Minima Cardiniana 281/1

Domenica 10 maggio 2020, Sant’Antonino

EDITORIALE
UN ANNIVERSARIO “IMBARAZZANTE”
Gli anniversari vanno di moda. Anzi, a dire la verità ci sono sempre andati. È un modo piuttosto diffuso di fare storia, quello dello stesso giorno di anni fa. In fondo, con una data si va lontano.
Ma a volte, davanti a certe immagini e a certi ricordi, càpita di chiedersi com’è successo, com’è stato possibile. Pare che oggi non si riesca a concepire come sia stato possibile appoggiare le “dittature”: e collaborarci, e crederci. Le spiegazioni a posteriori sono desolanti nel loro monotono schematismo, nel loro conformismo superficiale. Ci si entusiasmava? Ma no, in fondo si fingeva… E perché si stava al gioco? Mah, l’ignoranza, la disinformazione, il fanatismo; oppure la paura. No: l’organizzazione del consenso è qualcosa di molto complesso, l’analisi delle energie che essa attiva non sopporta né semplicismi, né appiattimenti, né pregiudizi.
L’altroieri di ottantadue anni or sono, l’8 maggio del 1938, Hitler sostò un giorno a Firenze. Era stato a Roma e a Napoli, aveva assistito a parate militari e al bagno della folla. Tutti ricordiamo Una giornata particolare di Ettore Scola, con una Sofia Loren e un Marcello Mastroianni grandiosi. Un paio di giorni dopo la vicenda raccontata in quel film, il Führer arrivò a Firenze: ed era la tappa che forse lo interessava di più. Per colui ch’era stato un pittore squattrinato e un aspirante architetto, Firenze era un sogno. Vide poche cose, a volo d’uccello. Ma attorno a lui e alla sua visita, per molti mesi di preparazione, si snodò un’impressionante dinamica di mosse politiche e diplomatiche, di scontri ideologici e religiosi, di problematiche artistiche ed estetiche. Le linee e i personaggi di fondo delle principali tendenze artistiche italiane si confrontarono su quell’evento: e spesso con una vis polemica e una libertà d’espressione e di giudizio inattese e sorprendenti.
Il collega Roberto Mancini del Middlebury College (Vermont), allievo di Sergio Bertelli, si è impegnato – e anche divertito – a tirar fuori da una serie di documenti soprattutto (ma non solo) fiorentini qualche aspetto nuovo di quel lontano giorno che molti conoscono quasi esclusivamente attraverso una bella poesia di Eugenio Montale, che di quelle giornata fu testimone oculare.
Ne è uscito un libro dal titolo Hitler in Italia. Dal Walhalla al Ponte Vecchio, maggio 1938 (Bologna, il Mulino, 2020), che proprio mentre veniva distribuito nelle librerie, due mesi fa, è stato bloccato e congelato dalle vicende del Coronavirus che ben conosciamo. Solo adesso comincia a circolare.
Chi ha seguito queste pagine, che con pochissime soste sono uscite ogni settimana ormai da circa sei anni, sa che non amo far pubblicità alle mie cose. Tuttavia le circostanze del Coronavirus mi hanno indotto a fare qualche eccezione. Pubblico quindi a titolo di chiarimento qualche riga dell’inizio del libro di Mancini e mio. Credo che il passo che segue darà un’idea del lavoro fatto.
Nei giorni della Italienreise del Führer, dal 3 al 9 maggio del 1938, dopo il trionfo politico e guerriero di Roma e quello marittimo e marinaro di Napoli, Firenze avrebbe dovuto essere il grande giorno: il Giorno della Bellezza.
Roma, Napoli, Firenze: le tre gemme, le tre corone d’Italia insieme con Venezia – che Hitler aveva già visitato quattro anni prima durante il suo primo e non troppo felice incontro con Mussolini –: nonché con Torino, la vecchia capitale sabauda, e con Milano, la capitale imprenditoriale ed economica, che in quel momento restavano però in disparte.
Il duce aveva forse scartato entrambe le metropoli del Norditalia, come scenari possibili dell’incontro con il collega e alleato tedesco, in quanto era rimasto letteralmente affascinato e sconvolto dall’imponente accoglienza che, nell’autunno dell’anno prima, gli era stata riservata a Berlino. Ammirato e forse intimidito dallo spettacolo dell’imponenza, della potenza, della modernità industriale e militare offertagli dalla capitale del Reich, egli aveva temuto che nessuna delle più grandi città industriali italiane avrebbe potuto reggere al confronto: e intendeva evitare che il suo interlocutore si rendesse troppo conto dell’inferiorità e dell’arretratezza dell’Italia rispetto al Reich.
Ma c’era un àmbito nel quale il primato italiano non temeva paragoni né in Europa né nel resto del mondo. Roma, Napoli e Firenze erano le tre grandi capitali storiche: il glorioso passato, il mare che bisognava solcare e dominare – navigare necesse – infine l’arte e la cultura che legioni di viaggiatori romantici venuti d’Oltralpe avevano visitato con commozione e con entusiasmo. Il Führer conosceva bene le pagine del diario di viaggio italiano di Goethe: e l’amava, convinto com’era di essere un artista.
