Minima Cardiniana 274/6

Domenica 22 marzo 2020, IV domenica di Quaresima
Domenica Laetare Jerusalem, prima domenica di primavera

OMAGGIO A UN ARTISTA GENIALE E CENSURATO
Vi state rendendo conto di come, pezzo per pezzo, stia franando il castello di carte della “libertà”, della “democrazia”, del “pluralismo” e del politically correct (dimensione rivelatrice e contraddittoria, quest’ultima) per mezzo del quale per molti anni i beati sudditi occidentali di un sistema spietatamente metaorwelliano sono vissuti nell’illusione di essere liberi e di godere di tutti i diritti del mondo? Forse oggi dovremmo rileggere pacatamente, serenamente, certe cose che per esempio Noam Chomsky ci stava ripetendo da anni. Il “caso” di Cat Stevens è emblematico: la sua colpa fu quella di essersi risvegliato dal malefico sonno consumista. Come a lui, è accaduto a molti altri: le voci dei quali vengono magari soffocate. È facile, nel mondo dominato dal “pensiero unico”. Un mondo nel quale si può fare, dire e pensare quel che si vuole, a patto che sia sempre e comunque quello che vogliono Loro.
Certo, si può anche continuar a guardare ostinatamente da un’altra parte…

CAT STEVENS, YUSUF ISLAM E L’ETERNO DILEMMA DELL’UOMO MODERNO
“Una delle principali prospettive dell’uomo è quella materiale, secondo la quale dovremmo bere, mangiare ed essere felici. Il problema è che io avevo bevuto, avevo mangiato, ma non ero felice”. Sono queste le parole di commiato all’indirizzo di chi, insistentemente, nella seconda metà degli anni settanta del secolo scorso gli chiedeva il motivo della sua conversione all’Islam e, soprattutto, della decisione di abbandonare la musica, i dischi e i palcoscenici che lo avevano reso famoso. A quel punto Cat Stevens, lo straordinario tessitore di melodie immortali – non semplicemente canzoni, ma piccoli gioielli destinati a scavalcare gli steccati del tempo – non è più Cat Stevens. Il 23 dicembre 1977 il grande cantautore è entrato nella moschea di Regent’s Park a Londra e ha abbracciato ufficialmente la religione islamica. Il 4 luglio 1978 Steven Demetre Georgiou – così l’ha registrato l’anagrafe londinese il 21 luglio 1948 – cambia nome per la seconda volta: da quel momento sarà per sempre Yusuf Islam.
Cat Stevens è il nome d’arte stampato sulle copertine dei dischi, milioni di copie, venduti in tutto il mondo. Steven, ovviamente, si riferisce al suo nome di battesimo, mentre “Cat” prende spunto dall’intuizione di una compagna di studi che ha paragonato i suoi occhi profondi e taglienti a quelli di un felino. Funziona, il nome, così come funzionano le sue canzoni, anche quelle “giovanili”, orecchiabili e spensierate, che lo fanno conoscere al grande pubblico alla fine degli anni sessanta. È un periodo felice per la musica, diventata ormai fenomeno di massa e colonna sonora di una generazione che finalmente è uscita dal guscio e reclama un proprio spazio: i giovani. Il business se ne accorge, le case discografiche nascono e crescono come funghi, così l’industria del pop accompagna i sussulti, le ansie, le rabbie, gli istinti rivoluzionari e al tempo stesso i desideri individuali, facendosi spesso portavoce degli eccessi e di un nuovo stile di vita, quello declinato secondo lo slogan “sex and drugs and rock and roll”. Una way of life che si piegherà gradualmente ai nuovi comandamenti dettati da un presente da vivere e da godere appieno, ovvero la soddisfazione dell’istinto e di ogni desiderio personale, una filosofia esistenziale che alla fine del decennio mieterà molte vittime – Brian Jones, Janis Joplin e Jimi Hendrix, tra le altre –, non solo tra le star del momento.
