Minima Cardiniana 259/1

Domenica 8 dicembre 2019, II Domenica di Avvento
Festa dell’Immacolata Concezione di Maria

A CHE PUNTO È LA NOTTE

A PROPOSITO DELL’EGUAGLIANZA (E DELL’OCCIDENTE)

È difficile esprimere compiutamente il debito che il mondo degli studi ha contratto nei confronti di Aldo Schiavone, che sarebbe senza dubbio molto riduttivo definire uno storico del diritto o dell’età antica; di recente, molto discussi sono stati i suoi saggi dedicati a Ponzio Pilato e a Spartaco, mentre molti suoi scritti recenti e recentissimi riguardano l’Occidente e il futuro della società. Suo è anche il merito di aver fondato, all’inizio di questo secolo, il fiorentino Istituto di Scienze Umane (SUM/ISU), che dopo anni d’intensa attività in una sede prestigiosa come il piano più alto del fiorentino Palazzo Strozzi è confluito, come Istituto di Scienze Umane e Sociali, nella compagine della Scuola Normale Superiore di Pisa.

L’ultimo frutto dell’intenso lavoro intellettuale di Schiavone è un libro che sta facendo molto rumore, Eguaglianza (Torino, Einaudi, p. VIII-384, euri 20). E che in realtà ha l’aria, al tempo stesso, di un rigoroso esame di coscienza, di un duro J’accuse alla “civiltà occidentale” e dell’esame genetico, in termini tanto storici quanto antropogiuridici, di un’utopia. A meno che all’eguaglianza non sia applicabile la stessa definizione proposta da Luciano Canfora, in un altro celebre saggio, per la democrazia. Quella cioè di “ideologia”.

Se per alcuni grandi sistemi filosofici e sociopolitici dell’Occidente sette-novecentesco l’eguaglianza è potuta apparire una magari imprescindibilmente necessaria “mèta” sotto il profilo etico e un “naturale” punto d’arrivo per la società, forse più arduo appare oggi, anche alla luce delle maggiori conoscenze da noi conseguite nei confronti dei sistemi intellettuali diversi da quello che amiamo ancora definire “il nostro Occidente”, guardare ad essa come il “naturale” punto di partenza di una dinamica che ha poi variamente ma implacabilmente teso verso la diversificazione e la diversità. All’originale eguaglianza di tutti gli esseri umani guardarono le utopie medievali, partendo da quella che puntava però sul principio dell’anima immortale di ciascuno e sul presupposto di un’omogeneità che – nella Grecia della seconda metà del V secolo a.C., quando essa apparve – si presentava piuttosto come un’idea d’origine anassagorea connessa con l’aspetto fisico fisiologico; mentre fu Erodoto a formulare per primo l’idea dell’eguaglianza degli uomini dinanzi alla legge, l’“isonomia”, e fu tra l’era di Pericle e quella di Aristotele che si perfezionò il concetto di polis come di “comunità di uguali” dove tuttavia erano la “virtù” e la capacità di giovare alla società a far accedere alle cariche pubbliche, le quali di per sé costituivano pertanto un elemento di distinzione – fondate quindi su un principio fondamentalmente élitario –; mentre la libertà, con il corrispettivo pericleo dell’eguaglianza tra cittadini, riguardava solo gli uomini liberi in una società che d’altronde basava la propria vita e la propria economia sulla fondamentale differenza tra uomini e donne (sottolineata da Aristotele) e su un sistema schiavistico.

