Minima Cardiniana 278/6

Domenica 19 aprile 2020, Domenica in Albis

LIBRI LIBRI LIBRI
IL RITORNO DI UN CLASSICO
La cooperativa editoriale Il Cerchio di Rimini è decisa a proseguire, con questo prezioso ad ancor poco conosciuto saggio, il suo “cantiere culturale” dedicato ad Attilio Mordini e alla sua opera, aperto nel 1995 e che pertanto si appresta a celebrare il suo 25° anno di attività. Mordini continua ad essere un personaggio ancora da scoprire per intero, nonostante molti siano gli studiosi e le persone di cultura che lo giudicano un vero Maestro del XX secolo. Il mito primordiale del Cristianesimo quale fonte perenne di metafisica, pubblicato per la prima volta da Vanni Scheiwiller nel 1976 e da lungo tempo esaurito, segue per i tipi del Cerchio la nuova edizione de Il Tempio del Cristianesimo (2006) e di Dal mito al materialismo, testo originariamente composito e pertanto riproposto al lettore italiano in due volumi: Verità della cultura (1995) e Il segreto cristiano delle fiabe (2007).
Opera sintetica e di straordinaria densità, Il mito primordiale del Cristianesimo quale fonte perenne di metafisica vide la luce “in die Incoronationis Pauli VI Pontificis romani et maximi”, in una temperie culturale e spirituale particolarmente avversa alle tesi dell’Autore, soprattutto nell’ambito degli studi teologici che conobbero una lunga stagione in cui parve divenire egemone una serrata “demitizzazione” del cristianesimo, colto se non come una “non religione”, al massimo mero racconto simbolico di una comunità, fino a ridurlo dentro i confini di una teologia razionalistica se non apertamente ateistica. Una moda culturale che oggidì, a più di 40 anni dalla prima edizione di questo testo, appare aver consumato la propria parabola discendente.


Il rapporto fra la Rivelazione cristiana e il Mito, antico, classico e precristiano, ed il linguaggio mitico è il cuore di questo lavoro mordiniano, che appare in tal senso non solo precursore, ma ancor oggi autorevole testimone delle ragioni per cui un dialogo fra le diverse tradizioni religiose possa elevarsi al di sopra del mero livello retorico, o della condivisione filantropica di buone opere. Farsi carico dell’elevatezza della prospettiva dei Padri della Chiesa, e della vertigine della divina Economia cosmica di salvezza da essi illustrata, come chiave e metodo di un corretto dialogo interreligioso, non costituisce nemmeno oggi un traguardo consolidato e chiaro a tutti; questo saggio è quindi oggi ancor più necessario di ieri, proprio in quanto costituisce un invito denso e vibrante a coltivare una retta sensibilità verso l’appercezione simbolica delle Sacre Scritture, al di là di ogni riduzionismo ed individualismo.

