Domenica 7 giugno 2020, SS. Trinità
EDITORIALE
SE CINQUE LIBRI VI SEMBRAN POCHI…
Non attribuitelo a un eccesso di tempo libero dovuto alla quarantena. Si è trattato in realtà di un “corto circuito”: alcuni libri, ch’erano già pronti all’inizio dell’anno, hanno subìto un forzato ritardo nella circolazione; altri si sono aggiunti per una serie di coincidenze. So bene che molti mi rimprovereranno di “star facendo pubblicità a me stesso”, riprovevole abitudine (io però tale abitudine non ce l’ho: e ne siete testimoni). Del resto, se non lo facessi – e sto parlando per esperienza – subito qualcuno mi scriverebbe (e c’è anche chi telefona) rimproverandomi negligenza nell’informazione. In fondo, come si fa, si sbaglia: è qualcosa che mi càpita di continuo o che comunque mi è sempre capitata negli ultimi settantanove anni ed è evidentemente una lezione che non imparerò mai.
Si tratta, coincidenza, di cinque libri quattro dei quali sono stati scritti “a quattro mani”, con un amico(-a) e/o collega. Dicono che succede spesso, quando uno invecchia ha tempo ed energie minori per dedicarsi alla ricerca per cui ama affiancarsi un partner più giovane e di più fresche energie. Ciò in parte è vero, ma sta di fatto che io ho la fortuna di avere amici e colleghi con i quali mi trovo bene, dei quali mi fido, e con loro l’esperienza della scrittura comune è davvero tale (non crediate sia facile, se è fatta sul serio: occorrono fiducia reciproca, buon senso, spirito di adattamento, flessibilità, rigore sulle proprie idee ma anche rispetto e comprensione per quelle dell’altro o dell’altra). Né è un modo di dire l’affermar che, nei libri che mi è capitato di scrivere con altri, la parte migliore è stata scritta sempre dall’altro. Credetemi: non è né ipocrisia né falsa modestia.
Dunque, veniamo ai quattro recenti: che enumero in ordine cronologico.
Anzitutto un “romanzo storico” ambientato nella Francia del secondo quarto del XV secolo: L’uomo dalla barba blu. Gilles de Rais e Giovanna d’Arco nel labirinto delle menzogne e delle verità (Firenze-Milano, Giunti, 2020), di Marina Montesano e Franco Cardini. È la rivisitazione di un problema che ha dato molto lavoro nell’ultimo secolo a studiosi, scrittori, anche criminologi e psicanalisti. La vicenda del braccio destro della Pulzella d’Orléans, morto nel 2440 bruciato su un rogo inquisitoriale a Nantes come mago, apostata, eretico, sodomita, infanticida. C’è una punta di thrilling, come d’altra parte è giusto che sia perché ricostruisce alcune vicende processuali e i loro precedenti.
Poi, Il grande racconto delle crociate (Bologna, il Mulino, 2020), di Antonio Musarra e Franco Cardini. Un grosso libro, anche illustrato, alquanto ambizioso perché parla delle crociate, dei loro precedenti, dei loro postumi fino al giorno d’oggi, delle loro imitazioni eccetera. Antonio Musarra è un giovane storico dell’Università di Roma ormai sulla cresta dell’onda perché i francescani di Gerusalemme gli hanno affidato addirittura un alto incarico nell’àmbito dell’organizzazione degli studi storico-archeologici relativi al Santo Sepolcro. Quanto a me, provai a scrivere una sintesi della storia delle crociate, forse improvvidamente ambiziosa, mezzo secolo fa con Le crociate fra mito e storia, oggi per fortuna semintrovabile o in antiquariato (mi dicono però ch’è stato ripubblicato alla macchia). Ho provato a rileggerlo adesso per constatare se e quali progressi nella mia conoscenza e nelle mie riflessioni posso aver fatto in cinquant’anni. Non l’ho capito.
Ancora, Hitler in Italia. Dal Walhalla al Ponte Vecchio, maggio 1938, di Roberto Mancini e Franco Cardini. Roberto Mancini è docente sia a Firenze sia al Middlebury College, Vermont, e allievo del non mai abbastanza compianto Sergio Bertelli: come contemporaneista, è autore fra l’altro di un notevolissimo studio sul “martire laico” (ad esempio il Milite Ignoto dopo la prima guerra mondiale): è ovvio che come esperto di “religioni laiche” si sia interessato al nazionalsocialismo. Inoltre, c’è una curiosità: nell’archivio del Comune di Firenze il materiale sulla visita di Hitler in città, l’8 maggio 1938, è moltissimo e di grande interesse perché illustra fra l’altro l’impegno e le polemiche nate sugli aspetti estetici di tale evento (arredo urbano eccetera) che coinvolsero alcuni fra i più illustri rappresentanti del mondo artistico e culturale del tempo (certuni poi, come Maccari, Bilenchi, Bianchi Bandinelli, passati all’antifascismo). Ci sarebbe fra l’altro da aggiungere la “strana coincidenza” del fatto che gli acquerelli dipinti dal giovane Hitler non periodo viennese, attorno al 1919, sono entrati a far parte della Collezione Siviero e in quanto tali appartengono al Comune di Firenze.
