Domenica 5 luglio 2020
XIV Domenica del Tempo Ordinario, Sant’Antonio Maria Zaccaria

CINQUE CASI ESEMPLARI
1. UNA GLORIOSA MEMORIA NAZIONALE SU TERRA CONTESTATA
È necessario ricordare che il terreno sul quale fu eretto il monumento che raffigura, scolpiti nella roccia, i volti di quattro presidenti americani, fu sottratto ai nativi Lakota Sioux nel secolo XIX. Dello scultore autore dell’opera si parla nell’articolo.
Nei giorni scorsi Julian Bear Runner, presidente dell’Oglala Sioux Tribal Council, ha ammonito il presidente a non visitare il 3 luglio, vigilia dell’Independence Day, il monumento nazionale in South Dakota perché aumenterebbe il rischio coronavirus e violerebbe gli storici trattati tra il governo Usa e i nativi americani per governare le sacre Black Hills. La visita, infatti, richiede il permesso dei sette governi tribali Sioux.
Com’è andata, adesso lo sappiamo. E conosciamo anche le frasi che sono state pronunciate da Donald Trump. Che, a nostro avviso, non hanno bisogno di alcun commento (David Nieri).
4 LUGLIO: TRUMP A MOUNT RUSHMORE “SENZA DISTANZE”
“No a cancel culture: così si distrugge la storia, paese diviso”.
Il “nuovo fascismo dell’estrema sinistra” vuole “spazzare via la nostra storia e i nostri valori”. Nell’imponente scenografia offerta da Mount Rushmore e davanti a migliaia di sostenitori senza mascherina e senza distanziamento sociale, Donald Trump manda in scena il suo show per le celebrazioni del 4 luglio ignorando il coronavirus. In difficoltà nei sondaggi e criticato per la gestione della pandemia, il presidente americano cerca di voltare pagina, rilanciare la sua campagna e riconnettersi con la sua base, quella che può regalargli altri quattro anni alla Casa Bianca. Per farlo sceglie il South Dakota e lo storico monumento che vede scolpiti nella roccia i volti di quattro presidenti americani – George Washington, Thomas Jefferson, Abraham Lincoln, Theodor Roosevelt – sognando forse, come lascia intendere una foto ritoccata twittata dalla sua campagna elettorale, di essere un giorno il quinto rappresentato. Una scelta, la sua, più che simbolica in un momento in cui l’America si interroga sul suo passato e chiede a gran voce la rimozione di tutti i simboli razzisti.
Anche il luogo scelto è ricco di significato: il maestoso monumento, testamento della tenacia umana, è stato realizzato da uno scultore simpatizzante per il Ku Klux Klan su una terra sacra per i nativi americani. Ad attendere il presidente a Mount Rushmore sono i manifestanti, contro i quali la polizia ricorre anche allo spray al peperoncino. Nell’anfiteatro allestito ai piedi del monumento è però un trionfo del ‘trumpismo’. Il tycoon entra mano nella mano con la First Lady Melania Trump e accompagnato dalla figlia Tiffany e dal figlio Eric. Poi prende la parola e condanna la “cultura della cancellazione”, i democratici e i manifestanti che da settimane invadono le strade delle maggiori città per dire basta al razzismo e all’uso eccessivo della forza da parte della polizia. “Il nostro paese sta assistendo a un’impietosa campagna per cancellare la nostra storia. Una delle armi usate è quella della cultura della cancellazione. E questo è totalitarismo”, dice Trump fra gli applausi. “L’attacco alla nostra libertà deve essere fermato”, aggiunge parlando di “mafiosi arrabbiati che stanno cercando di buttare giù le statue dei nostri fondatori e sfregiare i nostri memoriali”. Il presidente quindi assicura che nessuno toccherà mai Mount Rushmore, di cui i nativi chiedono lo smantellamento. “Vorrebbero farci tacere ma noi non staremo in silenzio. Non ci faremo intimidire da gente cattiva”, avverte.
(Redazione ANSA, 4 luglio 2020)
In altri termini, cari Amici,
la storia viene calpestata e il diritto viene ignorato perché si sa bene che la gente ha la memoria corta e che quel che conta è il diritto del più forte. Gli accordi ottocenteschi tra governo USA e rappresentanti dei Native Americans possono venir disattesi, irrisi e calpestati: perché? Ovvia la risposta, di stampo staliniano: ricordate quando il generalissimo, di fronte alle decise prese di posizione del Vaticano, chiedeva ironicamente quante divisioni corazzate avesse il papa?
