Minima Cardiniana 288

Domenica 28 giugno 2020
XIII del tempo Ordinario, Santi Ireneo e Attilio

EDITORIALE
SONO APPARSO A VITTORIO SGARBI (O VICEVERSA?)
Vittorio Sgarbi è un Amico. E, come dice la canzone: “È l’Amico è – qualcosa che – più ce n’è meglio è”. Lo conoscevo da tempo, fino dagli Anni Ottanta (un incontro qui, una telefonata là): e, poiché sono ohimè molto più accademico, molto più “professore”, di quanto vorrei, mi auguravo che correggesse certe sue intemperanze e finisse col far soltanto lo studioso. Perché come studioso, come storico dell’arte e critico d’arte, perdinci mi pareva inarrivabile: un intuitivo, un istintivo dall’occhio infallibile che, quando voleva e ne aveva voglia, sapeva anche rivestire le sue intuizioni di belle ragioni – o di eccellenti apologie – critico-filologiche. “Bisognerebbe che si limitasse a studiare, che non si disperdesse, che studiasse di più…”, mi ripetevo.
Ideucce da professorucolo. Avrei voluto veder anche lui inchiodato come tanti altri in qualche università magari dignitosamente minore – che so, Camerino… – a combattere con i colleghi, i fondi insufficienti, il ministero, le circolari, a umiliar la sua intelligenza sfornando quei due noiosi saggetti all’anno e un libro ogni cinque, fitti di note e di postille, tanto per provare a se stessi e agli altri la propria esistenza e per vincere il prossimo concorso
.
Poi siamo diventati Amici nel 1994 quando io, per caso e per avventatezza, in seguito a un capriccio di Irene Pivetti ero finito nel Consiglio d’Amministrazione della RAI. Da allora, Amici lo siamo restati. Lui da una parte, io da un’altra, sentendoci e vedendoci di rado. Ma è sempre così. I miei Amici li conto sulla punta delle dita delle due mani, e dieci Amici veri sono più che sufficienti per riempirti la vita. E sono tutti gente che, indistintamente, passa con me sì e no qualche ora all’anno quando va bene, spesso magari al telefono o per e-mail. Quegli altri, quelli che vedo tutti i giorni, a parte i familiari e qualche rarissimo collega ch’è anche amico (“collega, e CIONONOSTANTE amico”, si ripete nell’ossimorico linguaggio universitario), sono altra cosa, magari “amici” tra virgolette. Non Amici con la maiuscola. E lui, per me, la maiuscola ce l’ha. Ovviamente una bella maiuscola gotica, rosso minio, con bacche d’oro e fronde verdemare e azzurrocielo come nei manoscritti dei fratelli Limbourg. Direte: che c’incastra Sgarbi liberale, anarchico mangiapreti e mangiatutti, con Cardini cattoasburgofasciocomunista con pennellate islamiche… Nulla. Con gli Amici raramente si discute: semmai ci si manda reciprocamente affanculo e poi magari ci si abbraccia. Ma un Amico non si critica nemmeno. Non gli si dà né torto né ragione. Però lo si difende sempre e comunque, spregiudicatamente, costi quello che costi, anche contro i nostri princìpi e il nostro interesse.

Vittorio lo avevo visto l’ultima volta in una piazza toscana. Si era straparlato, riso, bevuto, detto parolacce; poi lui aveva guidato me e altri tre o quattro in una chiesa vicina, dove c’era una Madonnina, e così su due piedi a proposito di quella Madonnina ci aveva improvvisato una lezione bellissima, un dono del cielo.
Ma questo accadeva mesi fa. Poi, silenzio reciproco. Gli ho telefonato oggi in quanto, per un motivo di lavoro, avevo bisogno dell’indirizzo di sua sorella Elisabetta. Abbiamo parlato al telefono come se ci fossimo lasciati la sera prima. Fra Amici si fa così. Non con i colleghi, i superiori, i subordinati, i collaboratori, i datori di lavoro, i soci in affari, i complici, i parenti, gli avversari, i simpatizzanti, i nemici, i compagni, i camerati, i parenti-serpenti, i fratelli-coltelli. Solo con gli Amici.
