Minima Cardiniana 282/3

Domenica 17 maggio 2020
San Pasquale Baylon, VI Domenica di Pasqua

IL “CASO SILVIA ROMANO”

Due parole sole sulla “volontaria” sequestrata e tornata in libertà convertita all’Islam: sulla possibilità che per lei sia stato pagato un riscatto, sull’opportunità di tale eventuale riscatto, sulla legittimità della sua conversione all’Islam, sulla ragionevolezza di chi ne ha criticato la scelta o ha espresso la volontà d’impedirla, di vanificarla o di ostacolarla.

FEDE, CONVERSIONE, LIBERTÀ
Così parla Iddio, clemente e misericordioso: “Se Allah avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità. Vi ha voluto però provare con quel che Egli vi ha dato. Gareggiate in opere buone: tutti ritornerete ad Allah ed Egli v’informerà a proposito delle cose sulle quali siete discordi” (sura V, Al-Mà’ida, “La tavola imbandita”, 48); e ancora: “O uomini, vi abbiamo creato da un maschio e da una femmina e abbiamo fatto di voi popoli e tribù affinché vi conosceste a vicenda. Presso Allah, il più nobile di voi è colui che più Lo teme” (sura XLIX, Al-Hujurat, “Le stanze”, 13).
Il Corano è – al pari della Bibbia e del Vangelo, e del resto di qualunque altro Libro Sacro – un testo complesso, che richiede per esser letto e compreso adeguatamente una seria preparazione e molto tempo; e – lingua araba a parte: e non è difficoltà da poco – che non può essere affrontato senza una guida esperta e sicura. D’altronde, come ben sanno tutti i veri uomini di Dio – da al-Hallaj a Nicola Cusano al Mahatma Gandhi – tutte le religioni storiche hanno un grumo prezioso di verità al loro interno e finiscono col convergere nell’inconoscibile Verità.
Ma la Verità, appunto, si deve sempre cercare, e tuttavia non la si sceglie: è Lei a scegliere noi, che altro non possiamo fare se non essere sempre disposti ad accoglierla. Per questo Dio benedica i convertiti, che sono stati toccati dalla fede (o hanno in buona fede creduto di esserlo); e ancor più benedica coloro che hanno perseverato sul loro cammino, seguendo con costanza il sentiero ch’era stato loro indicato.
Se non si capisce questo, si brancola nel buio dell’opinione: alla luce della quale chiunque per i suoi nuovi fratelli è un convertito resta tuttavia, per coloro che egli ha abbandonato, un apostata. Ma chi sta saldo nella propria fede non può non lasciare la porta aperta alla possibilità che la fede vera sia piuttosto quella scelta dal fratello: rileggetevi l’antica “Favola dei Tre Anelli”, che Giovanni Boccaccio ha splendidamente rinarrato nella terza novella della prima giornata del Decameron e Gotthold Ephraim Lessing ritrascritto nel Nathan der Weise.
Non conosco le vicende e le circostanze della conversione di Silvia Romano all’Islam, che mi auguro libera e sincera; ne ignoro il carattere, dal momento che l’Islam non conosce “Chiese”, ma ha sodalizi, confraternite, scuole anche molto diverse fra loro. Rispetto la sua scelta, ma la mia esperienza di credente e di studioso mi dice che non ci si converte mai leggendo un libro. Chi si converte “cade verso l’Alto”, come ha detto san Giovanni della Croce; cade sulla Via di Damasco, come successe a Saul il persecutore, che divenne l’apostolo Paolo. Poi, ricevuta la Grazia, la si fortifica conoscendo la Scrittura: e può essere un cammino lungo e difficile.
Credo che l’esperienza di Silvia Romano vada guardata con serietà e comprensione. Le vicende esterne ed intime che l’hanno accompagnata – comprese l’incertezza, la pena, l’angoscia o altro – appartengono solo a lei, che ha il diritto di esigere il nostro riserbo e il nostro rispetto. Quanto a chi l’ha insultata e minacciata, limitiamoci a ricordare che la caratteristica delle persone libere è restar fedeli a se stessi e rispettare la libertà altrui.
Dico tutto ciò fingendo di credere – e mi costa sempre più caro, è sempre più faticoso – di vivere in un paese civile, fra gente di media cultura, di media intelligenza e di media onestà. Ma a dire il vero è quasi impossibile non vergognarsi dei propri connazionali e non desiderare di averne altri, di qualunque origine meno loro, quando si assiste al campionario d’idiozie e d’infamie come quello al quale il “caso-Romano” ha dato la stura. Lasciamo perdere le banalità da psicanalisi al Caffè dello Sport di quelli che hanno tirato in ballo la “Sindrome di Stoccolma”. Ma dico, è mai possibile che davanti a una donna impegnata per giunta nel volontariato – indipendentemente dalla ONLUS cui fa riferimento – ci si chieda se lo stato ha o no “pagato un riscatto”, problema che in casi recenti di sequestrati ch’erano in Asia o in Africa in vacanza o per combinare affari non era mai stato sollevato da nessuno? E anche se un riscatto fosse stato pagato, lo sanno o no gli italiani che uno stato civile ha il sacrosanto dovere di tutelare i suoi cittadini in ogni modo? È mai possibile assistere impassibili allo sconcio del linciaggio morale mediatico, degli insulti e delle minacce via social dirette contro qualcuno che va rispettato se non altro per quello che ha dovuto sopportare? È concepibile che a proposito della sua conversione le uniche ipotesi che si riesce a formulare siano quelle di debolezza psichica, di propensione al masochismo e via discorrendo? Ipotesi del genere, formulate contro le vittime al tempo delle “purghe staliniane” o dei processi statunitensi del periodo maccartista, facevano indignare le persone libere. Siamo davvero così regrediti, da allora? Che cosa pensare di un deputato che in piena aula parlamentare si lancia in offese intollerabili dirette contro una cittadina che ha dovuto sopportare una prova così dura e viene fatto oggetto solo di una blanda censura dalla presidente dell’assemblea, limitandosi a nascondersi dietro la scusa di aver citato un quotidiano? E che cosa del figuro che, qualificandosi come “zio” della Romano, alla giornalista che gli chiedeva come avesse accolto il proposito della Romano di tornare appena possibile in Africa, ha risposto affermando che le avrebbe bruciato il passaporto? È tollerabile che la minaccia di una violenza fisica – cioè un crimine – contro la dignità e la libertà di una congiunta, proferiti per giunta con tanta arroganza (poi è l’Islam che minaccia la dignità delle donne…), non abbia provocato l’immediato intervento di un magistrato o di un tutore dell’ordine?
Il modo con cui gli italiani hanno affrontato il coronavirus – sventolar di bandiere ai balconi e autocongratulazioni a parte – mi aveva già sufficientemente confermato il giudizio ormai definitivo sui miei concittadini. Il “caso-Romano” ha costituito al riguardo una conferma della quale non dubitavo: ma ne avrei comunque fatto volentieri a meno.