Ebbene. Oggi l’ONU e l’opinione pubblica internazionale sanno bene che i Native Americans non hanno alcuna divisione corazzata, anzi ormai mancano anche di archi, frecce e cavalli con i quali inseguire le diligenze. E allora i trattati non valgono più, i loro santuari sono solo dei parchi-giochi, sulle loro Montagne Sacre lo scalpello del più forte ha scolpito le effigi dei vincitori. E il “dovere della memoria”, quello del quale solennemente e puntualmente ci ricordiamo ogni 27 gennaio ma che ci viene anche richiamato a ogni piè sospinto?
Niente. Notte e nebbia. Ma è un lusso che noi non possiamo permetterci. Chiamo in causa l’avvocato Alessandro Martire che in Italia rappresenta la voce del nobile popolo degli Oglala. Il 25 giugno 1876 il grande Sitting Bull fece in modo, a Little Big Horn, che il popolo delle Giacche Blu e dei Lunghi Coltelli provvedesse a ricordare che i patti vanno mantenuti. Da allora, purtroppo, i tempi sono cambiati. Ma adesso, c’è proprio solo la forza delle armi che può mantenere viva la memoria? Il diritto, la ragione, il rispetto, la conoscenza storica, i patti, le promesse, non valgono proprio nulla?
Nessuno troverà strano che si dimentichino i diritti degli Oglala. Ci si potrebbe chiedere: ma perché al contrario ci sono cose per le quali vige il “dovere della memoria” continuo, cose dimenticando o anche semplicemente contestando in minima parte le quali si viene messi alla gogna, si subisce la morte civile, si perde il posto in un giornale, si viene espulsi da scuola? Evidentemente, chi tiene a tanto continua e solerte memoria le divisioni corazzate di staliniana memoria ce l’ha: e magari ha anche catene televisive e mediatiche al suo servizio, e case editrici, e corporations economiche e finanziarie, e magari polizie segrete e arsenali atomici; e può allora perfino permettersi di definir “terrorista” chiunque tenti di reagire.
Sulla questione della Montagna Sacra mi piacerebbe sentire e pubblicare il parere dell’avvocato Alessandro Martire, fiorentino naturalizzato Oglala e membro di una nostra piccola associazione, “Siamo tutti pellerossa”.
2. DELITTI SENZA CASTIGO: UN OPPORTUNO PROMEMORIA DA APPROFONDIRE
Esiste un portale denominato Informazione corretta. Una testata che si propone uno scopo elevato e nobilissimo. Una testata ambiziosa, nel senso autentico di questo aggettivo. Congratulazioni. Ma a volte le càpita di non convincere. Non abbiamo motivo di pensare che sia sistematicamente bugiarda. Dovrebbe solo informare sul serio correttamente. Non sempre ce la fa: è comprensibile. Auguri.
Da alcuni segni mi sono reso conto che i signori e le signore che organizzano quel portale fanno attenzione a quel che dico e scrivo. Non perché ne valga la pena: ma è così, lo fanno, e il perché andate a chiederlo a loro. Né si può dire che io sia loro simpatico: pazienza, me ne farò una ragione, mica si può piacere a tutti: e poi questi in fondo sono fatti loro. Se però mi chiamano in causa e io replico, il loro dovere di Informatori Corretti è di rispondermi. E magari di mettermi impietosamente a tacere. Del che sarò loro grato, perché ciò significherà che mi hanno insegnato qualcosa.
Settimane fa, su “Avvenire”, presentai un libro di Paolo Borgognone sull’Iran. Giunse tempestiva la scomunica degli Informatori Corretti. Il mio articolo era addirittura “il peggiore” fra quelli usciti di recente sull’argomento. Mi sono limitato, da questa sede, a chiedere che al globale e chiarissimo giudizio di condanna facesse seguito un puntuale dispositivo di confutazione. Per il momento non ho visto nulla: se mi sono sbagliato, chiedo scusa. Ma resta il fatto che ho diritto a spiegazioni: altrimenti la loro non è informazione, è calunnia.