Mi ha detto di aver preparato una memoria sull’ultima sceneggiata sgarbiana in parlamento. Una memoria? Una confessione? Una excusatio non petita che come si sa è un’accusatio manifesta? Un Confiteor? Un J’accuse? Non lo so e non me ne frega nulla saperlo. Ovviamente la pubblicherà da qualche parte. Ma io gli ho chiesto subito di poterla diffondere sul prossimo Minimum Cardinianum, privatamente, per me e per i miei venticinque lettori. Ha accettato: generosamente, come sempre, perché questa è una sua dote innegabilissima.
Così, mi sono trovato davanti a questo testo formidabile: a quest’adamantina confessione di schizofrenia e, se preferite, di possessione. Verofalso, sinceroinsincera, spontaneocostruita, coscienza profonda o insondabile megalomania, non lo so e non mi frega niente saperlo. E tantomeno giudicarlo: perché grazie a Dio non faccio né il prete, né il giudice, né il detective. Sarà egocentrico, sarà egotista, sarà egolatra, sarà schizzato, sarà sarà sarà. Ma uno lo guarda, lo sente e gli scappa da pensare: Vittorio Sgarbi. Tanto nomini… E io non dico affatto che abbia ragione. Dico che sto con lui. Perché è un Amico.
Questo è Sgarbi raccontato da Sgarbi. Punto e basta. Non voglio, non posso, non debbo aggiungere altro. Tutto il resto, altri argomenti anche molto importanti, è rimandato al Minimum Cardinianum prossimo. L’ultima domenica di giugno è tutta per lui: godiamoci questa sfuriata col bel tocco poetico finale del mare in tempesta là dove lo Jonio colore del vino quasi si mischia con l’Egeo colore di porpora. E che sia Destra e Sinistra, che sia Freud o Jung, che sia Bruneri o Cannella, chissenefrega.

VITTORIO SGARBI VISTO DA VITTORIO SGARBI
Questa volta mi sono guardato, da fuori, e non mi sono limitato a vivere.
Così come vivo, spericolatamente, trovandomi in situazioni difficili o conflittuali.
Certo, non mi trattengo. Dopo tanti anni e tante cause combattute, potrei stare fermo, meditare, ritirarmi in campagna o vivere, semplicemente, nella mia casa di Roma in stanze spaziose o sulla terrazza, circondato di libri.
“Il mio mestiere e la mia arte è vivere”, scrive Montaigne.
Certo, vivo: sono parlamentare e sindaco e presidente di diverse istituzioni e musei, preparo mostre, faccio spettacoli e conferenze. Il riscontro è sempre positivo e unanime.
Preparo Da Giotto a Pasolini, gli incontri a Sutri (e subito l’acuto occhio di Carlo Vulpio risponde con un articolo sul “Corriere”); restituisco la luce agli affreschi di Francesco Del Cossa a Schifanoia (e Brunella Torresin riflette quella luce su “La Repubblica”); scrivo un libro su Leonardo, Il genio dell’imperfezione (e risponde Furio Colombo con una bellissima recensione su “Il Fatto”).
Vasta e ammirata è l’opera del dottor Jekyll.
Basterebbe Jekyll, per consentirmi una vita serena.
Ma Mr. Hyde è in agguato.
Il suo teatro sono l’attività politica, la televisione e i social, dove ciò che accade nel mondo e nella vita civile potrebbe anche passargli addosso senza farlo reagire, restando in sonno. E invece Hyde non resiste.
E inventa situazioni pericolose, con grande imbarazzo più per gli altri che per lui.
Così, dopo i frequenti interventi in Parlamento, si scaldano opposte tifoserie e può accadere, guarda caso il 25 aprile, giorno della Liberazione, che il suo inno alla libertà contro le restrizioni del Governo sia visto e moltiplicato in tutto il mondo e tradotto in tutte le lingue, dall’arabo al russo, dallo spagnolo all’inglese, ottenendo circa 100 milioni di visualizzazioni, con la promozione di Elon Musk. Non avrei immaginato che la malattia da me maltrattata mi avrebbe innalzato sul palcoscenico internazionale più delle mostre organizzate e dei libri tradotti in molti paesi del mondo.
Fastidiose le critiche e le denunce dei vari “Patti trasversali per la scienza”, ma consolanti le parole di riconoscenza di quanti, nel buio e nella clausura, sottoposti, come ha ben detto Moni Ovadia, al martellamento e alle minacce del male misterioso e mortale, hanno sentito le mie parole di speranza nel costante richiamo a una ragione oscurata, umiliata, dimenticata.
