Domenica 29 marzo 2020, V Domenica di Quaresima
«La storia non avverte quando arriva», Giuseppe Conte, 28 marzo 2020
EZBA’ ELOHIM
Ezba’ Elohim. È la traduzione ebraica della frase con la quale, nel secondo libro della Bibbia, l’Esodo, i sacerdoti del faraone confessano al loro signore che il prodigio cui hanno assistito supera i loro poteri. Significa: “Qui c’è il dito di Dio”. È quello che, con espressione paretiana, noi definiamo “l’Imponderabile”. Hanno trasformato in serpenti le verghe, simbolo della loro potenza magica, e quella di Mosè, trasformata in serpente a sua volta, li ha divorati. È quel che nessuno può prevedere: quando si presenta, bisogna affrontarlo. Spero che il Coronavirus non sia potente come la verga-serpente di Mosè. E può darsi che il collega Giuseppe Conte sia più abile del faraone, che rispose nel modo peggiore alla sfida che gli era stata lanciata. Conte è uno studioso e un uomo di cultura: credo, non essendo un politico, sia mediamente molto migliore degli attuali politici di professione, categoria francamente alquanto mediocre, con punte di palese inadeguatezza.
ANTONIO MUSARRA
L’IMPONDERABILE NELLA STORIA
La parola MEME è entrata da tempo nello slang quotidiano. Forse in pochi sanno ch’essa fu coniata negli anni Settanta dal biologo neodarwinista Richard Dawkins, che la utilizzò nel suo Il gene egoista come unità significante di base passibile di propagazione per spiegare la diffusione delle informazioni culturali. In sostanza, essa indica un’idea che si diffonde velocemente nella cultura di massa. Oggi, nell’epoca dei social, il MEME non è che un’immagine o un breve video capace di concentrare in sé un significato spesso ironico o ironizzante. Ebbene: un MEME circolante in questi giorni, centrato su una frase del discorso tenuto da Giuseppe Conte il 28 marzo – “La storia non avverte quando arriva” –, tirando in mezzo sia il sottoscritto, sia Franco Cardini – forse, più opportunamente Franco Cardini che il sottoscritto –, mi ha suggerito qualche pensiero. V’è da essere grati a chi lo ha prodotto.
Le crisi – lo sappiamo –, di qualunque natura siano, costringono a fermarsi a riflettere. Quella che stiamo vivendo non è da meno. Da giorni – lo dico da cattolico incostante, da credente tormentato e da cultore di cose teologiche, oltre che storiche – vado interrogandomi sul ruolo di Dio nelle vicende umane, sui suoi vasti e incommensurabili silenzi, tentando di trovare risposta all’archetipo d’ogni domanda: la ricerca d’un senso. Se fossi vissuto ottocento anni fa avrei esordito, forse, ripescando un vecchio adagio: «nostris peccatis exigentibus», ma qualche secolo di Cristianesimo in più ha mostrato come il volto del Padre sia misericordioso almeno quanto sfigurato sia quello del Figlio e di come l’essenza di Dio stia, piuttosto, nella compartecipazione alle miserie dell’uomo. Di fatto, la comprensione profonda di quel che sta accadendo – nel momento in cui si decida di andare oltre un mero meccanicismo – va al di là delle nostre possibilità. Non credo, tuttavia, che l’uomo possa accontentarsi dell’osservazione per cui eventi di questo genere, in fondo, rientrano nell’ordine naturale. Ditelo ai malati; ditelo ai loro cari. Più vado riflettendo, più vado convincendomi – lo dico citando Cinzio Violante: da “storico cattolico” e non, certo, da “cattolico storico” – che la storia non abbia senso alcuno. O, meglio – è quanto mi ha insegnato Franco Cardini, cui mi lega un lungo sodalizio –, che non abbia un senso immanente ma che ne abbia, piuttosto, uno trascendente, che, tuttavia, esula dall’interesse e direi anche dalle competenze dello storico o dell’aspirante tale. È, dunque, l’immanente l’oggetto primario della nostra indagine. E, però, è proprio qui che sta il problema.