Ora però, a mia volta, sono io non già a giudicare e tantomeno ad accusare, ma solo a chiedere chiarimenti e spiegazioni. L’articolo che segue, e che integralmente e correttamente pubblichiamo, contiene affermazioni che a tutt’oggi non appaiono giustificate da prove che le facciano apparire plausibili. Chiedo queste prove. Mi permetto, senza toccare il testo, di evidenziare in grassetto alcuni passi e d’inserire alcuni numeri arabi fra parentesi che esprimono richiesta
DEBORAH FAIT
STRAGI PALESTINESI: SEGRETI CHE NON SARANNO MAI RIVELATI
Quando si tratta di malefatte palestinesi ecco che si mette immediatamente in moto la censura. Vietato parlarne, vietato dire che atti di terrorismo secretati potrebbero essere attribuiti a quella gente che ama il terrorismo più della propria madre (1).
Sono anni che, dopo le rivelazioni di Francesco Cossiga, il coinvolgimento di terroristi palestinesi nella strage di Bologna, è più di un sospetto. Era il periodo in cui gli scagnozzi assassini di Arafat scorrazzavano per l’Italia e l’Europa, armati fino ai denti, pronti ad uccidere e protetti dai governi complici. L’Italia è stata in quel periodo una dei maggiori alleati (forse è meglio dire: complice sottomessa) di Arafat, il Lodo Moro era stato siglato per proteggere i terroristi a patto che non ammazzassero italiani. Moro e i suoi non conoscevano la lingua “palestinese”, non sapevano che la parola d’onore di Arafat era inesistente, era pari al nulla. Arafat parlava, prometteva, piagnucolava, giurava e poi ammazzava! E ammazzava chiunque, meglio se ebrei ma anche il sangue di altri non lo schifava.
Bene, a Bologna è quasi sicuro che la strage sia stata perpetrata dai palestinesi che scorrazzavano liberamente per l’Italia con bombe, armi ed esplosivi. Ma non si può dire!
È anche vietato dire che la strage di Ustica, 27 giugno 1980, sia stata provocata dai terroristi del Fplp, Fronte per la liberazione della Palestina (2). Durante le trasmissioni televisive per commemorare quella tragedia, nessun telegiornale ha accennato ai palestinesi. Censura. Hanno parlato di bombe, di generali traditori, di missili francesi, di aerei libici ma di bombe palestinesi neanche un accenno. Eppure si sapeva che la strage di un aereo era preventivata dal Fronte palestinese come rappresaglia per l’arresto di un loro boss.
Carlo Giovanardi ha violato il segreto gelosamente mantenuto per 40 anni. Tutta la documentazione giace da anni in Commissione Moro e nessuno la renderà pubblica perché rivelerebbe le trame dei governi italiani con i terroristi palestinesi negli anni 70/80 (3). Stragi su stragi, tutte coperte dal Lodo Moro, complici i governanti dell’epoca da Moro a Andreotti, a Craxi. Il collegamento tra terroristi palestinesi e governo italiano era tenuto dal colonnello dei carabinieri e uomo di fiducia di Moro, Stefano Giovannone.
Gli 81 morti di Ustica, e gli 85 morti di Bologna non avranno mai giustizia esattamente come i morti dei due attentati di Fiumicino; di Stefano Gay Tachè assassinato a due anni e tutti i feriti della Sinagoga di Roma i cui assassini sono stati subito liberati, come l’assalto all’Achille Lauro e l’assassinio di Leon Klinghoffer. Sono solo alcune delle stragi fatte dai palestinesi di cui non bisogna parlare perché sono gli unici terroristi protetti e amati in tutto il mondo occidentale. Inspiegabile, assolutamente inspiegabile (4).
(Informazione Corretta, 29 giugno 2020)
No, non è esatto. Noi per esempio siamo disposti a parlarne. Ma non disponiamo dei dati. Voi ce li avete: comunicateceli e faremo di tutto per diffonderli.
Chi lo vieta? Fuori i nomi: dateceli, e li considereremo nostri acerrimi nemici per sempre. Nomi e prove, beninteso.
Non c’è dunque in Italia un politico, un giornalista, un cittadino disposto a imporre che questi dati si pubblichino o a denunziar chi vuole mantenerli segreti? Metto 1000 firme di cittadini responsabili a disposizione di chi ci fornirà i dati necessari a redigere una denunzia formale.