È stato un periodo difficile per tutti; per me un azzardo, una sfida, e anche la sensazione di essere sopraffatto e travolto da una forza terribile, maligna, che aveva il volto di virologi, infettivologi, scienziati, sadici narratori e predicatori di morte.
Mi ritornavano alla memoria le parole di Adelchi nella tragedia manzoniana: “Una feroce forza il mondo possiede, e fa nomarsi Dritto; la man degli avi insanguinata seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno coltivata col sangue, e ormai la terra altra messe non dà”.
Io non volevo starci, sotto questa mano insanguinata, e ho gridato in Parlamento: “Occorre essere uniti contro le dittature e uniti nella verità. Non facciamo di questa l’aula della menzogna”.
In questi mesi la mia personalità si è trasformata. Eppure, nella consueta attività parlamentare, fatta di interventi anche nel genere dell’invettiva, ho cominciato a riconoscermi come simbolo e riferimento di posizioni eretiche, peraltro con il conforto di pensatori importanti e particolarmente ammirati, anche loro fortemente vituperati in questo passaggio difficile: Giorgio Agamben, Giulio Giorello, Bernard-Henri Lévy, Tahar Ben Jelloun, Sabino Cassese, Elena Loewenthal, Gaetano Pesce, Pietrangelo Buttafuoco, Sergio Castellitto, Nicola Porro, Camillo Langone, Giordano Bruno Guerri.
Tanti, sopraffatti dal triste coro delle mascherinanti alla Carfagna, con le loro ridicole regolette condivise dai troppi contagiati nelle loro fragili menti (“Ce virus qui rend fou”, scrive Lévy). A un certo punto ho avvertito che molti tentavano di liberarsi da quella ossessione. E intanto, nella mia trasformazione, cominciavo a vedermi in modo diverso, quasi un performer che si misurava con ruoli nuovi, e più spettacolari di quelli assunti negli interventi teatrali su Caravaggio, Michelangelo, Leonardo, Raffaello, come se stessi seguendo un copione con alcuni “quadri” obbligatori.
Il destino era scritto quando, in un viaggio in Albania a Palase, vicino a Valona, il mare tempestoso stava per inghiottirmi, sotto le sue maestose onde, se il braccio gentile della mia giovane figlia non mi avesse offerto soccorso: un episodio banale diventato emozione nel racconto di un filmato che ha di nuovo fatto il giro del mondo mostrando me, come ogni uomo, nella fragilità, nella precarietà davanti alla potenza della natura.
Con quelle immagini la trasformazione sembrava compiuta: non ero più un uomo ma un racconto, un apologo, fino ad esibirmi e a definirmi in uno stile critico che si fa opera.
La strada era aperta. Così, quando giovedì scorso, in Parlamento, sono intervenuto in dichiarazione di voto sulle misure urgenti per le intercettazioni, nel momento in cui ho iniziato a parlare mi sono sentito tranquillo, determinato, nel tono solenne, presagendo che qualcosa sarebbe successo.
Non potevo prevedere in quale misura, ma ricordo perfettamente che, durante tutto il breve discorso, alle mie spalle sentivo applausi dai banchi delle opposizioni, come non sempre accade e non era accaduto nei mesi del terrore sanitario.
Ho denunciato la nuova Tangentopoli chiamandola “Palamaropoli” (come “Paperopoli”), invocando una commissione d’inchiesta con preciso riferimento alla forte dichiarazione di Francesco Cossiga, già Presidente della Repubblica: “L’associazione nazionale magistrati è una associazione tra sovversiva e di stampo mafioso”.
Posso anche dire, nonostante le ridicole riserve dell’ex radicale Giachetti che, al riparo di Cossiga, e dopo i numerosi interventi di Pannella sulla magistratura come “corpo eversivo e golpista, che calpesta giorno dopo giorno i diritti dei cittadini”, e anche sulla Corte Costituzionale, come “cupola della mafiosità partitocratica”, non avrei pensato a tanto scalpore e alle sciocche reazioni di chi ha voluto negare l’evidenza (ne è prova l’universale consenso ai miei argomenti del cosiddetto “popolo del web”).
Come è accaduto, dunque, come si è potuta determinare una reazione così corale di tanti parlamentari (incapaci di interpretare il prevalente sentire collettivo), indignati, scandalizzati, in difesa della magistratura corrotta e di due deputate che cercavano di nascondersi dietro il genere femminile (come se uno “stronzo” a una donna fosse più grave che uno “stronzo” a un uomo)?