Oggi, la ricerca storica soffre dei postumi d’un positivismo di ritorno incline a escludere ogni indagine che vada oltre il mero dato archivistico. La tendenza non è tanto a evitare l’«histoire problème» – così la definiva il grande Lucien Febvre –, ciò che ridurrebbe, davvero, lo studio del passato a un mero esercizio d’erudizione, ma a depotenziarne la portata speculativa, limitandosi a registrare i dati tenendo separati ambiti, invece, profondamente interconnessi: il politico dal religioso, l’economico dal sociale, e via dicendo. Il risultato è una progressiva spersonalizzazione dell’oggetto primario della storia: l’umano. Se ne indagano i comportamenti, l’organizzazione societaria, il sistema culturale, perfino le emozioni; ma si stenta a fornire visioni che non siano riportabili a una somma di dati documentari registrati con notarile acribia. La sensazione è di trovarsi al limitare d’una grande parabola che ha attraversato gli ultimi due secoli. Lasciando perdere il primo positivismo – quello d’un Ranke, traslato nel materialismo storico di origine marxiana che ben conosciamo –, si può dire che, al principio del Novecento, l’attenzione di certe correnti neopositivistiche s’appuntasse sostanzialmente sulla critica alla metafisica per privilegiare i fatti, bellici o diplomatici che fossero. Poi arrivò la Nouvelle Histoire, che, abbandonando i fatti, prese a favorire le interpretazioni. Quindi, si tornò ad affermare che di fatti s’aveva bisogno; ch’essi non erano che il punto culminante, emergente, di sommovimenti impercettibili, essendo parte d’un contesto sociale, culturale, religioso, politico, economico da cui non si poteva astrarre. Oggi, la tendenza è ad abbandonare le interpretazioni in quanto puro regno del soggetto; dunque, ideologizzanti, da ritenere alla stregua di opinioni. Ciò ha finito per ridurre la storia a mera descrizione – di fatti, comportamenti, idee, legami economici –, spesso avulsa da quella che dovrebbe essere la sua caratteristica principale: porre sul piatto dei problemi, ovvero ha favorito l’atteggiamento opposto, relegando la storia a mera decostruzione della fonte (ben al di là di quanto insegnato da Arsenio Frugoni), suggerendo che del passato non si possa conoscere nulla. Si tratta di qualcosa che ho sperimentato personalmente, salendo la china del descrittivismo, sforzandomi d’operare contestualizzazioni, riducendomi a registrare nomi, stilare prosopografie, stabilire flussi commerciali, ricostruire carriere – di artigiani, mercanti, imprenditori, ufficiali cittadini –, nell’illusione che ciò potesse avvicinarmi, ben più del relativismo che credevo adombrato in determinate posizioni, a essere “come l’orco della fiaba”. Eppure: siamo sicuri che tale tendenza consenta di cogliere meglio l’essenza «degli uomini nel tempo»? Non sarà, forse – come riteneva Edward Carr –, che la storia si giochi, piuttosto, nel dialogo incessante tra il mio io cosciente e il passato (ma, vorrei, dire, il problema) che vado studiando? Si tornerà mai a provare quella “tristezza dello storico” di cui parlava Henri-Irénée Marrou consapevoli del fatto che la ricostruzione puntuale del passato sia piuttosto una chimera?