Una delle numerose vittime degli ingranaggi dello star system è anche Cat Stevens. Perché, dopo il discreto successo ottenuto grazie ai primi due album e alcuni singoli che si affacciano ai piani alti delle classifiche, la vena creativa inizia a mostrare segni di cedimento, anche a causa di esigenze e imposizioni discografiche che ne limitano la creatività. Secondo la versione ufficiale, nel gelido febbraio del 1968 il giovane cantautore ignora una forte tosse che si rivela invece una grave forma di tubercolosi. A marzo viene ricoverato in ospedale, e da quel momento ha inizio una fase, la prima, di profondo cambiamento interiore. Con ogni probabilità – lo sapremo molti anni dopo – non si è trattato propriamente di tubercolosi, ma piuttosto di disintossicazione dagli eccessi di alcol e droga. Ma qualunque sia la causa del ricovero, che si protrae per circa tre mesi, a soli 20 anni Cat Stevens si trova di fronte a una crisi esistenziale e artistica che ne determina la svolta, prima di tutto artistica. Lasciata la Deram, Stevens firma un contratto con la casa discografica del geniale Chris Blackwell, e con la Island – che gli concede assoluta libertà creativa – pubblica i suoi 33 giri più famosi, soprattutto tra il 1970 e il 1971, quando probabilmente è il più grande cantautore in circolazione. Tre album, uno più bello dell’altro – Mona Bone Jakon, Tea For The Tillerman, Teaser And The Firecat, con canzoni evergreen come Wild World, Father And Son, Morning Has Broken –, un successo planetario, fama, soldi, donne bellissime – l’attrice Patti D’Arbanville, la “collega” Carly Simon – e un grande avvenire dietro (e davanti) le spalle. Ma qui, di nuovo, qualcosa s’inceppa.
Se la precedente crisi depressiva è stata mitigata dalla possibilità di esprimersi liberamente, stavolta la notte dell’anima scava in profondità. Cat Stevens, che ormai ha raggiunto tutto ciò che la prospettiva materiale può offrirgli, comincia a isolarsi, a ottenebrarsi. Inizia a seminare tracce della sua sofferenza in alcune canzoni, quasi fossero richieste d’aiuto. Il titolo 18th Avenue (Kansas City Nightmare), canzone pubblicata nel 1972, si riferisce al Max’s Kansas City, un locale sulla Diciottesima Strada di New York frequentato da personaggi famosi (Andy Warhol, Lou Reed e molte altre star dell’epoca). Si tratta del brano che più di ogni altro tratteggia a chiare lettere il rapporto dell’artista con gli eccessi del successo, visto che al Max’s Kansas City sesso, alcol e droga sono un must per coloro che lo frequentano. Una sera, stanco e confuso, il cantautore si precipita fuori dal locale e comincia di nuovo a respirare, dirigendosi verso l’aeroporto per tornare a casa: un aereo lo condurrà, metaforicamente, verso la salvezza. Ed è proprio su un altro aereo che si manifesta un’ulteriore epifania: durante un viaggio di ritorno dalla Florida, quasi per coincidenza l’artista si ritrova in una mano un Buddha di porcellana e nell’altra una scatola di cioccolatini, le due opposte prospettive – quella materiale e quella spirituale, che l’artista raffigura nella copertina dell’album Buddha And The Chocolate Box – entro le quali, almeno fino a quel momento, non è riuscito a trovare una propria dimensione, un proprio equilibrio.
Ma l’episodio che più di ogni altro segna la sua vita è lui stesso a raccontarcelo. La sua carriera è a un bivio, la Island è insoddisfatta perché le vendite stanno cominciando a diminuire, così ha deciso di rimandare l’uscita di un nuovo album già pronto per rinfrescare l’immagine del suo pupillo con la pubblicazione di una raccolta di successi. Nell’estate del 1975, Cat, deluso e amareggiato, è ospite a Malibu, in California, presso la villa di Jerry Moss, manager della sua casa discografica statunitense, la A&M. I due si ritrovano da soli, sulla spiaggia, finché l’artista decide di fare un bagno in completa solitudine. Inizia a nuotare tranquillamente nelle acque del Pacifico finché, improvvisamente, una corrente inizia a trascinarlo al largo, rendendo vani i suoi sforzi per tornare a riva. Vede lo stesso Moss sulla spiaggia allontanarsi gradualmente dal suo campo visivo e non riesce a far sentire le sue grida di aiuto. Ormai esausto e completamente privo di forze, Stevens si appella a Dio chiedendo aiuto per uscire vivo da ciò che sembra un destino annunciato. In cambio, promette di dedicargli il resto della sua vita. Improvvisamente, un’onda gentile lo porta in salvo, cambiando per sempre le coordinate della sua esistenza.
