Domenica 3 maggio 2020, Santi Filippo e Giacomo
INTRODUZIONE
In tempi di epidemia e – soprattutto – di disorientamento, prendiamoci una piccola pausa. Tutti vogliamo “tornare alla normalità”. E, al tempo stesso, vorremmo che tutto cambiasse. Due istanze che parrebbero contraddittorie: e magari lo sono. D’altronde, lasciatemi fare il mio lavoro: che, bene o male, è l’unico che so fare. Tutti ci abbiamo rimesso o ci stiamo rimettendo, da questa pausa forzata e dalla coscienza delle incerte prospettive di ripresa (o di nuove svolte della crisi). Anche i libri soffrono. Soprattutto del fatto che evidentemente non sono ritenuti generi di grande necessità. Che ristoranti e bar e caffè eccetera siano chiusi, preoccupa e magari fa imbestialire. È giusto. Ma che biblioteche, archivi, librerie e perfino edicole restino o siano stati chiusi a lungo, di questo sembra che nessuno si preoccupi.
D’altronde, è un’antica legge. La mancanza crea assuefazione. Chi ha provato qualche volta a stare a dieta, sa bene che dopo qualche giorno molto duro il digiuno crea inappetenza. Con la cultura, è la stessa cosa. Il modo migliore per non saper che farsene è far finta di nulla. Provate a immaginare un’Italia nella quale il governo proibisse di stampare libri? In quanti protesterebbero, e quanti sul serio, e quanto a lungo?
Per quanto è in me, il Coronavirus si è accanito molto sulla mia attività. In febbraio è stato pubblicato il romanzo storico scritto da Marina Montesano e da me, L’uomo dalla barba blu (Giunti). È pronto da più di tre mesi, sta lì in magazzino, e soltanto ora si comincia, con molta lentezza, a distribuirlo. In febbraio-marzo Roberto Mancini e io abbiamo licenziato un saggio di contemporaneistica, Hitler in Italia (Il Mulino), sul viaggio del Führer in Italia nel maggio del 1938: immagazzinato e fermo. In aprile “Il Corriere della Sera” avrebbe dovuto distribuire un mio libro sul primo anniversario dell’incendio di Notre-Dame di Parigi (Edizioni Solferino): l’uscita è rinviata al 4 giugno.
C’è una legge, nelle epidemie. È una legge storica. Dopo, si ricomincia a lavorare con più lena, con più entusiasmo, quasi con rabbia. Come dopo una guerra. Ci sono ferite da cicatrizzare, vuoti da colmare, perdite economiche da sforzarsi di restaurare.
Allora, ricominciamo a lavorare. Proviamo con qualcosa a modo suo d’attualità. Una vecchia storia, che riemerge dalle brume autunnali del medioevo: quel medioevo descritto appunto come “Autunno” da Johann Huizinga in un saggio geniale, eruditissimo e al tempo stesso onirico, un evergreen che sulla storia della nostra Europa c’insegna più di librerie intere di sociologia e di politologia.
“Barbablu” è un terribile personaggio da fiaba reso celebre dal gran novelliere della corte del Re Sole, il Perrault. Dietro la sua fosca storia, la memoria di un serial killer del primo Quattrocento, un pazzo efferato infanticida, un crudele vizioso: e sì ch’era stato, pochi anni prima di salire sul rogo per i suoi crimini, nel 1440, uno dei più fedeli compagni di Giovanna d’Arco. Il nobilissimo messere Gilles de Rais, barone di Laval, signore di una catena di castelli tra Bretagna, Vandea e Poitou. Gilles de Rais, maresciallo di Francia, eroe della guerra contro gli inglesi; e dopo la tragica morte della Pulzella perduto nell’altera solitudine dei suoi freddi castelli, abbagliato dai suoi incubi d’alchimia e dalle sue fantasie sataniche.
Una storia tragica e crudele. Consegnata al ricordo dagli atti del processo inquisitoriale che condannò alle fiamme il folle demonio dalla barba color d’acciaio. Una storia che, abbiamo pensato, vale la pena raccontare. La sua vicenda, se possibile, è ancora più terribile di quella narrata da Perrault: Gilles de Rais fu infatti accusato di aver ucciso decine di bambini. Ma cosa scrivere? Un saggio storico? Una rivisitazione di una vicenda sulla quale, perlomeno in Francia, tanto è stato già detto, sebbene non sempre in modo convincente? La leggenda nera di Gilles de Rais ha spesso prevalso sull’analisi obiettiva delle fonti; il suo processo, al pari di alcuni grandi e piccoli processi del tempo, a partire da quelli (di condanna e poi di riabilitazione) di Giovanna d’Arco ha anche un retroscena politico del quale non molto è noto.
Allora abbiamo optato per una narrazione che, pur basata sulle fonti, si permette, nei vuoti lasciati dai documenti che mancano, di far colare la malta d’una fantasia educata alla verosimiglianza storica, una fantasia che rispetti la storia, che non sia invasiva rispetto ad essa, che ad essa s’intrecci ma non si confonda. Nessun trucco, nessuna frode. Consentire sempre con chiarezza la distinzione tra il vero verificato e il vero ignorato, chiedersi che cosa ci sia sotto il velame di quest’ultimo. Romanzo storico, storia romanzata o laboratorio ucronico? Quanti possibili ignorati, quanti possibili negati, quanti possibile abortiti, stanno dietro a una verità storica per sua natura provvisoria, che domani potrà essere rovesciata e negata? Perché se la storia non è revisione continua, allora non è nulla. E la diastasi tra il Vero obiettivo, assoluto, inconoscibile, e il “vero” storico, sempre parziale e contestabile, è eterna e incolmabile.
E allora, negare la storia, rassegnarci alla sua inutilità, alla sua illusorietà? Ma questa fatica di Sisifo, questo ritessere di continuo un passato che non cambia di per sé in quanto è appunto passato, bensì cambia perché cambiamo noi, questa è la vera dignità, questa la gloria della storia. La storia è morta, viva la storia!