Minima Cardiniana 287/7

Domenica 21 giugno 2020, San Luigi Gonzaga
XII Domenica del Tempo Ordinario, Solstizio d’Estate

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Henri-Frédéric Amiel, Società, politica e religione, a cura di Andrea Fassò, Napoli, La Scuola di Pitagora, 2020, 108 pagine, 12 euri

ANDREA FASSÒ
INTRODUZIONE
Punto di riferimento obbligato per il ginevrino e calvinista Henri-Frédéric Amiel (1821-1881) è la fede religiosa, vissuta e sentita tuttavia in modo personale e non ortodosso. L’idealismo tedesco, col quale Amiel ha avuto intensi contatti durante il suo soggiorno di studi a Berlino (1844-48), lo induce a propendere volentieri verso il panteismo, rispetto al quale cerca una conciliazione seguendo il suo prediletto Krause, teorico del panenteismo (per il quale Dio trascende il mondo ma è anche nel mondo). Ben aggiornato sulla filologia biblica, prende le distanze dalla dottrina tradizionale, preferendo alla fede nel Dio-Gesù quella nel Dio di Gesù, nel Dio col quale Gesù si sentiva in totale unità e che faceva conoscere ai discepoli. Ripieno di ammirazione e venerazione per il Maestro sublime, rifiuta però di vedere la sua morte come espiazione per i peccati dell’umanità, concetto da lui ritenuto arcaico e non più accettabile da un credente del nostro tempo; e considera il Cristianesimo si può dire esclusivamente come religione dell’amore assoluto, incondizionato: solo questa è per lui la via a quell’unione con Dio che trova espressa in mistici come Angelus Silesius.
Eppure da questo ideale Amiel rimane spesso lontano, a causa vuoi del suo orgoglio (della sua fierté, fierezza, che vanta a più riprese) che gli impedisce di facilitare e addolcire i rapporti con gli altri, vuoi della sua mancanza di fiducia nel futuro, nel destino, e in definitiva in Dio stesso, del quale fatica a concepire fino in fondo la misericordia infinita e del quale sembra temere costantemente una punizione per colpe non espresse e probabilmente sepolte nel suo inconscio (senza troppo forzare in senso freudiano, occorre tuttavia tener presente che Amiel perde a dieci anni la madre, da tutti ricordata come tenera e affettuosa, e a dodici il padre autoritario, il quale in preda al dolore per la morte della moglie si toglie la vita ma il cui suicidio Amiel non menziona mai, o meglio nega e rimuove).A causa di questo autentico terrore di fronte alla sorte (la vita ahimè non somiglia ai suoi diletti scacchi, ma a un gioco di carte, dove la sorte ha sempre un ruolo importante; oppure è una lotteria, di cui non possiamo sapere se abbiamo il biglietto vincente: concetti ripetuti all’infinito nell’immenso diario di quasi diciassettemila pagine), il suo desiderio di essere “tutto o niente”, la sua smisurata (e confessata) ambizione si rovesciano in una tendenza da lui definita “quietista” o “buddista” (l’influsso di Schopenhauer è dichiarato): mancanza di ambizione, desiderio di non essere, irresolutezza, incapacità di realizzare e di concludere. È qui la radice del suo fin troppo noto celibato, che mantiene fino alla morte coltivando però innumerevoli “amicizie” femminili, sempre caste (tranne in un caso, peraltro effimero) e destinate a spezzare cuori, a ridurre alla disperazione le donne che soggiacciono al suo fascino e che comprensibilmente passano ben presto dall’amicizia all’innamoramento.
Non di questo però si tratta nella breve scelta che qui proponiamo e che anticipa la pubblicazione di un’antologia assai più ampia del Journal intime (dove gli aspetti privati della vita di Amiel saranno ben presenti). Accanto a pagine sulla religione, a volte ammirevoli per profondità e altezza di sentire, compaiono qui diverse riflessioni di argomento sociale e politico. Ricordiamo infatti che Amiel, se trascorse a Ginevra la quasi totalità della sua vita, compì numerosi viaggi (specie in gioventù) per mezza Europa (da Berlino assistette ai moti del 1848) e fu sempre un avido e informatissimo lettore di numerosi giornali (che trovava, a Berlino e a Ginevra, in sale di lettura pubbliche). Figlio di commerciante e titolare di una piccola rendita, questo professore di filosofia piccolo-borghese, che fin da ragazzo aspirerebbe a una libertà senza limiti, non può non far propri gli ideali della Rivoluzione del 1789; eppure gli avvenimenti ai quali assiste, in patria e all’estero, lo inducono a considerazioni tutt’altro che ottimistiche sul futuro delle società europee. Specialmente in gioventù prova una certa attrazione verso il socialismo (quello non di Marx, che non conosce, ma di Proudhon); ma dalla lettura di De la démocratie en Amérique di Tocqueville apprende quali possono essere gli inconvenienti, o meglio le derive dell’égalité, principio sacrosanto in sé stesso ma che porta inevitabilmente all’appiattimento e al trionfo della mediocrità qualora scienza, competenza, merito, capacità cessino di essere criteri decisivi di selezione. Per non parlare della fraternité: già allora (senza aspettare il XXI secolo) Amiel constata come questo principio sia assente perfino nelle parole oltre che nella sostanza dell’agire pubblico. Dal suo osservatorio ginevrino, ossia di una piccola repubblica pacifica e neutrale (parliamo della repubblica di Ginevra prima ancora che della Confederazione Elvetica), può osservare con occhio imparziale come i “paesi della libertà” (Francia e Regno Unito in testa) tradiscano senza scrupoli nella politica estera e coloniale gli ideali sbandierati (e non sempre messi in pratica) al loro interno; nella loro aggressività e avidità (specialmente per quanto riguarda gli inglesi) arriva forse per primo a ravvisare un’eredità barbarica (“Gratta l’epidermide, troverai il vichingo”): un’osservazione che dovrebbe far riflettere chi ancora oggi si ostina a indicare soltanto in “Roma e Gerusalemme” le matrici della civiltà occidentale.