Il trionfale viaggio del Führer und Kanzler nella penisola, contrariamente a quel che ci si sarebbe potuti aspettare, non era stato programmato in modo da offrire all’illustre ospite lo spettacolo della parata militare sulla Via dei Fori Imperiali esattamente nel fatidico giorno del 9 maggio, secondo anniversario della Fondazione dell’Impero. Prima e quindi immediatamente dopo la tappa napoletana del 5 maggio, con il dispiegamento della flotta italiana sul Mediterraneo che Hitler aveva peraltro sempre mostrato di considerare uno scacchiere secondario al quale guardare in modo piuttosto distratto – la sua latente anglofilia di fondo gli faceva forse considerare, in una prospettiva almeno in ciò molto lontana da quella del duce e dell’Italia fascista, che quel mare incardinato da Gibilterra, da Malta e da Suez fosse destinato a rimanere a lungo un “lago britannico” –, quella romana scandita nei due tempi fra il 3 e il 4 e quindi fra il 6 e l’ 8 del mese era stata increspata dalla fredda accoglienza che il re imperatore aveva riservato all’ex caporale del Kaiser (il quale dal canto suo notoriamente lo disprezzava) e dallo spettacolo delle chiese dell’Urbe arcigne e sbarrate mentre papa Pio XI si era ostentatamente ritirato a Castel Gandolfo rifiutandosi di ricevere colui nel nome del quale Roma era in quei giorni pavesata di insegne, bandiere e labari contrassegnati da una croce che non era quella del Cristo. Il Führer non dette segno alcuno di aver rilevato l’incidente, che senza dubbio lo aveva offeso nella sua dignità e frustrato nei suoi noti interessi artistici: si limitò a “prenderne nota” – come diceva lui – “nel suo librone”, in attesa della vendetta.
Il giorno della Fondazione dell’Impero fu quindi dedicato non già alle glorie guerriere e alle celebrazioni politiche, bensì alla visita dell’“Atene d’Italia”: lì, nella città della cultura e della bellezza che proprio il genio tedesco aveva tanto amato e ammirato soprattutto negli ultimi due secoli, Mussolini era convinto di poter segnare un sicuro punto a suo vantaggio sull’ospite. In quella che restava la vera capitale morale e il nido primigenio del nazionalsocialismo, la Monaco che Hitler tanto prediligeva, sorgeva la Feldherrnhalle, la “Loggia dei Signori della Guerra”. Ebbene: a Firenze, in Piazza della Signoria, il Führer avrebbe potuto alfine godere rapidamente ma appieno della perfezione del monumento originale – la Loggia dei Lanzi, opera dell’Orcagna – del quale quello monacense era copia fedele. Nella cripta del monumento monacense era stata sistemata una nuda croce (quella del Cristo, stavolta) a memoria severa dei caduti del Putsch del 1923 e di tutti i martiri nazionalsocialisti. Ma a Firenze, in quella della basilica minorita di Santa Croce, foscoliano tempio delle “itale glorie”, l’imponente cappella dei martiri della Rivoluzione fascista avrebbe offerto al capo della nuova Germania un ben altro esempio di quella sacralizzazione della politica alla quale il nazionalsocialismo aveva guardato, peraltro emulando almeno in parte e in una certa misura il modello fascista. Ormai gli sviluppi in questo campo erano tuttavia stati tali che l’allievo tedesco aveva sopravanzato il maestro italiano.
Comunque, sta di fatto che Firenze avrebbe dovuto essere, ben più di Roma e di Napoli, la vera risposta che il duce meditava di offrire a colui che pochi mesi prima, a Berlino, lo aveva ospitato con corrusca magnificenza. Egli sapeva bene che l’Italia pur divenuta “imperiale” non era ancora nemmeno lontanamente in grado di competere con la potenza militare e industriale del Terzo Reich, che allorché gli si era dispiegata dinanzi nelle parate e nelle fabbriche berlinesi lo aveva certo affascinato, forse intimorito, senza dubbio contrariato. Ma egli sapeva bene qual era il punto debole dei tedeschi nei confronti del “Bel Paese”, almeno fino dai tempi del settecentesco Grand Tour: l’ineguagliabile patrimonio paesaggistico e culturale, l’autentica Grande Bellezza. Kennst Du dans Land – wo die Zitronen blühen? Quel pittore spiantato inopinatamente assurto da un lustro al potere ma trovatosi a guidare una sfiduciata nazione in ginocchio alla quale aveva saputo restituire l’orgoglio riconducendola nel giro di poche decine di mesi al rango di grande potenza temuta in tutto il mondo, non si sarebbe mai lasciato né incantare né soggiogare da una rassegna militare o da un’esercitazione della flotta italiane. Ma la civiltà, l’arte, la cultura, quelle erano un’altra cosa. Il duce avrebbe mostrato al Führer, che a Berlino lo aveva lasciato senza fiato con lo spettacolo di un popolo in armi e di un formidabile esercito, il miracolo del fiore di marmo e di luce germogliato in terra toscana. L’Atene fascista da confrontare con la Sparta nazionalsocialista. Ma che cos’era tutto ciò: un omaggio, o non piuttosto una sfida?