Il diritto romano, codificando il principio della libertà come patrimonio del civis Romanus e stabilendo in ciò la differenza fondamentale tra questi e il barbaro soggetto alla servitù, dovette peraltro fare i conti, almeno dall’età imperiale, con l’impiantarsi nella res publica di un diritto di “regalità sacra” d’origine alessandrina ad esso originariamente estraneo e spingersi ad affermare, con Ulpiano, che esisteva un conflitto tra il diritto civile, che ad esempio negava personalità agli schiavi, e quello “naturale” che ne postulava l’eguaglianza rispetto ai liberi secondo un principio difeso, ad esempio, dallo stoico Seneca. Il cristianesimo, con la sua idea di eguaglianza nata dal concetto di fraternità di tutti gli uomini dinanzi a Dio e al loro comune finale destino, giunse a consentire da definizione – con Tertulliano – di persona, in quanto oggetto di creazione divina e soggetto titolare di diritti e di doveri: una dimensione questa che si fondava – appunto nello scambio tra diritti e doveri, regolato dalla legge – sul complesso delle relazioni sociali scandite peraltro lungo i gradini d’una multiforme scala gerarchica (il sesso, l’età, l’appartenenza a sistemi differenziati d’ordine fisiologico, familiare, sociale, economico, culturale).

Secondo Schiavone, dopo la lunga elaborazione antica e medievale e alla luce della “discontinuità” maturata negli ultimi due secoli del medioevo ed emersa con il recupero del pensiero antico, con le scoperte geografiche, con le invenzioni e infine con “l’economia-mondo” egemonizzata dagli europei, è appunto l’idea di eguaglianza quella costitutiva dell’Occidente moderno: che ha elaborato un concetto nuovo – per quanto rivestito di un termine antico, addirittura già agostiniano –, quello di individuo, autentico motore dinamico del mondo moderno con i suoi correlativi strumenti e meccanismi di proprietà, di credito, di produzione, di sviluppo, destinati a passare da un’originaria empiricità a valori sempre più sistemici. D’altronde, se la democrazia moderna si è sviluppata sui due valori di “libertà” individuale e di “eguaglianza” morale, tendenzialmente avviata a divenire anche socioeconomica – tali, insieme con la “fratellanza”, le due componenti del trinomio rivoluzionario francese –, appare necessario (e Schiavone sembra glissare sull’argomento) riflettere su due dati. Primo: la complementarità forse, ma soprattutto l’obiettiva divergenza dei due valori di “libertà” e di “eguaglianza” e delle correnti di energia originate da ciascuno di essi; e, all’interno del primo di essi, la libertà, l’insorgere impetuoso della “volontà di potenza” individuale, che presto si trasferisce anche alle comunità e alle istituzioni (statuali e classistiche soprattutto). Secondo: il fatto che l’eguaglianza affermata concordemente, sia pure con accenti e moduli differenti, dai pensatori politici occidentali è stata sempre da loro concepita in pratica (a parte le formulazioni “universali” di principio) come dato di fatto e patrimonio esclusivo della società occidentale, che essa – nei suoi ceti dirigenti e nella sua politica – ha sempre stentato ad attribuire ad altre culture e che, quando lo si è fatto, ha costituito sempre un cammino percorso con reticenza ed esitazione. In altri termini, la libertà e l’eguaglianza “naturali” e “necessarie” per gli europei – i quali frattanto, almeno tra Sette e Novecento, hanno compiuto anche il “processo di secolarizzazione” che ha spogliato entrambi i valori di qualunque connotazione e giustificazione metastorica e metafisica – sono state variamente negate prima, concesse con limitazioni ed eccezioni poi, ai popoli degli altri continenti. La parabola del colonialismo insegni: e quel decrepito ventre – attenzione! – è ancora gravido; e il sonno della decolonizzazione-neocolonizzazione non ha ancora smesso di generare mostri. Lo stesso Karl Marx, esortando i lavoratori di tutto il mondo a unirsi, pensava certo agli operai e ai contadini europei: e già agli olivocultori toscani e ai pastori greci molto meno che non agli operai tedeschi o inglesi o francesi: ma poco o nulla ai cammellieri arabi, ai montanari afghani e ai pescatori indocinesi.

E non parliamo della libera America che, nella “Dichiarazione d’Indipendenza” dei suoi 13 stati, scandiva: “Noi riteniamo evidente che gli uomini siano stati cerati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di diritti inalienabili, tra cui i diritti alla vita, alla libertà e alla ricerca della felicità”. I “neri”, i native Americans, gli “iberici”, gli stessi immigrati dall’Europa negli States fra Otto e Novecento, impararono presto e bene quanto valessero quei princìpi tanto solennemente dichiarati.

