Domenica 22 marzo 2020, IV domenica di Quaresima
Domenica Laetare Jerusalem, prima domenica di primavera
LIBRI LIBRI LIBRI
Nonostante la crisi nella vendita dei libri, che si somma a quella dello stop editoriale e distribuzionale dovuto alla pandemia, di libri a giro ce ne sono moltissimi e c’è solo l’imbarazzo della scelta.
D’altra parte, per non abusare della pazienza dei lettori di questo troppo lungo numero 274, mi limito a due libri che potrebbero cambiare radicalmente modo e qualità di giudizio di molti su due momenti specifici della vita politica dell’ultimo secolo. Due temi specifici: primo, la Repubblica Sociale Italiana, la “repubblica di Salò”, della quale pochi sanno abbastanza mentre è generalizzato un giudizio di condanna senza sfumature e senza appello; secondo, quel ch’è accaduto in Afghanistan dall’indomani dell’11 settembre del 2001 a oggi.
Nel primo caso, consiglio la rilettura di un’opera in due grossi volumi pubblicati in una sede affidabile e autorevole: il Ministero per i Beni e le Attività Culturali che, nelle sue edizioni, ha ospitato nell’ormai lontano 2002 questo lavoro a cura di Francesca Romana Scardaccione che è passato in apparenza sotto silenzio mentre avrebbe dovuto dar luogo a molti interrogativi. Si tratta di una raccolta di documenti custodita nell’Archivio Centrale dello Stato, Verbali del Consiglio dei Ministri della Repubblica Sociale Italiana nella quale figura una significativa sezione, Alcune idee sul futuro assetto politico e sociale del popolo italiano. Riguardo a tale problema e ai documenti ad esso relativi, a cominciare dal fin troppo noto e citato “Manifesto di Verona” (i cosiddetti “diciotto punti”), solo alcuni studiosi davvero seri e competenti vi hanno prestato attenzione: per la stragrande maggioranza degli “osservatori” o sedicenti tali, come della folla dei pubblicisti e degli opinion makers, si trattava solo di messinscena, di velleità utopistiche da disperati che ormai si sentivano in trappola, di specchietti per le allodole che nascondevano solo la proterva volontà di proseguire sulla linea di un collaborazionismo criminale con il nazismo.
Qualche ragionevole dubbio potrebbe tuttavia nascere, soprattutto se volessimo riconsiderare certe figure della leadership “repubblichina” che decisamente sfuggono ai normali clichés in materia. Figure che corrispondevano a personaggi che non erano né ignoranti, né sciocchi, né fanatici, né imbecilli, né disonesti. Uno per tutti, non a caso quasi mai ricordato e poco studiato: e non solo per la sua morte precoce, dal momento che morì appena quarantunenne. Carlo Alberto Biggini. Nato a Sarzana nel 1902, nemico giurato della violenza e del fanatismo, ostile all’utopismo marxista come alla fin troppo realistica tracotanza capitalista e solidamente ancorato a una visione etica, mazziniana, della politica, aveva conseguito giovanissimo due lauree – giurisprudenza a Genova, scienze politiche a Torino – e collaborava a una rivista gobettiana genovese, “Pietre”. Aveva studiato con Gioele Solari, con Guido de Ruggiero e con Benedetto Croce. Inizialmente avversario e quindi critico rigoroso e sospettoso del fascismo, ostile dopo il 1925 alla dittatura, cominciò tuttavia progressivamente a ricredersi dinanzi alle obiettive realizzazioni del regime. Fu l’approfondimento delle tematiche connesse con il corporativismo e al rapporto fra esso e la dottrina sociale della Chiesa a convincerlo che il fascismo fosse in grado di sintetizzare e superare sia il socialismo, sia il liberalismo. Deputato, quindi volontario in Africa, poi direttore della scuola superiore di scienze corporative dell’università di Pisa e infine, appena trentanovenne, rettore della medesima università in stretta collaborazione con