Da quel momento parte il tempo di tempesta, che tutti hanno visto, e si prepara la mia premeditata esclusione dall’aula.
E qui inizia il teatro, per istinto prima che per calcolo.
Avvertendo io violati i miei diritti, nella perfetta legittimità delle mie parole, dietro lo scudo di Cossiga e di Pannella, protesto contro la scellerata difesa della magistratura (quando io mi ero riferito ai soli magistrati corrotti e ai metodi dei Csm nelle nomine, e dell’Associazione Nazionale Magistrati nelle garanzie per le posizioni politiche di alcuni, citando le intercettazioni di uno schieramento unanime i magistrati contro Salvini), e sento la stridula Carfagna minacciare la mia espulsione e confermarla mentre io respingo e smentisco, con veemenza ma senza insulti (non risultano nelle riprese d’aula, e il “Troia” che mi attribuisce il resoconto stenografico, non indirizzato a nessuno, è evidentemente “Troian”, oggetto della discussione), le riflessioni indebite di una magistrata/deputata che non ha capito o ha fatto finta di non capire le mie considerazioni.
Il vento si alza di voce in voce, di deputato in deputato. Io mi rifiuto di uscire dall’Aula di Montecitorio spontaneamente.
Arrivano così a portarmi via quattro commessi.
E, di lì, io smetto di vivere, e mi vedo come immagine, interpretando una performance senza precedenti.
Nessun deputato è stato mai portato fuori dall’Aula con la forza, e su sua richiesta.
Lì inizia lo sdoppiamento, cominciano le immagini .E così, tra tante critiche ipocrite e vittimismi, tra tanti attestati di solidarietà (e non si capisce perché, come se il mio obbiettivo fossero polemiche personali e non istituzionali e relative agli accadimenti, come tanti altri sfoghi off records, nelle sedute della Camera), mi rendo conto che non c’è più relazione fra l’episodio vissuto e la sua rappresentazione.
Ed ecco nascere (in modo preterintenzionale o intenzionale?) l’immagine che resterà nella memoria del Parlamento.
Ovviamente, un’immagine.
E, subito, da menti gentili e coltivate, la composizione artistica del trasporto del mio corpo fuori dall’aula viene benignamente e sublimemente affiancata, anche con efficaci fotomontaggi, alla “Deposizione” di Raffaello alla Galleria Borghese e alla “Deposizione” di Caravaggio nei Musei Vaticani.
In quell’accostamento ho il mio riscatto e la mia vittoria.
Imprevisti.
Inattesi.
Mentre le due sciocche parlamentari e i loro petulanti solidali finiscono nel mormorio, in secondo piano, fino a sparire.
Per loro l’oblio, per me la gloria.
Autocelebrazione?
Compiacimento?
No.
La seconda performance, dopo le onde albanesi, di un nuovo artista.
Voi credete che qualcuno ricordi nome, volto e parole di tale Giuseppe De Filippi, controfigura di Maria, incapace di intendere la realtà trasfigurata in arte, che vede “il rito della coerenza più stupida, la coazione alla aggressività ostentata e il gusto pervicace per la pura e semplice violenza di parole e gesti” in “Vittorio sempre un po’ più uguale a se stesso”?
Poveretto. Sempre più leggendario, invece. Non pentito e pienamente soddisfatto.