TUTTI I COLORI DI MICHEL PASTOUREAU
Che la A sia nera e la C sia rossa lo sappiamo tutti: ce l’ha spiegato Rimbaud nella poesia Voyelles, che conoscono anche i bambini (anzi, soprattutto i bambini). Anche le note musicali hanno ciascuna un loro colore: e gli studiosi di storia dell’arte ma anche gli amanti degli oroscopi sanno che ogni colore ha un suo significato: anzi, è simbolo di qualcosa; più ancora, può esser simbolo di molte cose diverse e magari contrastanti. Noialtri occidentali siamo soliti associare il nero al lutto e il bianco alla festa, ma per i cinesi (come per gli antichi romani) il bianco è al contrario un colore funebre, mentre gioioso e festivo è il rosso, che tale può essere anche per noi ma ch’è anche, per la nostra sensibilità, eccitante (pensate alla corrida; o al celebre abito rosso di Marylin Monroe), allarmante e minaccioso: e comunque simbolo di divieto e di pericolo (il rosso dei semafori e delle bandiere sulle spiagge quando il mare è mosso). Quanto al verde, colore della speranza che ci suggerisce immagini di pace e di riposo, qualcuno troverà paradossale che esso sia contemporaneamente il simbolo dell’Islam e di un partito politico, la Lega, che con la religione coranica non simpatizza granché.
Siamo comunque circondati dai colori; e il colore è anche un importante oggetto di studio, dall’ottica all’antropologia. Michel Pastoureau, medievista tra i più noti al mondo, è forse il più grande e il più famoso (e certo il più grasso, aggiungerebbe lui con la sua ormai celebre autoironia) tra gli specialisti della storia dei colori e della disciplina detta cromoantropologia. Si occupa principalmente di due temi, sui quali ha scritto molti libri fra i quali alcuni best sellers di grande successo: la storia dei colori, appunto, e la simbolica medievale degli animali. I suoi libri sul blu, sul nero, sul rosso, ma anche sull’orso, sul maiale e sul lupo, sono celebri: e, pur essendo rigorosamente fondati sul piano metodologico-scientifico, riescono sempre anche di gradevolissima lettura. Leggere la sua ultima opera tradotta in italiano, Un colore tira l’altro (Firenze, Ponte alle Grazie, 2019, pp. 229, 16 euri), è veramente una festa.
Badate: è un libro meno “leggero” di quanto il suo titolo sembrerebbe promettere: anzi, è molto serio nella sostanza, come sempre quando si toccano con dottrina ed esperienza temi che sono anche – ma non solo – sociologici e psicanalitici. I colori e le loro combinazioni ci condizionano molto più di quanto non crediamo: e non solo rispetto allo sport o alla politica. Questo, poi, è in qualche misura anche un’autobiografia (il sottotitolo suona difatti Diario cromatico). Ma il bello è che risponde più volte a molte nostre magari inconsce domande: a cose, come si dice, che non abbiamo mai osato chiedere.
Può darsi che diventar gialli o verdi di bile o d’invidia, o rossi di vergogna, o bianchi di paura, o neri di cattivo umore, siano variazioni cromatiche ovvie: ci sono motivi fisiologici per questo. Ma voi conoscere davvero le ragioni cromatiche alla base della scelta dei colori dei semafori? E sapete perché molte bandiere sono tricolori, e c’è sempre una dichiarata “la più bella”? Io e Pastoureau, a costo di farci lapidare dai nostri rispettivi connazionali, sosteniamo che né quella italiana, né quella francese sono tali; lui propende per la giapponese e le groenlandese, io non ho dubbi: quella del Québec, a pari merito con quella albanese. Ma altri episodi rendono queste pagine illuminanti e al tempo stesso irresistibili. Che ne pensate di un hotel svizzero di lusso che vi offre camere da letto con lenzuola nere? Vi sta suggerendo una turbinosa notte erotica o vuol portarvi male? E siete davvero convinti di poter dominare – a proposito di eros: e non solo… – tutte le sfumature del grigio? E come reagireste se, trovandovi a passare una notte in una residenza vaticana, vi trovaste in una camera da letto con relativa sala da bagno rigorosamente monocroma e tutta color cioccolato, per non pensare a meno gradevoli sostanze?
Per non parlar poi delle variazioni cromatiche cutanee, magari associate a un allarmante sfogo di natura allergica: vesciche dal rosa confetto al viola pervinca, attraverso tutte le gradazioni del rosso.
Insomma, viviamo di colori ma non ci pensiamo abbastanza. Il colore è come la libertà, la salute, la giovinezza: si comincia a capirne l’importanza solo quando ci manca, finché c’è riteniamo normale che ci sia e non ci facciamo attenzione. Continuiamo così: continuiamo a farci del male…

