Domenica 14 giugno 2020, Corpus Domini
Le ragioni di chi vorrebbe rovesciare le statue
MARINA MONTESANO
BENVENUTA ICONOCLASTIA
Soltanto due settimane fa, in questa rubrica, David Nieri ha sostenuto egregiamente, contro quanti vorrebbero negarne la realtà, la natura razziale dell’oppressione che ha dato vita negli Stati Uniti alle proteste in seguito all’omicidio di George Floyd. Sorprendentemente, le manifestazioni non soltanto sono ancora in corso, ma hanno raggiunto anche altri paesi, inclusi quelli europei: per questo torniamo sull’argomento a commento di quanto si è visto e letto in questi ultimi giorni, toccando tre punti che, come dirò, si intersecano fra loro.
Vetrine
Uno degli argomenti che più spesso sentiamo emergere contro le proteste riguarda i disordini che le hanno accompagnate, soprattutto all’inizio, e in realtà anche adesso sebbene se ne parli un po’ meno. Ci sono stati scontri, saccheggi, anche morti, non sempre strettamente legati alle proteste, ma frutto dei disordini; e in tanti hanno obiettato che manifestare è legittimo, che l’indignazione per l’uccisione di George Floyd è legittima, ma… Il ‘ma’ dei benpensanti di fronte a una vetrina infranta o a un negozio saccheggiato è un Leitmotiv al quale siamo purtroppo abituati e che manifesta l’incapacità di comprendere la logica dei movimenti di massa. La psicologia delle masse è argomento di studio dalla fine dell’Ottocento: basti richiamare almeno la Psicologia delle folle del sociologo Gustave Le Bon, pubblicata nel 1895 e ripresa qualche decennio più tardi da Sigmund Freud e poi da tanti altri. I gruppi, le folle, non sono semplicemente la somma perfetta degli individui che le compongono, perché tendono ad agire secondo dinamiche differenti che nessuno dei singoli componenti apparentemente e coscientemente vuole; i movimenti delle folle non sono lineari e non sono razionali; anche i grandi movimenti di massa, le rivoluzioni (a partire dalla francese) che magari oggi studiamo e apprezziamo come momenti chiave di cambiamento nella nostra stessa storia, hanno visto ben altro che qualche vetrina rotta. Senza nemmeno contare che molte delle derive vandalistiche e degli scontri sono stati spesso prodotti e forzati dall’azione della polizia: abbiamo visto poliziotti inginocchiarsi insieme ai manifestanti, ma abbiamo anche visto quelli che hanno spintonato violentemente un pacifista disarmato di 75 anni, finito all’ospedale con un trauma cranico; i due poliziotti avevano attribuito la caduta a un litigio fra manifestanti, poi è venuto fuori il video e adesso andranno, forse, sotto processo.
È inoltre il caso di ricordare che lì dove a volte si scatenano rivolte che ci paiono selvagge, incontrollabili, e dinanzi alle quali il perbenismo ci fa arretrare spaventati, ben altri scempi sono passati inosservati per decenni: Donald Trump, quando leggerete questo articolo, sarà andato a tenere un comizio nella città di Tulsa, Oklahoma, nel sud, ma neppure in quello più profondo. Non credo però che ricorderà il massacro del 1921, e allora lo ricordiamo noi. In città fra le due guerre si era insediata uno prospera comunità nera, fatta di commercianti e liberi professionisti; la strada principale del distretto era nota come Black Wall Street. Nonostante questo, o forse proprio per questo, nella zona i linciaggi erano frequenti. Il 30 maggio del 1921 un diciassettenne di colore venne accusato di aver aggredito una coetanea bianca, che tuttavia non avrebbe poi sporto denuncia. Il ragazzo fu comunque arrestato e, temendo un linciaggio, alcuni membri della sua comunità si schierarono a proteggere il tribunale dalla folla di bianchi; ne scaturì una sparatoria e poi una rappresaglia che portò alla distruzione dell’intero quartiere; ci furono centinaia di feriti e non si sa quanti morti: 36 ufficialmente, ma forse più di cento. I bianchi appiccarono il fuoco agli esercizi commerciali, aerei privati si alzarono in volo e colpirono le case e le famiglie in fuga con bombe incendiarie. La pulsante Black Wall Street ne uscì in cenere; oltre diecimila gli sfollati, nessuno dei quali venne mai risarcito o reintegrato, poiché l’area fu svenduta agli speculatori. L’esperimento di una società nera benestante era stato distrutto per sempre; nessuno andò mai sotto processo, e sulla vicenda calò il silenzio fino agli anni Novanta, quando si è avviato un processo di riconoscimento delle vicende, accompagnato da studi, da targhe commemorative e così via.