Gli UNICI terroristi? Non è che per caso qui si stia dimenticando alcuni episodi che riguardano Europa, Mediterraneo e Vicino Oriente e che ormai risalgono a circa un secolo? Non è che si stanno omettendo alcune ragioni per le quali il terrorismo qui denunziato esiste, alcuni problemi irrisolti e anzi degli ultimi mesi aggravati, alcuni trattati internazionali violati, alcune annessioni territoriali unilaterali commesse sotto gli occhi di tutti e nell’assordante silenzio di poteri internazionali e di media? Il terrorismo, come qualunque altro male, va combattuto senza se e senza ma e con ogni mezzo: primo fra tutti, al pari delle malattie, con la prevenzione. Quale tipo di prevenzione si sta adottando adesso, per esempio, per impedire che a un ragazzino di Gaza, oggi, venga in testa di diventare domani un terrorista? E perché, quando si fanno certe domande, anziché spiegazioni sensate e articolate si ottengono solo accuse di antioccidentalismo e di antisionismo? E se noi queste domande le facessimo proprio per provocare risposte che all’antioccidentalismo e all’antisionismo toglierebbero definitivamente argomenti?
3. COSÌ PARLÒ CASAROSA
Appare indispensabile comporre il parere del professor Casarosa con le sconvolgenti rivelazioni promesse e annunziate (ma non fornite) da “Informazione corretta”. Citiamo di nuovo il passo in questione, ripreso dall’articolo presente qui sopra, e invitiamo a confrontarlo con l’intervista di Eleonora Mancini al professor Casarosa:
È anche vietato dire che la strage di Ustica, 27 giugno 1980, sia stata provocata dai terroristi del Fplp, Fronte per la liberazione della Palestina. Durante le trasmissioni televisive per commemorare quella tragedia, nessun telegiornale ha accennato ai palestinesi. Censura. Hanno parlato di bombe, di generali traditori, di missili francesi, di aerei libici ma di bombe palestinesi neanche un accenno. Eppure si sapeva che la strage di un aereo era preventivata dal Fronte palestinese come rappresaglia per l’arresto di un loro boss.
Allora, Faith; allora, Casarosa? Chi è dei due che mente, che sbaglia, e perché? E chi è che “sapeva” che la “strage di un aereo” era stata preventivata, e quando, e dove, e da chi, e come si fa a dire che l’aereo era proprio quello?
ELEONORA MANCINI
STRAGE DI USTICA, IL PROFESSORE PISANO CHE HA FATTO “PARLARE” IL DC9
Carlo Casarosa ha rimontato i resti dell’aereo: “Ma quale mistero? Né bomba, né missile. L’incidente fu una quasi collisione”.
Il vestitino di una bambola, ritrovato fra i resti del DC9 Itavia precipitato nel mare di Ustica il 27 giugno 1980, è uno dei ricordi più commoventi nella memoria di Carlo Casarosa, professore ora in pensione di Meccanica del Volo nel Dipartimento di Ingegneria aerospaziale dell’Università di Pisa.
A Casarosa e ai suoi collaboratori, Mauro Romagnoli e Pierluigi Lunardelli, tecnici dell’Ateneo pisano, si deve la ricostruzione del relitto che oggi si trova nel Museo della Memoria di Bologna. Grazie al professore pisano, originario di Cascina, il ‘mistero di Ustica’ ha una ulteriore verità di fronte alla quale ancora molti tendono a opporsi preferendo quella più mediatica del missile.
“Ma sul DC9 – ribadisce Casarosa – non ci sono tracce di esplosione né interna (bomba), né esterna (missile). Ogni prova a sostegno è smontata da analisi o da dati oggettivi. Un esempio semplice: di fronte ai vetri intatti di cinque file di oblò recuperati dal relitto, come può reggere l’idea di una esplosione?”.
Ogni anno da 20 anni, da quando cioè nel 1990 entrò nel collegio dei periti che affiancava il giudice Rosario Priore nell’inchiesta, in prossimità del 27 giugno il professor Casarosa entra nel vortice delle richieste di tv, giornali e agenzie di stampa in cerca di una voce autorevole e competente.
Eppure, professore, quando propose l’ipotesi della quasi collisione fu isolato e, si direbbe, ‘deriso’. Perché?
