forza espressiva. Al grande Toscanini non era sfuggita la sua inclinazione per Verdi, perché dotata delle qualità necessarie: voce, cuore, intelligenza.
Con l’avanzare dell’età ha iniziato a insegnare, ha intrapreso progetti di concorsi per cantanti lirici e in Russia le è stato intitolato un concorso internazionale per voci di mezzosoprano. Si è anche cimentata nella regia, firmando con la collaborazione del figlio Franco due allestimenti, per il teatro di Łódź e per il Gran Teatro di Varsavia (dove ha ricevuto l’omaggio di Lech Wałęsa). Ha continuato ad avere progetti, idee e voglia di viaggiare fino alla fine e non si è voluta mai fermare, nemmeno dopo l’addio alle scene. Di lei il figlio dice che aveva certamente acquisito il carattere forte dei triestini, rispecchiato dalla sua tenacia, ma anche dalla tendenza a dire a chiunque in faccia, senza troppi giri di parole, quello che pensava, caratteristica che non l’ha favorita nella carriera e nemmeno nei rapporti con i colleghi. Esuberante e loquace, non ha disdegnato diverse apparizioni televisive, da Paolo Limiti a Maurizio Costanzo, dove ha confermato ancora una volta di essere una primadonna consapevole del proprio valore e dei traguardi di una lunghissima carriera, ma anche l’irriducibile tendenza a essere istintiva, diretta, informale.
Dei molti allestimenti conservava diversi costumi, donati tra il 2001 e il 2002 al Museo Schmidl di Trieste, dove sono in esposizione permanente. Teneva molto a queste creazioni, spesso firmate dai grandi costumisti dell’epoca e a volte rimaneggiate, secondo l’uso del passato, per le esigenze di titoli diversi. È stata lei stessa ad affidarli al museo della città, costituendo la base di una collezione che in seguito è stata integrata dai figli con foto, registrazioni, manifesti, libri, spartiti e altri documenti dal fondo personale dell’artista.
Quest’anno ricorre il centenario della sua nascita e sono molte le iniziative che la ricorderanno in Toscana, sua regione adottiva. In aprile è prevista l’intitolazione di una piazza di Firenze che da quest’anno porterà il suo nome. Il nome della Barbieri è diventato anche quello di una rosa prodotta da un vivaio nell’Aretino. Il suo pianoforte Bechstein del 1902 verrà donato al Conservatorio di Firenze. Al Prato, piazza fiorentina, verrà apposta una targa sulla casa dove la Barbieri abitava. Al Teatro della Pergola sono previsti una giornata di studi in autunno, una mostra e una serie di audizioni guidate nel 2021. Sono annunciati eventi commemorativi anche a Orvieto, luogo di provenienza del marito e si sta lavorando a un sito web dedicato.
Anche Trieste renderà omaggio a Fedora Barbieri, innanzitutto con una serie di iniziative a cura del Civico museo teatrale Carlo Schmidl che nell’esatta ricorrenza della nascita, il 4 giugno, organizzerà una giornata di studi, per proseguire nel corso dell’anno con una serie di eventi commemorativi, uno dei quali in collaborazione con l’Associazione triestina Amici della lirica G. Viozzi.
La carriera inattesa non l’ha mai allontanata dalla sua amata Trieste
Quando Fedora Barbieri, da bambina, guardava il transatlantico Vulcania partire da Trieste, sognava il grande salto, l’occasione che traghetta verso esperienze fuori dal comune. Non immaginava ancora di diventare una cantante lirica, ancor meno che oltre oceano avrebbe calcato le scene di teatri come il Metropolitan di New York e il Colon di Buenos Aires. E nonostante la grande carriera internazionale l’abbia allontanata dalla sua città, Trieste è sempre rimasta con lei, non solo nei ricordi, ma nel suo modo di parlare, con quell’accento distintivo che non ha mai voluto “risciacquare in Arno”.
Pare che anche con la Callas (per la quale non ha avuto parole molto tenere, in particolar modo riguardo ai suoi esordi) avesse preso l’abitudine di parlare in dialetto, ricevendo risposte in un italiano modellato sulla parlata veneta.
“Il triestino era la sua lingua ufficiale” – ci confida il figlio Ugo Barlozzetti, per il quale termini non propriamente toscani come “bazilar” fanno parte del lessico familiare. In famiglia generalmente non si parlava triestino, ma il fatto che la nonna materna vivesse con loro aiutava a mantenere un contatto con la parlata locale. E poi ci sono i ricordi legati alle estati trascorse a Trieste, dove Ugo ha imparato a nuotare, a frequentare i bagni Ausonia e a conoscere il leggendario pinguino Marco. Senza contare che le visite a Trieste erano per sua madre anche l’occasione per ritrovare i profumi e i sapori della sua terra d’origine, la passione per la buona cucina che in città aveva per lei punti fermi in trattorie del centro città, tra le quali c’era ovviamente anche Pepi. Anche la sua cucina risentiva dell’imprinting multietnico e delle tradizioni locali, in particolare di pesce (pare fosse particolarmente brava a cucinare il brodetto).
Da bambina abitava in via Settefontane 16. La sua famiglia era arrivata a fine Ottocento da Bologna a Trieste, che all’epoca era un centro attivissimo e offriva molte opportunità di lavoro. Avevano aperto un negozio di alimentari in via Bramante, davanti alla residenza di Joyce.
La carriera, inaspettata, di cantante lirica, l’ha allontanata all’età di vent’anni dalla sua Trieste, ma anche negli anni dei grandi successi, appena poteva, con o senza il marito, la Barbieri amava ritornare nella sua città, per incontrare gli amici, ma anche per perfezionare alcuni ruoli con il maestro Toffolo.
In tempi più recenti ha stretto amicizia con Liliana Ulessi, che nel 2000 le ha dedicato il libro Un viaggio nella memoria. Ricordi ed emozioni di una star del melodramma, dal quale è derivata una serie di trasmissioni radiofoniche e anche un testo teatrale, interpretato da Ariella Reggio. “Era triestina nello spirito, nell’ambiente che filtrava dal rapporto con questi luoghi: Zità vecia, piazza della Borsa, le ciacole con gli amici” – dice Barlozzetti, che del rapporto della madre con Trieste conserva un ricordo significativo, come ci racconta: “Aveva vinto tanti premi nella sua carriera, e ricevuto molti riconoscimenti, ma quello al quale teneva di più era certamente il San Giusto d’oro”. L’amministrazione comunale le ha intitolato anche il giardino di via Mascagni. A Trieste è voluta ritornare, nonostante Firenze sia stata la sua casa fino all’ultimo respiro, e per sua espressa volontà dal 2003 riposa nel cimitero di Sant’Anna. Il forte senso di appartenenza non avrebbe sopportato la distanza da un luogo che è sempre stato nel suo cuore, come conferma il saluto che ha rivolto alla Ulessi al termine del loro incontro a Firenze per la stesura della biografia: “Adio cocola, la me saludi Trieste!”
Rossana Paliaga
(Il Piccolo, 14 marzo 2020)