Poteste leggere gli infiniti messaggi che mi sono arrivati. Il critico d’arte Gianluca Marziani scrive: “Hai fatto una strepitosa azione in Parlamento; il produttore televisivo Stefano Ruzzelli: “Genio totale”; Annalisa Tatarella: “Hai superato te stesso”; Sergio Castellitto: “Vittorio grande, è un vanto farsi cacciare da quell’aula in estasi di ipocrisia”; un sostenitore appassionato: “Grazie per aver difeso la libertà di parola con coraggio leonino. Ormai è regime pieno”; Angelo Tuminelli: “Quello che ti hanno fatto è vergognoso. Tu hai detto cose vere e condivisibili”; Peppe Musto: “Il suo intervento alla Camera è stato un intervento da statista”; Costanza di Noto: “Io sono sempre dalla tua parte e siamo in tanti. Grazie per quello che fai per questo paese”; Edoardo Carboni : “Esteta fino alla fine, complimenti professore”; Bruno da Milano: “Mitico professore, lei è eccezionale”; Elena Bonelli: “Sei stato fantastico in aula contro quelle merdacce”; Valentina Ughetto: “Come stai? Mi dispiace molto per questo paese”; Carlo Raffaelli: “Sei stato un grande!!!! La magistratura è la peggiore vergogna italiana, strumento politico per soggiogare la popolazione”; Luigi Migliorini: “Che tristezza vedere che dal parlamento viene espulsa una delle sue intelligenze migliori!”; Alessandra Tucci: “Sei un grande. E questo è un fatto, non un complimento”; Maria Monni: “Siamo tutti con te!! Vogliono metterci il bavaglio ma non ci riusciranno. Sei onesto, schietto e fortissimo!”; Marco Landi: “Grande Vittorio. La tua uscita dalla camera è stata trionfale. Alla faccia di chi si sente nel giusto”; Mario Verdi: “Ho potuto assistere a un passaggio del tuo intervento alla camera. Ti conferisco, con effetto immediato e a tutti gli effetti, l’onorificenza di EROE della Repubblica! Hai tutta la mia ammirazione. Non potevi esprimere meglio quello che tutti (cioè coloro che non sono del PD e dei 5 stalle) pensiamo”; Maurizio Donadoni: “Caro Vittorio, in parlamento ieri sei stato epocale. Davvero. Circondato da quei tartufi, l ‘unico con del coraggio: a dire quel che pensa e pensare quel che dice. A presto”; Patrizia Lori: “Non mollare mai e so che tua madre ti segue ed è orgogliosa di te, non ti abbandona… La tua forza è la sua… So che è sempre nel tuo cuore ed il ricordo di lei ti appare spesso… Vai avanti… il mondo ti guarda… e chi sta dalla parte della verità è con te… Ricorda che sei anche guidato… lo sei sempre stato…”; Francesco Sansone: “Onorevole le siamo vicino. Questo governo non tollera le persone libere come lei. Grazie per la sua battaglia in parlamento”; Francesca Ceci: “Io ti adoro. Tu sei l’ultimo baluardo di bellezza e libertà di questo paese”; Mario Occhiuto, sindaco di Cosenza: “Caro Vittorio, sei l’unico in Italia oltre al Presidente della Repubblica che può permettersi di dire la verità sui magistrati. Solo che il Presidente della Repubblica non lo fa. Sei un personaggio con tale autorità e prestigio, che nessuno può contrastarti individualmente. E quindi li costringi a mettersi ipocritamente insieme. Dici le cose che tutti vorrebbero dire (e non dicono) in un paese dove tutto si dovrebbe liberamente poter dire (ma non si dice). Sei unico, e in tantissimi ammirano il tuo coraggio e la tua cultura”; Otello Lupacchini, procuratore della Repubblica: “Caro Professore, non so quali siano le ‘parole irripetibili’ che avresti pronunciato e che avrebbero giustificato la Tua violenta espulsione dall’emiciclo della Camera. Una cosa, però, ho percepito: Giusy Bartolozzi, per replicare, approfittando di un cavillo regolamentare, alla Tua richiesta di una Commissione d’inchiesta su ‘Palamaropoli’, ha travisato a bella posta le Tue parole e il Tuo pensiero, perché non può considerarsi rivolta all’intera magistratura la critica, quantunque forte, da Te rivolta ad un ‘apparato’ quale è l’AMM, intesa non nel complesso dei suoi iscritti, ma come organo di vertice e di rappresentanza degli stessi. Non Ti curare dell’atteggiamento ‘vomitevole’ degli ‘omiciattoli tremebondi’ (di entrambi i sessi) che per timore o, peggio, speranzosi di ricavarne qualche miserabile prebenda, resteranno in silenzio di fronte all’inaudita violenza fisica da Te patita, pensa piuttosto a quel che raccomandava, qualche anno fa, un tal Aristotele: mai parlare col primo venuto, privo di capacità dialettiche: il discorso rischia di diventare agonistico e, allora, l’ultima parola, finisce sempre per averla il più forte (ovviamente non sul piano intellettuale). Un abbraccio solidale”.
Bastano? Dall’altra parte, la ridicola morale di una grillina sorpresa in filmati pornografici diffusi, indignata per le mie supposte parolacce, dopo essere stata eletta in forza di innumerevoli vaffanculo.
Poveretti, destinati a sparire e già inesistenti, mentre io vengo accostato a Raffaello e Caravaggio; anzi li interpreto, come Luigi Ontani.