Missile, bomba, cedimento strutturale furono le prime ipotesi. Quando il professor Santini mi chiese di entrare nella squadra di periti, mi ripromisi di affrontare l’incarico con la massima oggettività e senza innamorarmi di ipotesi né lasciarmi condizionare. Lo scenario geopolitico di quegli anni e anche i molti e frequenti depistaggi hanno contribuito ad accrescere il mistero intorno a questo caso, che un’analisi oggettiva e rigorosa di tutti gli elementi, dal relitto allo scenario esterno, è chiaro e lampante. Non rassegnandosi all’assenza di prove di esplosione, persino il presidente Cossiga ipotizzò un missile a risonanza, che non lascia segni. Siamo al surreale.
Lei, si direbbe, è l’uomo che ha fatto parlare il DC9 di Ustica. Cosa dice il relitto?
Fu un recupero molto complesso e reso ancor più difficile da un contesto, diciamo, poco collaborativo. Il relitto, negli oltre 4000 pezzi che per quattro anni abbiamo ricostruito nell’hangar di Pratica di Mare, ci racconta che l’evento primario che fece destrutturare e precipitare il DC9 fu la rottura dell’estremità dell’ala sinistra.
Da cosa si capisce?
Da un frammento dell’ala sinistra. Quando iniziammo a montarlo sullo scheletro del relitto, ci accorgemmo che presentava segni di distacco causato da deflessione verso il basso. Questa si era invece verificata in volo, al momento del distacco della parte terminale dell’ala.
Come arrivaste alla conferma?
Inserimmo tutti i dati aeromeccanici del DC9 in un simulatore di volo. Vedemmo generarsi l’incidente di Ustica sotto i nostri occhi.
La cosiddetta ‘quasi collisione’. Cosa avvenne di preciso?
Ci fu un evento esterno che riuscimmo a individuare studiando proprio lo scenario di quella sera, sulla base dei risultati che le perizie radaristiche andavano via via fornendo. Nei cieli sopra Ustica, il DC9 non era solo. C’era il Mig 23 libico, poi ritrovato sulla Sila, e due aerei forse americani. La flessione dell’ala fu determinata dall’incontro del DC9 con una scia vorticosa lasciata da un altro aereo che lo ‘sorpassò’. Il fenomeno si chiama Wake Vortex Turbulence, indicato nei documenti come quasi collisione, ben noto in Aeronautica perché all’origine di molte sciagure aeree. Durante il volo, si generano delle scie vorticose che si mantengono anche quando il velivolo è passato e si attenuano dopo alcuni minuti. È per questo motivo che le autorità aeronautiche impongono precisi intervalli di tempo prima di autorizzare decolli e atterraggi negli aeroporti.
Quindi?
Il DC9 viene ‘sorpassato’ da un aereo che, intercettato, vira a est rispetto alla traiettoria verso sud, su cui entrambi procedevano. L’ala sinistra del DC9 incrocia la sua scia. E da lì il distacco e la caduta. Credo che il DC9 sia rimasto casualmente coinvolto in un’azione di riconoscimento e intercettazione.
Il ‘sorpasso’ è quello operato dal Mig libico. Lei andò anche in Calabria a fare una perizia su quel relitto.
Sì, partimmo col giudice Priore quando si capì che poteva esserci una relazione con l’incidente di Ustica. L’aereo fu ritrovato il 18 luglio, ma poi, superati menzogne e depistaggi, venne fuori il sospetto che fosse caduto tre settimane prima.
Professore, cosa ricorda di quegli anni?
Ricordo anche la commozione quando, tra i relitti, fu trovato il vestitino di una bambola. Fra le 81 vittime c’erano 11 ragazzi tra i 2 e i 12 anni e due bambini di meno di 24 mesi. Quando, per studiare i reperti, dovevo prendere in mano questo vestitino, mi commuovevo e mi sorprendevo a parlare con questi bambini chiedendo loro che ci aiutassero a trovare un indizio.
(La Nazione, 26 giugno 2020)
4. LA CORAZZATA NATO SUL MARE NOSTRUM: SINISTRO SCRICCHIOLARE NELLA STIVA
Su un fronte molto lontano da quello nel quale sembra militare “Informazione corretta”, ecco “Il Manifesto”. E torna la solita domanda: ma la NATO, con precisione, a chi serve, a quali interessi risponde, che gioco sta facendo?