Dalla fine degli anni Sessanta, poi, movimenti a sostegno dei diritti degli afroamericani sono stati costantemente bersagliati dal governo americano: oltre agli assassini di Martin Luther King e Malcolm X, ricordiamo che le Black Panther, nate per proteggere gli afroamericani dalle aggressioni della polizia (allora come oggi: evidentemente nulla è cambiato, se non per il fatto che oggi disponiamo dei video) sono state perseguitate dall’FBI di Hoover con un piano noto come COINTELPRO (che mirava in generale a sopprimere il dissenso interno) che, fra le altre azioni, prevedeva infiltrati che dovevano provocare la guerra armata fra le bande di strada e le Black Panther, oppure doveva diffamare chiunque mostrasse simpatia per il movimento, anche nelle sue azioni benemerite come provvedere pasti ai bambini poveri.
Questo insieme di azioni hanno avuto il loro scopo. Se oggi gli afroamericani ci appaiono “arretrati” rispetto al resto della popolazione statunitense, così da render facile per i razzisti il sostenere che si tratta di arretratezza atavica se non congenita, la realtà è ben altra: per un secolo almeno dopo la fine della schiavitù, con mezzi legali e illegali, le comunità di colore sono state vessate e costrette in uno stato di inferiorità. Dal loro punto di vista, video come quello dell’omicidio di George Floyd dimostrano ciò che sanno da tempo, ossia che troppo spesso la polizia li uccide senza motivo e nella totale impunità.
Il #blacklivesmatter nel frattempo è arrivato in Francia, un paese fra quelli europei dove le tensioni razziali sono forti da decenni e dove la polizia è accusata spesso di bavures, di soprusi a danno dei giovani delle periferie dove neri e maghrebini sono numerosi. I benpensanti francesi li chiamano racailles: vandali che alla prima occasione incendiano auto e sfondano vetrine per procurarsi gli emblemi del consumo, dalle scarpe di marca ai gadgets elettronici. Difficilmente ricordano che la Francia ha, a sua volta, una storia coloniale costellata di crimini non soltanto sul suolo africano, ma pure a casa propria. Quanti ricordano il massacro degli algerini del 1961? Manifestavano per le strade di Parigi quando vennero attaccati dalla polizia a colpi di bastone e di armi da fuoco, tanti furono pestati a morte o annegati nella Senna. Morirono a decine, non è dato sapere esattamente quante: i giornali non ne parlarono, i morti vennero seppelliti in fretta, e soltanto negli ultimi anni si è affissa una targa al Pont Saint-Michel a commemorazione dei fatti.
La conclusione del discorso, naturalmente, non è che oggi si saccheggia per vendicare i crimini del passato, ma che le tensioni create attraverso l’uso sistematico e sistemico della violenza come forma di oppressione continuano a riverberarsi nel presente, e la negazione, o il timido riconoscimento da parte dei governi di quei crimini, non ha mai condotto a creare una memoria nazionale condivisa fra minoranze e maggioranze.
Statue
Le manifestazioni in quest’ultima settimana sono passate ad azioni simboliche come l’abbattimento, il danneggiamento o l’imbrattamento delle statue di personaggi ritenuti compromessi con la storia coloniale. Anche in questo caso i benpensanti si indignano: magari non per l’indifendibile Leopoldo II (cfr. quanto scritto da Franco Cardini), ma per Churchill, che molti percepiscono come il “difensore dell’Europa” dal nazifascismo, dimenticando fino a che punto le sue idee e le sue azioni contro i “non ariani” fossero simili a quelle di Hitler: il breve campionario di citazioni in fondo a questo articolo può darvene un’idea. Anche in questo caso si palesa la mancanza di una memoria che possa essere condivisa con quelle che da noi sono minoranze, ma che nel mondo, forse è il caso di ricordarlo, sono invece maggioranze verso le quali nordamericani ed europei troppo spesso continuano ad avere atteggiamenti meno espliciti, ma in fondo non così diversi da quelli di Churchill. La giustificazione che si sente a sostegno della buona fama di questi personaggi verte sul fatto che le idee di Churchill, in fondo, “erano quelle del suo tempo”; e allora perché non dirlo anche per Hitler? Di fatto, non si trattava poi soltanto di idee, visto che le sue direttive hanno condotto alla morte per fame di qualche milione di indiani; la sua scelta non lasciava nulla alla casualità; così come non erano casuali le direttive di Leopoldo II nell’amministrazione del Congo. Certo, per un inglese Churchill è un grande statista e per un belga Leopoldo II un sovrano glorioso, ma ci poniamo mai il problema di come sono visti, rispettivamente, da un bengalese e da un congolese?