Il Dio che l’ha salvato assume un nome preciso circa un anno dopo, quando il fratello David, di ritorno da un viaggio a Gerusalemme, gli regala una copia del Corano. Mentre canta (I Never Wanted) To Be A Star, Cat Stevens decide di abbandonare lo star system e la musica pop, spogliandosi di tutto il “superfluo”: strumenti, dischi d’oro, proventi che derivano dalle royalties delle sue canzoni, devolvendo tutto in beneficienza. Gli manca solo un album per onorare fino in fondo il contratto con la Island: lo intitola, significativamente, Back To Earth. Poi, dal 1978, scompare o quasi dalle scene.
La stampa e i media in generale non gli perdonano la scelta radicale, considerandola un gravissimo tradimento nei confronti dell’Occidente delle magnifiche sorti. E non perdono occasione per strumentalizzare alcune sue iniziative con l’unico obiettivo di criticare l’Islam in generale. Come nel febbraio del 1989, quando Yusuf Islam scatena una vera e propria bufera mediatica. “Cat says, kill Rushdie” titolano alcuni quotidiani inglesi all’indomani di una presunta frase che Yusuf avrebbe pronunciato di fronte agli studenti del Kingston Polytechnic. Si presume che nel suo discorso Yusuf si sia schierato dalla parte dell’Ayatollah Khomeini e della condanna a morte nei confronti dello scrittore Salman Rushdie, autore dei “versi satanici”, quando invece, anche affidandoci alle sue stesse parole, Yusuf si è limitato a spiegare ciò che prevede il codice della legge islamica in caso di offese blasfeme e sacrileghe nei confronti del Profeta. Ma ormai il danno è fatto e le conseguenze sono a dir poco disastrose. Una vera e propria campagna denigratoria nei suoi confronti viene promossa via radio negli States, con l’invito a boicottare i vecchi dischi di un vero e proprio mito in terra straniera. Ma gli episodi che scatenano polemiche, in circa trent’anni, sono molti ed è impossibile citarli tutti.
Durante il lungo periodo di “abbandono”, Yusuf continua a proporre musica a tema religioso, ovvero preghiere dedicate ad Allah, partecipando a molte iniziative benefiche. Fa notizia, il 21 settembre 2004, l’incidente diplomatico nel quale resta coinvolto: Yusuf si sta dirigendo a Nashville, ma l’aereo sul quale sta viaggiando insieme alla figlia viene “intercettato” e fatto atterrare nel Maine. Incredibilmente il suo nome compare nella lista di sicurezza “No-Fly” stilata delle autorità americane, e l’accusa è a dir poco infamante: si parla addirittura (e non è la prima volta) di finanziamenti a gruppi terroristici islamici. Yusuf si sta invece recando nella capitale della country music per affiancare Dolly Parton, che sta reinterpretando una sua vecchia canzone. Perché, dopo l’11 settembre 2001, l’atteggiamento dell’ex cantautore nei confronti del mondo esterno e del suo passato è cambiato: Yusuf si è reso conto che, grazie alla fama di un tempo e alle sue canzoni, può impegnarsi attivamente per costruire un ponte tra Oriente e Occidente, ovvero tra due culture che hanno in comune molto più di quanto si pensi. Di lì a poco, infatti, deciderà di tornare alla musica pop, ma lo farà docilmente, riappacificandosi con un trascorso ingombrante e doloroso. Father And Son alla fine si ritrovano, dunque, per dialogare e trasmettere al mondo uno straordinario messaggio di pace.
David Nieri