Giovanni Gentile, scrisse una Storia inedita della Conciliazione sulla base di documenti riservati fornitigli direttamente da Mussolini, che nel febbraio del ’43 gli affidò il ministero dell’Educazione Nazionale. In tale veste era presente nella celebre riunione del 25 luglio e votò contro l’Ordine del Giorno Grandi, che forse per molti versi approvava, solo per un senso di fedeltà e di affetto nei confronti di Mussolini. Lo stesso sentimento che poche settimane dopo, pur intimamente convinto che il paese stesse scivolando verso la sconfitta e la guerra civile e si sentisse lontano dal fascismo repubblicano, accettò “per pura fedeltà personale al Duce” di venir confermato nel suo dicastero. Il lavoro curato dalla Scardaccione contiene appunto una “bozza di costituzione” della Repubblica Sociale Italiana in 152 articoli improntato ai princìpi mazziniani rigorosamente svolti in un senso che oggi potremmo forse definire lib-lab. Colpisce che il termine “fascismo” non ricorra mai nemmeno una volta in questo documento, dalla Scardaccione pubblicato solo in parte. Vi si configurava una repubblica presidenziale monocamerale e pluripartitica, con elezioni a suffragio universale.
La nuova costituzione non sarebbe forse mai passata nemmeno se – per assurdo – la guerra fosse stata vinta in extremis dalla Germania nazista e un qualche esperimento fascista repubblicano si fosse reso formalmente possibile. Pure, nel contesto delle infinite articolazioni dell’esperienza fascista, l’esperimento di questa “costituzione mazziniano-mussoliniana afascista” non dovrebb’essere ignorato; e la personalità di Biggini meglio studiata, non meno del resto di quella di un altro enigma, Nicola Bombacci. Tantopiù che Biggini morì sì giovane, ma non di morte violenta. Il 19 novembre del ’45 si spense, ucciso da una malattia misteriosa. Possedeva a quanto pare, quando morì, una copia del fantomatico carteggio Mussolini-Churchill, che il Duce gli aveva affidato confidando forse nel suo profilo d’intellettuale e di studioso probo e al di sopra della mischia. Ma quel documento gli fu sottratto. Il rapporto fra quella sottrazione e la sua poco limpida dipartita non sono ancora stati chiariti.
La fine di Biggini si collega pertanto alla vexata quaestio di quella di Mussolini e dei documenti che secondo alcuni egli aveva con sé al momento della cattura. Si è esercitata molta fantasia al riguardo: ma il problema resta.
Non è invece ormai misteriosa, purtroppo, la faccenda della brutta storia relativa all’aggressione statunitense all’Afghanistan nel 2001 con l’alibi della “lotta contro il terrore” e alla definitiva distruzione della sua compagine statuale, che non si era mai ripresa dopo l’invasione sovietica e l’inquinamento fondamentalista della resistenza ad essa. Ormai, il problema è quello di un paese dalle istituzioni profondamente corrotte, controllata dal narcotraffico. Enrico Piovesana, collaboratore del periodico di Emergency “Peacereporter” e de “Il Fatto quotidiano”, ha pubblicato nel 2016 presso l’editrice Arianna di Bologna un pamphlet tanto impietoso quanto ohimè attendibile, Afghanistan 2001-2016, la nuova guerra dell’oppio. Queste le sue conclusioni: “È ormai un dato storiografico acquisito che le guerre, tutte le guerre non vengono combattute per difendere la democrazia e la libertà dei popoli, bensì per tutelare interessi economici e politici di ristrette élites. Ma che tra questi interessi ci possano essere, ancora oggi, anche quelli legati al business della droga può suonare inaudito e inconcepibile, anche se tutto sembra portare a questa conclusione”. Ma il governo afghano, tutt’altro che estraneo a questa diffusa corruzione, è fortemente sostenuto dal governo e dalle forze armate statunitensi.