Inoltre un libro che umilmente vi raccomando perché mi è molto caro. È una specie di omaggio, di atto d’amore (qualcuno, che l’ha letto in anteprima, l’ha definito addirittura una “dichiarazione d’amore”: e forse ha ragione): Notre Dame. Il cuore di luce d’Europa (Milano, Solferino, 2020). La Solferino è la casa editrice del “Corriere della Sera”: e questo libro, che dal 4 scorso si trova anche nelle librerie, è stato distribuito nel medesimo giorno nelle edicole insieme con tale quotidiano. Sono davvero grato al Corrierone per un omaggio che francamente non merito: e in particolare a una sua giornalista, l’amica Martina Tonfoni, che alcuni mesi fa si fece addirittura il viaggio da Milano a Biella per venirmi a scovare nel monastero di Bose, dov’ero in ritiro presso l’amico padre Enzo Bianchi (un’amicizia della quale, sia detto con chiarezza di questi tempi, mi vanto e che mi onora). L’idea del libro fu, credo, di Martina: da un articolo che avevo scritto su “La Nazione”, essa aveva difatti appreso che io ero stato per una pura coincidenza il 15 aprile del 2019 testimone oculare dell’incendio (per fortuna parziale) di Notre-Dame a Parigi. Il libro parte da una cronaca di quell’evento per un esame su quel che quella cattedrale e quella città significano nella storia e per la storia di quella che io e una sparuta pattuglia di ostinati illusi continuiamo ancora a chiamare “la nostra patria europea”.
E infine, non so se dulcis in fundo o in cauda venenum, eccoci a Dopo l’Apocalisse, edito dalla giovane e coraggiosa (incosciente?) casa editrice La Vela – già di Viareggio, da pochi mesi di Lucca – e scritto, di nuovo a quattro mani, dal senatore Riccardo Nencini (uno dei cinque iscritti a un ancor esistente Partito Socialista Italiano: gli altri quattro sono sua zia, due cugini e il gatto di uno di loro; poi volendo a Genova ci sarebbe l’amico Paolo Lingua, insigne giornalista, al quale spero non dispiaccia venir qui ricordato). È un libro che per il momento sta circolando – anche troppo – in anteprima e che verrà presentato a Roma presso la Camera dei Deputati il 18 giugno prossimo nientemeno che da Matteo Renzi, collega e si può dire “quasi-compagno” (?!*@§, + o -) di Nencini e inoltre, ebbene sì e sia detto a suo scorno, anche amico mio.
Direte che con loro due io non c’entro nulla. Grave errore. Per quanto sia molto più vecchio di entrambi loro, anzitutto siamo legati da una vecchissima amicizia che va ben oltre i motivi di dissenso o la disparità di vedute. Inoltre ho con loro due tipi di rapporto profondo. Primo, siamo “entrembi” (neologismo per dire: tutti e tre) fiorentini, per quanto a dir la verità l’unico nato sul serio nel cerchio delle vecchie mura sia io: Riccardo è mugellano di Barberino, Matteo mediovaldarnese-quasichiantigiano di Rignano, come tale concittadino del grande sor Ardengo Soffici. Secondo, io ho in comune con Matteo la mia ferma professione di fede cattolica e con Riccardo la mia non meno ferma professione di fede politica socialista. Gli amici e anche i fin troppi non-amici sanno che ab immemorabili io mi professo “cattolico, socialista, europeista” (rigorosamente in quest’ordine).
Obietterete che fra il cattolicesimo di Renzi (vogliamo definirlo lato sensu sturziano?) e il mio, culturalmente tradizionalista e socialmente “apocalittico di sinistra”, la differenza è abissale. Forse. Ma nella casa di Dio vi sono molti appartamenti, come diceva papa Giovanni Paolo II. Ma la casa è quella: e l’ambiguità impossibile. Gli esiti politici, li discutiamo.
Obietterete altresì che tra il socialismo craxiano, progressista occidentalista e laicista e Nencini e il mio socialismo soreliano, peronista, castrista, antioccidentalista, eurasianista e cristiano la differenza è abissale. Forse. Ma il socialismo è comunque a sua volta, da ormai circa due secoli, una grande casa comune di persone e di gruppi diversissimi che, con premesse culturali, concettuali, filosofiche molto diverse tra loro, si riconoscono sul principio del lavoro comune per assicurare a tutto il genere umano un livello comune ed accettabile di dignità. Come dice una vecchia canzone cubana: “La dignidad del hombre es más alta que el pan, más alta que la gloria, más alta que la propia supervivencia”. Per questo la battaglia di papa Francesco espressa nella Laudato si’ è la mia, come cristiano e come socialista. Senza se e senza ma.