LEWIS, INDIMENTICABILE E INDISPENSABILE
Quando mi chiedono che cosa leggere per aver sul serio un’idea del cosiddetto medioevo, e di quel che tale periodo (per convenzionalmente “costruito” che sia stato a posteriori, come qualunque periodo storico, da noialtri moderni) ha davvero significato per la nostra civiltà, e che cosa abbiamo spiritualmente perduto con la sua fine, e soprattutto quando mi chiedono che cosa può capire e che cosa deve ricordare un cristiano dalla lezione del medioevo, non ho dubbi: propongo un piccolo libro di Clive Staples Lewis, L’immagine scartata, edito in italiano anni fa dalla Marietti e che, se fosse fuori catalogo, sarebbe indispensabile ripubblicare. Uno dei pochi libri indispensabili della mia ormai molto vasta biblioteca di medievista.
Clive Staples Lewis nacque a Belfast nel 1998. Non era la città migliore per nascervi cattolici, ma certo una delle più stimolanti. L’anno della sua nascita – guarda caso – era l’Anno dei portenti: quello appunto della magica “generazione del ’98” alla quale appartengono anche quella magica “generazione del ’98” che tanto profondamente ha segnato la poesia, la letteratura e la cultura del nostro secolo. Veramente, tale espressione appartiene anzitutto alla cultura e alla letteratura spagnola: il 1898 è difatti – con la sconfitta nella “guerra di Cuba” contro gli Stati Uniti – l’anno della fine dell’impero coloniale di Spagna, Ma, un po’ in tutta l’Europa cattolica quell’anno venne preso a simbolo di un tournant de siècle.
Ebbe poco successo una decina di anni fa, qui da noi, il film Shadowlands, tratto da una pièce teatrale che in Inghilterra fu invece molto apprezzato e che era splendidamente interpretato da Anthony Hopkins. In italiano, la pellicola era stata banalmente battezzata Viaggio in Inghilterra: ed era la storia – ben poco appetibile, in tal modo presentata – dell’amore d’una signora ebreo-statunitense nato a distanza per un malinconico professore inglese che vive rintanato tra i riti stereotipi d’una Oxford in apparenza sempre uguale a se stessa e che scrive fiabe per ragazzi.
Shadowlands, “le Terre dell’Ombra”. Ormai tutti conoscono John Ronald Reuel Tolkien e Il Signore degli Anelli, dopo il travolgente successo cinematografico. Ma forse solo quelli che hanno passato almeno il mezzo secolo ricordano che cosa significò, a metà degli anni Settanta, l’arrivo nel nostro paese – in ritardo – di quel capolavoro: ch’era stato pubblicato dall’Editore Rusconi su consiglio di un indimenticabile, coraggioso e raffinato intellettuale controcorrente, Alfredo Cattabiani, al quale non saremo mai grati abbastanza; come non lo saremo mai alla brava e sensibile traduttrice dell’opera, Vittoria Alliata. Ma nell’Italia di allora, provinciale quasi più di quanto non lo sia adesso, provincialismo e conformismo vestivano panni “di sinistra”: quasi tutti ignoravano che cosa Tolkien significasse altrove, dal Canada agli Stati Uniti all’Inghilterra all’Australia; e molti fingevano d’ignorare come la sua “letteratura d’evasione” fosse una delle scaturigini profonde della “rivoluzione” del Sessantotto.
Ci si allarmò allora dinanzi alle prospettive di fuga eroico-fantastica dell’immaginazione che esso pareva proporre e che sembrava in grado di turbare quell’impegno sociale e politico ch’era l’oppio soprattutto dei giovani e degli intellettuali del tempo. Shadowfax, “Mantello d’Ombra”, era il nome d’un cavallo incantato della saga di Tolkien.
Il protagonista di Shadowlands, il triste e riservato professore di Oxford, non era il gioviale e sanguigno Tolkien, bensì un suo sensibile amico: membro, come lui, d’una strana ed eterogenea famiglia – gli “Inklings”, gli “Inchiostringi” – della quale faceva parte anche l’anglicano-esoterista Charles Williams (vicino all’associazione esoterica della Golden Dawn), il domenicano medievista Gervase Matthews e Tolkien stesso. Tra gli Inklings – per quanto non del tutto identificabili con essi – un gruppo ristretto era quello dei cosiddetti Oxford Christians: cattolici o anglicani, sovente convertiti dopo un passato laico o agnostico, stretti attorno alla ricerca filologica e poetica e diffidenti nei confronti degli esiti dissacranti della Modernità.
Il protagonista di Shadowlands è uno dei maestri della “generazione del ’98”: appunto Lewis, nato in quell’anno dei portenti a Belfast e che al principio degli anni Trenta – fra l’insegnamento universitario e la quieta redazione di affascinanti racconti per ragazzi (il “Ciclo di Narnia”) – fu “sorpreso” da una crisi religiosa che sarebbe divenuta il vero tournant della sua vita. Ne sarebbero nati alcuni libri straordinari di meditazione religiosa: da The Screwtape Letters (“Le lettere di Berlicche”), un’irresistibile e impietosa presentazione del mondo moderno attraverso l’immaginaria corrispondenza tra due diavoli corruttori, fino a Surprised by Joy, una meditazione profonda sul senso della vita e delle sue prove.
Attento ai problemi della lingua e della parola, studioso di filologia e di letteratura rinascimentale inglese, Lewis dedicò nondimeno al medioevo le sue cure più attente e amorose. È molto noto il suo studio sui rapporti tra filosofia e poesia medievali, Allegoria d’amore, edito nel 1936 e arrivato in Italia tardivamente, grazie comunque alla Einaudi. Ma si deve alla genovese Marietti se anche il pubblico italiano ha conosciuto – in ristretti ambienti, perché il “muro del silenzio” della critica conformista gli ha fatto il vuoto intorno – quello ch’è forse il suo lavoro più straordinario: L’immagine scartata. Si tratta di una magistrale guida al pensiero e alla spiritualità (come si diceva una volta, con termine ormai desueto) del nostro medioevo: il modo d’intendere l’uomo e l’universo che la Modernità ha, appunto, “scartato”. Lewis c’insegna come fra XI e XIV secolo la Bibbia, i classici, la tradizione orale dei popoli celtici e germanici andarono convergendo verso un’immagine di armonia e di coerenza, di serena e forte organicità. Questo autentico prezioso “compagno di strada” per chi vada in cerca di “radici” autentiche, al di là delle speculazioni demagogiche ormai a questa parola troppo spesso collegate. Non è il libro d’un romantico o d’un nostalgico: è l’opera paziente e amorosa d’un filologo che si addentra in un modo ormai “altro” – eppure ancora vicino, possibile, libero, a misura d’uomo – d’intendere il mondo.