Scrive Carlo Benvenuto: “Sei più grande di Raffaello, il nostro Raffaello, non ti fermare mai”.
Nino Ippolito mi attribuisce la didascalia, sotto la “Deposizione”, che dà il pieno senso dello straniamento delle immagini: “Mi volevano deporre, ma mi hanno solo momentaneamente spostato”; Francesco Micheli, il finanziere, apre i giochi: “Solo un genio come te poteva rovesciare il tavolo mostrandosi ritratto da Caravaggio addirittura nella figura del Cristo! Attendiamo la tua presenza in una Resurrezione… come si conviene al terzo giorno”.
Vincenzo Zingaro si spinge fino alla lettura critica: “Caro Prof. Sgarbi ha tutta la mia solidarietà per quanto è accaduto ieri alla Camera… la sua genialità ha saputo trasformare un gesto squallido (la sua forzata dipartita dall’aula ad opera di imbelli figuranti) in una pagina di storia dell’Arte, rendendo per un attimo la tela desolante del Parlamento un quadro di Raffaello, con una carica di simbolismo che resterà nella storia… nel suo essere trascinato via ha saputo trasfigurare la goffaggine dei commessi in un affresco vivente pieno di pathos, citando la deposizione del Cristo di Raffaello… in quel Cristo che in quel momento lei rappresentava, c’era un monito… c’era tutto il peso del sacrificio violento che l’Italia ha subìto con l’uccisione della giustizia e di ogni valore di trasparenza, equità e meritocrazia. Con stima”.
Avete dunque assistito alla mia trasformazione in opera d’arte. Ormai non conta più l’episodio nella sua contingenza, la fotografia del trasporto nella cronaca del “Corriere”: “Alla fine i commessi della Camera l’hanno dovuto portare fuori di peso tra le urla e i cori di un Aula ridotta a una bolgia, una scena che ha pochi precedenti negli annali parlamentari”. Quello è il residuo, l’occasione, per qualcosa che resterà nella memoria e, prima che nella storia del costume, nella storia dell’arte, nelle sue contaminazioni.
Penso a Andy Warhol, penso a Banksy, penso alle serate futuriste.
Cosa dire allora di parrucconi impotenti, distesi su amache repubblichine in ventottesima pagina, che scrivono autentiche banalità, con rivoltante moralismo, incapaci di intendere il gesto trasfigurato, il teatro della vita; e ammirano soltanto le sanzioni, nella loro mentalità da questurini: “Non perché sia stato sbagliato cacciarlo: è stato sacrosanto e tardivo (e siamo felici che a decidere l’espulsione sia stata Mara Carfagna, rara incarnazione di una destra liberale e gentile)”. E qui si fa strada un “vaffa”, ricordando il pensiero di Veronica Lario sui servizi dell’“incarnazione” a Berlusconi. Non riuscendo a intendere ciò che ha visto, l’amacato esiliato a pagina 28 di “Repubblica” depensa come l’ultimo grillino esautorato: “Sgarbi è un mostro costruito dal cinismo, (ben più mostruoso di lui) dei nostri anni. La sua maleducazione patologica, il suo imbarazzante narcisismo, la sua insopportabile maleducazione sono stati protetti e nutriti, per decenni, da conduttori e autori televisivi entusiasti di proporre allo spettabile pubblico, come fece Barnum con la Donna Barbuta, L’Uomo che Strilla”.
Tutti scemi, meno lui. L’acido commentatore, che non vede Raffaello e non vede Caravaggio, avanza con la sua morale precotta, triste, sfortunato, dimenticato.
È compiaciuto, con il suo perbenismo malinconico e patetico che, chissà perché, non si applica a Vasco Rossi o a Grillo, o ad altri insultatori seriali che non hanno fatto niente per l’arte, che non hanno mai fatto conoscere il loro dottor Jekyll.
Insopportabile è la presunzione da parte di chi non mi ha sentito parlare, davanti a migliaia di persone, di Michelangelo, Leonardo, Caravaggio, Raffaello, e di affermare, mortificandole: “Così un ragazzo intelligente e colto è diventato un fenomeno da baraccone e addirittura un leader politico [come se fosse una colpa], perché la nostra epoca, della cultura e della intelligenza, non sa che farsene”. Poveretto, lui che si ritiene colto e intelligente, ed è sparito da tempo dagli occhi di tutti. Non ne resta che la polvere, a pagina 28. Io sono con Caravaggio e Raffaello.