Ho già ricevuto molti messaggi, alcuni telegrafici altri chilometrici, sull’“anteprima” del libro di Nencini e mio. Si va dalla lode sperticata all’insulto più feroce. Risponderò privatamente a tutti con calma, a cominciare dai critici più aspri (ma non agli anonimi: detesto l’anonimato e lo considero un indecoroso atto di viltà). Qui una sola replica – pacata, onesta, amichevole – a chi in un modo o nell’altro mi accusa di ambiguità o di malafede: accuse che respingo e che non merito, per quanto riconosco in molti casi l’onestà di chi le ha formulate.
Nessuna ambiguità, nessuna malafede, né da parte di Nencini né mia. Siamo differenti e per certi versi addirittura lontani: il circoscrivere le nostre diversità è stata nostra cura costante (da quando ci conosciamo in generale, in questo libro in particolare). La mia è una visione trascendente delle cose, la sua immanente. Io credo nell’arazionalità e nell’imperscrutabilità della storia, lui in una qualche “ragione immanente” che le sarebbe insita e le darebbe un senso. Io credo che la storia abbia un senso trascendente e che sul piano immanente è un non-senso affidato alla mutabilità delle forze in presenza, lui crede nel progresso come forza etica e civica e quindi nel diritto della ragione all’ottimismo. Io credo che la sostanza della storia occidentale si riassuma nel primato dell’individualismo assoluto e delle forze economico-finanziario-tecnologiche, lui crede nella bontà del progresso e nel progressivo sviluppo di energie positive da esso. Io credo nell’impossibilità di frenare il processo che ordinariamente definiamo di “globalizzazione/mondializzazione”, in sé negativo, ma nella possibilità di gestirlo umanizzandone alcuni aspetti e creando antidoti alla sua connaturata brutalità, ad esempio cercando di restaurare nella misura del possibile il senso del Sacro, la coscienza della necessità di operare per il bene comune e il primato della politica su economia, finanza e scienza-tecnologia, cioè di combattere gli aspetti ultimi e più distruttivi dell’individualismo; lui crede nella possibilità del capitalismo delle lobbies di autocorreggersi e di autorigenerarsi eticamente “dal suo interno” recuperando una visione del profitto e dello sfruttamento che sia più “a misura d’uomo”; io mi sforzo di credere nella possibilità di lavorare alla costruzione di nuove più capaci e oneste élites di governo mondiale attraverso un processo di recupero etico-spirituale e che alcune di queste potenzialità siano oggi presenti soprattutto nel mondo eurasiatico, lui crede nella democrazia rappresentativa, nell’Occidente e nell’atlantismo.
Come si vede, molte e gravi ragioni di dissenso: che non c’impediscono non dico semplicemente di restar amici e di discutere, ma anche e soprattutto di riconoscere e di comprendere ciascuno le ragioni dell’altro e di lavorare insieme per uno scopo comune: la libertà dell’uomo, sia di (di fede religiosa, di coscienza etica e civica, di pensiero, di parola, di proprietà non parassitaria), sia da (dalla fame, dalla miseria, dallo sfruttamento, dalla paura, dalla costrizione, dall’impossibilità di curare le malattie, dall’eventualità di venir abbandonati in quanto troppo poveri o troppo anziani o disabili). È questa la comune battaglia: possiamo divergere su alcuni degli strumenti e dei metodi per condurla, ed è per questo che il nostro libro – avendo noi scelto di presentarlo come opera comune anziché come dialogo, che avrebbe più agevolmente sottolineato le differenze ma dissimulato gli elementi al contrario comuni, secondo noi più evidenti e qualificanti – è stato scritto in spirito di reciproco rispetto e di comprensione reciproca: abbiamo qualificato i dissensi usando le risorse dialettico-stilistiche della parentesi, delle particelle disgiuntive e/o avversative, degli avverbi quali “comunque”, “d’altronde”, “per quanto”, “tuttavia” eccetera. Nostro scopo è fornire in tutta umiltà e sincerità uno strumento di dialogo e di collaborazione che salvi, anzi che valorizzi le differenze, le quali sono sempre una ricchezza. Certi come siamo entrambi che continueremo sempre, comunque e grazie a Dio a litigare se siano meglio la bionde o le brune, il cane o il gatto, il bagno o la doccia, l’arrosto o il bollito, il dolce o il salato, il mare o la montagna, le pesche col vino o il cacio con le pere, i biscottini di Prato o i ricciarelli di Siena (per quanto i secondi siano troppo superiori ai primi), il Nobile di Montepulciano o il Brunello di Montalcino, magari “la destra” e “la sinistra” (ammesso di capire ancora che cosa siano e dove stiano rintanate), Radetzky o Garibaldi, il Presepio o l’Albero di Natale, la Fiorentina o i “Gobbi”, ovviamente Bruneri o Cannella.
Non litigheremo mai se siano da preferire Dio o la Natura (o la Storia, o la Ragione) perché qui andiamo sui Princìpi primi sui quali ragionamento e patteggiamento non servono: in altri termini non litigheremo sulla metafisica, che per me è intoccabile e per Riccardo non esiste. E non litigheremo mai sui Guelfi e Ghibellini, perché siamo ghibellini tutti e due.