MANLIO DINUCCI
LA NATO AL TIMONE DELLA POLITICA ESTERA ITALIANA
I ministri della Difesa della Nato (per l’Italia Lorenzo Guerini, Pd), riuniti in videoconferenza il 17/18 giugno, hanno preso una serie di “decisioni per rafforzare la deterrenza dell’Alleanza”. Nessuno però in Italia ne parla, né sui media (social compresi) né nel mondo politico, dove su tutto questo regna un assoluto silenzio multipartisan. Eppure tali decisioni, dettate fondamentalmente da Washington e sottoscritte per l’Italia dal ministro Guerini, tracciano le linee guida non solo della nostra politica militare, ma anche di quella estera.
Anzitutto – annuncia il segretario generale Jens Stoltenberg – “la Nato si sta preparando a una possibile seconda ondata del Covid-19”, contro cui ha già mobilitato in Europa oltre mezzo milione di soldati. Stoltenberg non chiarisce come la Nato possa prevedere una possibile seconda pandemia del virus con un nuovo lockdown.
Su un punto però è chiaro: ciò “non significa che altre sfide siano scomparse”. La maggiore – sottolineano i ministri della Difesa – proviene dal “comportamento destabilizzante e pericoloso della Russia”, in particolare dalla sua “irresponsabile retorica nucleare, mirante a intimidire e minacciare gli Alleati Nato”.
Essi rovesciano in tal modo la realtà, cancellando il fatto che è stata la Nato, finita la Guerra fredda, a estendersi a ridosso della Russia con le sue forze e basi nucleari, soprattutto statunitensi. È stata metodicamente attuata, con la regia di Washington, una strategia mirante a creare in Europa crescenti tensioni con la Russia.
Per decidere nuove misure militari contro la Russia i ministri della Difesa si sono riuniti nel Gruppo di pianificazione nucleare, presieduto dagli Stati Uniti.
Non si sa quali decisioni in materia nucleare abbia sottoscritto il ministro Guerini per conto dell’Italia. È comunque chiaro che, partecipando al Gruppo e ospitando armi nucleari Usa (utilizzabili anche dalla nostra aeronautica), l’Italia viola il Trattato di non-proliferazione e respinge il Trattato Onu per la proibizione delle armi nucleari.
Stoltenberg si limita a dire: “Oggi abbiamo deciso ulteriori passi per mantenere sicuro ed efficiente il deterrente nucleare Nato in Europa”. Tra questi passi vi è sicuramente il prossimo arrivo, anche in Italia, delle nuove bombe nucleari Usa B61-12.
L’altra crescente “sfida”, di cui hanno parlato i ministri della Difesa, è quella della Cina, che per la prima volta è “in cima all’agenda della Nato”. La Cina è partner commerciale di molti alleati, ma allo stesso tempo “investe pesantemente in nuovi sistemi missilistici che possono raggiungere tutti i paesi Nato”, spiega Stoltenberg. La Nato comincia così a presentare la Cina come militarmente minacciosa.
Allo stesso tempo presenta come pericolosi gli investimenti cinesi nei paesi dell’Alleanza. In base a tale premessa i ministri della difesa hanno aggiornato le linee guida per la “resilienza nazionale”, miranti a impedire che l’energia, i trasporti e le telecomunicazioni, in particolare il 5G, finiscano sotto “proprietà e controllo stranieri” (leggi “cinesi”).
Queste le decisioni sottoscritte dall’Italia alla riunione Nato dei ministri della Difesa. Esse vincolano il nostro paese a una strategia di crescente ostilità soprattutto verso Russia e Cina, esponendoci a rischi sempre più gravi e rendendo franoso il terreno su cui poggiano gli stessi accordi economici.
È una strategia a lungo termine, come dimostra il lancio del progetto “Nato 2030”, fatto dal segretario generale Stoltenberg l’8 giugno per “rafforzare l’Alleanza militarmente e politicamente” includendo paesi come Australia (già invitata alla riunione dei ministri della Difesa), Nuova Zelanda, Giappone e altri asiatici, in chiara funzione anti-cinese.
Per il progetto della Grande Nato Globale 2030 è stato formato un gruppo di 10 consiglieri, tra cui la prof. Marta Dassù, già consigliera di politica estera nel governo D’Alema prima e durante la guerra Nato alla Jugoslavia, a cui l’Italia partecipò nel 1999, sotto comando Usa, con le sue basi e i suoi bombardieri.