È esperienza comune: nel momento in cui lo storico mette su carta il proprio lavoro si costringe a riannodare i fili d’un ordito sfuggente, caratterizzato da maglie apertissime. Egli l’affronta armato delle proprie conoscenze, pur sapendo che potrà accedere solamente a verità parziali, continuamente da ridiscutere: tentando di bilanciarsi tra strutture ed emergenze, continuità e discontinuità, processi e rotture; cercando d’individuare i momenti in cui la storia subisce accelerazioni o rallentamenti; illudendosi d’imbastire un discorso in cui tout se tient. In realtà, quel ch’egli ricostruisce non è che un mondo tra i tanti possibili: una “terra di Mezzo” suscettibile di mutare aspetto. Ma ciò – si badi – non è qualcosa di necessariamente negativo. Non bisogna credere che la ricerca storica sia puro relativismo. Se il metodo è imposto dall’oggetto, se il problema che lo storico si pone ha a che fare con l’umano, il fatto che lo storico appartenga a tale categoria può essere un ostacolo nella misura in cui egli s’affacci all’oggetto della sua ricerca con un pregiudizio. Contrariamente, non potrà ch’essergli d’aiuto. Piuttosto, è la sua coscienza a costituire il problema. Ma la coscienza può essere esercitata. Soprattutto, ad abbandonare quell’arroganza che ci fa dire: «Ho ragione io!». Insomma, io penso all’io cosciente – l’io che cerca, che indaga razionalmente sul passato – come a una lente d’ingrandimento: più l’oggetto m’interessa, più ne ho familiarità, più provo verso di esso un sentimento d’affetto, più sarà la mia soggettività, esercitata dall’amore per il problema che mi sono posto, a permettermi di coglierlo nelle sue strutture più profonde, senza per questo ritenere di coglierne ogni sfaccettatura. Si tratta d’un modo di procedere più comune di quanto si pensi. Qualcosa di cui tutti facciamo quotidianamente esperienza. Che mostra una volta di più come la storia o è esegesi o non è. I fatti di questi giorni mostrano quanto illusorio sia tentare di comprendere asetticamente i meccanismi d’una crisi globale. Non esistono rapporti di causa-effetto che non possano essere messi in dubbio. Le cose apparentemente semplici conoscono una quantità di variabili inimmaginabile. La risposta non può prescindere dall’analisi della complessità. Perché la storia – ce lo ha detto Montale – «non si snoda / come un catena / di anelli ininterrotta». Essa è, piuttosto, il regno dell’imponderabile. Sì, di quell’imponderabile teorizzato da Vilfredo Pareto proprio innanzitutto dell’uomo ma ancor più della storia in sé. È questo il motivo per cui essa non è «magistra di niente che ci riguardi». Costituisce – questo sì – il più grande serbatoio possibile di esperienze cui l’essere umano possa attingere per dirigere i propri passi. E ciò, da solo, può giustificarne l’approfondimento e l’insegnamento. Ma è l’oggi il miglior professore. È dall’oggi – e, in particolare, da quest’oggi così tragico – che possiamo imparare. Fino a che non dimenticheremo nuovamente. Per poi ricostruire. In fondo, la storia non è altro che libertà. Libertà dell’uomo, libertà del cosmo, libertà di Dio.
Concordo con Antonio e non ho nulla da aggiungere. Salvo, forse, un rilievo di carattere storico-teologico: una dimensione nella quale, peraltro, lui ne sa più di me.
Non dobbiamo scordare che noi cattolici – a differenza di molti cristiani riformati e dei musulmani – usiamo distinguere, all’interno della per noi tutti Onnipotenza divina, una Potenza assoluta e una Potenza ordinata. Per la teologia cattolica, Dio, all’atto della Creazione, ha fondato le leggi naturali che reggono il cosmo e ci si è volontariamente sottomesso, riservandosi, beninteso, il diritto di deroga (e ciò è il miracolo). Quindi, quando arrivano i cataclismi naturali, Dio non sta proprio punendo nessuno. Certo, da parte nostra è lecito chiederGli il miracolo, vale a dire la sospensione, grazie alla Sua onnipotente volontà, di un percorso naturale. Il Vangelo di oggi, con l’episodio di Lazzaro di Betania, ne è un bell’esempio. È legittimo pregare Dio, legittimo confidare nel Suo amore e nella Sua compassione. Ma le Sue strade non sono le nostre. Lo ripetiamo noi stessi, ogni volta che ripetiamo il Pater noster. Che sia fatta la Tua volontà. Se l’accettassimo con gioia, quella sarebbe la Perfetta Letizia di cui parla Francesco d’Assisi. Ma quella è roba da santi: Dio non ci chiede tanto. Gli basta di vederci evitare sia la rassegnazione, sia la disperazione. Per la seconda, un cattolico appena degno di questo nome, non può aver dubbi. Per la prima, bisogna intenderci. Si tratta di accettare la volontà di Dio: se non con la gioia, che solo i santi sanno esprimere quando essa è lontana dai desideri e dalle speranze umane, con intimo e sereno consenso. Non c’è nulla di “rassegnato” nel Fiat voluntas Tua. C’è accettazione serena e cosciente, che non esclude la preghiera tesa a supplicarlo di mutarla se ciò è quanto desideriamo e se siamo convinti che il nostro desiderio non sia intrinsecamente contrario al Suo progetto. È l’intimo e sereno consenso, che chi conosce Dio attraverso il Corano, esprime con una parola bellissima: Islam.