In Italia, poi, ha fatto scalpore l’attacco alle statue di Cristoforo Colombo, intorno al quale da decenni si moltiplicano le polemiche fra Nativi e Italoamericani: sul temo consiglio la visione dell’episodio dei Sopranos Christopher Columbus che spiega le cose meglio di tanti libri. Ho ascoltato casualmente e con una certa ilarità uno speaker televisivo italiano dire che l’abbattere le statue di Colombo è “ai limiti del revisionismo”, dove in modo oscuro e nella sua mente confusa, “revisionismo”, nei discorsi semicolti legato automaticamente alla negazione dell’Olocausto, significa “qualcosa di negativo”. Come ha già scritto Franco Cardini, fare storia è per sua natura revisione continua di posizioni precedenti; ma in questo caso la revisione storiografica ha poco a che vedere con i movimenti iconoclasti in corso; mentre le tv o gli altri media che corrono a togliere dal cartellone questo o quel film (Via col vento, magari) si stanno semplicemente mostrando più realisti del re, cercando di mettersi al riparo da eventuali critiche. “Profanare” una statua significa contestare il presente, non il passato. I Nativi americani sono oggi per la maggior parte miserabili e chiusi in riserve; la comunità italoamericana che celebra il contestato Columbus Day è stata, storicamente, fra le più razziste d’America: certo, perché arrivati a loro volta poverissimi e fra gli ultimi in Europa a metter piede sul suolo americano, sono stati vittima di discriminazioni e linciaggi, il che, come spesso succede, non li ha condotti a schierarsi con altri poveri e discriminati, ma a rivendicare il loro essere “bianchi”, dunque superiori rispetto i neri.
È una logica che il potere generalmente favorisce per ovvie ragioni di controllo, ma che antropologicamente ha anche il suo perché. Prima di indignarci per le statue, così come per le vetrine rotte, sarebbe più utile parlare di come le tensioni razziali siano ancora oggi un vulnus nelle società a maggioranza bianca: com’è reso evidente dalla persistente contestazione di slogan come “privilegio bianco” o “black lives matter”, che evidentemente toccano nel vivo realtà che si vogliono occultare.
Polizia
“De-fund the police” è il nuovo slogan che echeggia nelle piazze americane. Significa depotenziare la polizia, il che in Italia, con la carenza di mezzi che conosciamo, può anche provocare più di un brivido, ma che negli Stati Uniti ha un significato preciso che lega questo terzo punto ai due precedenti. La storia coloniale degli USA ha un rapporto diretto con le politiche di controllo interno; reduci delle guerre coloniali, dalle Filippine all’inizio del Novecento al Vietnam fra anni Sessanta-Settanta, sono stanti reclutati dalla polizia, utilizzando in casa le stesse tattiche sperimentate nelle guerre coloniali, soprattutto a danno delle minoranze non-bianche del paese; il surplus delle armi da guerra viene adottato dalla polizia americana e impiegato con la stessa violenza; la polizia viene addestrata con tattiche d’assalto simili a quelle militari, e spesso con stage in paesi in permanente stato di tensione, come Israele, e questo è divenuto ancora più vero con le cosiddette “guerre asimmetriche”, nelle quali ormai gli Stati Uniti sembrano non voler più distinguere tra obiettivi civili e militari, com’era stato peraltro vero già nelle guerre di Corea e del Vietnam, e com’è stato vero in tutte le repressioni coloniali dei movimenti di resistenza. La prima War on Terror americana è stata sperimentata contro le Black Panthers: ma la militarizzazione e l’aggressività delle polizia vanno oltre la questione razziale. Nei giorni delle prime manifestazioni e dei saccheggi si è verificato un episodio significativo: la polizia è arrivata davanti a un negozio preso di mira; uno dei presunti saccheggiatori, di origini messicane, si è inginocchiato con le mani alzate, ma il poliziotto non si è nemmeno preso la briga di scendere dall’auto, l’ha freddato con sei o sette colpi direttamente dal finestrino: si sentiva minacciato, ha detto. Ultimo tassello del quadro, la pressoché totale impunità delle quale godono gli agenti anche quando vanno a processo, certi che le giurie, inquadrate da leggi che ne rendono molto difficile la condanna, li assolveranno.
De-fund significa insomma non tagliare i fondi alla polizia, ma sostanzialmente smilitarizzarla, cambiarne i metodi e la mentalità, che oggi ne fanno un corpo atto solo a reprimere, non ad aiutare i cittadini, a maggior ragione quando questi appartengono alle minoranze. È questo discorso a chiudere il cerchio: la storia dello schiavismo, la storia coloniale sono ancora troppo presenti, troppo vive, per esorcizzarle con le parole, ed in questo si vede il sostanziale fallimento del “politicamente corretto”, che è divenuto un movimento da ivy league, senza una reale ricaduta sociale. Se abbattere una statua significa far capire quanto il cambiamento sia oggi impellente, che la si abbatta: da quel che ho visto non c’è nessun David di Donatello fra quelle tirate giù. Se serve a capire che non è più tempo di parlare soltanto della repressione di Hong Kong perché nel democratico occidente le cose vanno peggio e dovremmo smetterla di autoassolverci ogni volta che ci conviene, allora benvenuta iconoclastia.