Da qui, ormai, il dramma della più recente fase della globalizzazione: da qui la scoperta che l’Occidente, seminando concettualmente eguaglianza e socialmente diversità, ha raccolto l’eredità per esso stesso paradossale di un mondo mostruosamente contraddittorio, dove la spaventosa sperequazione socioeconomica tra un’infima minoranza di straricchi e moltitudini innumerevoli di poverissimi sta configurando una nuova, immensa rivoluzione epocale dal momento che ad essa si va associando la progressiva presa di coscienza di una diversità immensa, incolmabile, che i subalterni di tutto il mondo vivono in termini d’ingiustizia o, come ama dire papa Francesco nel suo italiano tinto di castigliano, di “ineguaglianza”: un termine che odora di “disparità”, ma ch’è meno affine al concetto di “disuguaglianza” che non a quello di “ingiustizia”, pensata nei termini latino-cristiani di “iniquità”. È con questi nuovi orizzonti che sono chiamati a confrontarsi coloro che credono nell’eguaglianza come fondamento di democrazia e come eredità civile affidata alla storia dall’Occidente. È tra loro, il mio vecchio amico Aldo?

Dal canto mio ritengo, e al riguardo mi appoggio soprattutto al magistero di papa Francesco, che ormai il tempo dell’Occidente – il quale nel Novecento è stato essenzialmente un’idea-forza à tête americaine – sia terminato, e che gli europei debbano cessare di riconoscersi acriticamente come “occidentali” e riscoprire le loro radici identitarie (radicate non già nell’astrattezza di un qualche atavismo genetico, bensì nella concretezza della storia) che, a dirla con Ferdinand Tönnies, debba fondarsi sulle comunità tradizionali della famiglia, del lavoro, del retaggio culturale che peraltro di continuo si rinnova, quindi sulle differenze che sono una ricchezza inalienabile, anziché sulle convenzioni contrattualistiche dalle quali sorgono le società con le loro astratte pretese egalitarie. Non è all’appiattimento egalitaristico che dobbiamo mirare, bensì alle vive differenze elaborate dalla natura, dall’ambiente, dalle tradizioni, dalla storia, e sostenute tuttavia da un vivo senso di equità anche sociopolitica e socioeconomica. In questi tempi segnati da un massimo di anomica e amorale licenza individualistica, da una disastrosa caduta dei princìpi di disciplina e di autodisciplina, dall’eclissarsi di quel “senso del limite” indispensabile nell’equilibrio di qualunque civiltà, da un dilagare generalizzato del desiderio dell’avere e dalla fine della preoccupazione per l’essere, da un crescere esponenziale della violenza e della paura, il piano inclinato sul quale ci troviamo a scivolare è – lo aveva già compreso due millenni e mezzo fa il vecchio Platone – quello verso l’abominio della tirannia: che sarà per giunta accolto (è già accaduto) come una liberazione. È questa caduta vertiginosa che dobbiamo evitare, se – e non è detto – siamo ancora in tempo. Altrimenti, prepariamoci a una risalita che sarà lenta e dolorosa.

Ma per giungere a costruire, com’è necessario se non vogliamo precipitare, un mondo libero sia dall’oligarchia di superstraricchi oggi imposta dal turbocapitalismo, sia dalle moltitudini di miserabili costretti a vivere non già al di sotto del livello di sopravvivenza bensì, ancor peggio, di quello del minimo di dignità al quale ogni essere umano ha diritto, è necessaria una guida. Non già quella della “Dichiarazione d’Indipendenza” degli Stati Uniti d’America, fondata sull’utopia della “ricerca della felicità”, bensì quella della Bibbia, del Vangelo e del Corano, fondata sulla Parola di Dio ch’è Giustizia e Pace.