(il manifesto, 23 giugno 2020)
5. LIBIA, FRANCIA E TURCHIA
FRANCESCO BATTISTINI
LIBIA, SCONTRO TRA MACRON E ERDOGAN
Parigi contesta il ruolo di Ankara a Tripoli: “Così la Nato è morta”. La Turchia arresta “spie” dei francesi.
“Sirianizzazione”. Brutta la parola, giusta l’idea. L’aveva già usata un mese fa il ministro degli Esteri francese, spaventato dalla deriva. La ripetono in queste ore un po’ tutti: sì, la Libia sta diventando sempre più uno scatolone-regalo per due, la Turchia e la Russia, le stesse che comandano in Siria e che qui armano l’una il governo tripolino di Fayez al-Sarraj, l’altra il generale cirenaico Khalifa Haftar. La guerra civile è a una svolta. E dallo scorso inverno, da quando Erdogan ha portato a Tripoli i miliziani siriani, i rapporti di forza si sono rovesciati: Sarraj stravince, Haftar si ritira, Ankara gode.
Può durare? Il primo a cui sono saltati i nervi è Emmanuel Macron, sostenitore di Haftar, già furioso perché la settimana scorsa le sue fregate che pattugliano il Mediterraneo s’erano imbattute in un cargo turco pieno d’armi, e s’era sfiorata la battaglia navale. Oltre che una crisi diplomatica: “La Turchia sta giocando una partita pericolosa”, dice il presidente francese. “Il gioco pericoloso” lo fate voi, la risposta di Erdogan: “Stando col golpista Haftar e creando il caos”. Per essere più chiaro, il Sultano ha fatto arrestare un’ex guardia del consolato francese a Istanbul e tre turchi, tutti accusati d’essere spie a libro paga di Parigi dentro il mondo degli islamisti.
C’era una volta la Nato. La stessa che nove anni fa cacciava Gheddafi, a suon di bombardieri francesi, e oggi si ritrova due Paesi membri l’un contro l’altro armato. “È la morte cerebrale dell’Alleanza atlantica”, riconosce l’Eliseo: “Ma bisogna dire ai turchi: è ora di fermarsi. Non tollereremo il vostro ruolo. Avete raggiunto l’obbiettivo di capovolgere la situazione militare: basta così”.
Il concetto è stato ripetuto da Macron in una telefonata a Donald Trump, uno che finora si preoccupava della Libia solo per il petrolio o per il terrorismo, e invece lunedì ha mandato il capo del Pentagono in Africa, Townsend, a negoziare una tregua militare. È in parte anche la posizione dell’Italia, che gioca sui due tavoli: Luigi Di Maio è stato in Turchia, ora va a Tripoli e tiene aperto il canale Haftar, perché la crisi “riguarda la nostra sicurezza nazionale” e “non possiamo permettere nessuna partizione” (leggasi: sirianizzazione).
L’ultima cosa di cui ha bisogno la Libia sono nuovi interventi dall’estero, ha detto ieri mattina un portavoce Onu. E invece troppi si stanno agitando: con la Francia, al fianco di Haftar, ecco schierarsi l’Egitto. “C’è una linea rossa” che i turchi non possono superare, avverte il presidente Al Sisi: questa linea va da Sirte, la simbolica città natale di Gheddafi già liberata dall’Isis, e arriva alla base aerea d’Al Jufra, 250 km a sud, dove i russi hanno piazzato i Mig-29, i Su-24 e le migliaia di mercenari dell’esercito privato Wagner, tutti in appoggio della Cirenaica. Se Sirte cadrà, come sembra, la marcia dei turchi verso Est potrebbe arrivare fino a Bengasi e ai grandi pozzi petroliferi di Ras Lanuf. “Inaccettabile”: parlando ai suoi soldati, Al Sisi non ha escluso un intervento armato in nome della sicurezza nazionale – “tenetevi pronti” –, e ha ricevuto l’applauso di sauditi, emiratini, della Lega araba tutta, perché “l’Egitto ha il diritto di difendere i suoi confini”.
Di mezzo ci sono naturalmente le vecchie ruggini con Erdogan, che nel 2013 finanziava i Fratelli musulmani al Cairo come ora dà soldi agli islamici di Tripoli. Ma c’è soprattutto l’alleanza francese ed egiziana con Putin.
Quello che dice di volere un cessate il fuoco e sul fuoco, finora, ha spesso soffiato. Come in Siria.
(Corriere della Sera, 23 giugno 2020)