Minima Cardiniana 289/4

Domenica 5 luglio 2020
XIV Domenica del Tempo Ordinario, Sant’Antonio Maria Zaccaria

LIBRI LIBRI LIBRI
PELLEGRINO ARTUSI
Era stato a lungo dimenticato e sopravvalutato, quel romagnolo collezionista di sapide, sovente grevi ricette; e considerato al massimo un “minore” più noto alle casalinghe che agli studiosi. Ma nel 1970 uscì l’edizione de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi a cura e con Introduzione di uno che, a sua volta, era un altro genio romagnolo: il solo, forse, a comprenderlo sul serio e fino in fondo. Alludo a Piero Camporesi[1].
Quello fu l’anno della riscoperta di un grande classico della letteratura della neonata Italia, che il grande studioso forlivese preparava dai pieni Anni Sessanta, con il crescere degli interessi per il “basso-materiale-corporeo” bachtiniano (l’edizione francese del Rabelais e la cultura popolare appartiene appunto al 1969) e con il progressivo avvicinarsi all’antropologia culturale e ai suoi rapporti con la linguistica, allo strutturalismo e alle tematiche allora dibattute con passione sulla pagine delle “Annales”. Secondo Camporesi, nel ricettario di Pellegrino Artusi si trovava “l’archeologia della cucina, la profondità degli atti alimentari (allora il libro di cucina aveva un mercato quasi esclusivamente femminile), la storia dell’uomo sub specie alimentaria, anche la storia economica, se si vuole, anche l’antropologia, i riti che quell’uomo ha costruito per impetrare fertilità, abbondanza, piogge e buoni raccolti”[2]. Ancora, La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene andava collocata accanto a libri come Cuore e Pinocchio, fra quei testi cioè a sfondo socio-pedagogico (che Camporesi definisce “bibbie popolari”) che “il moderatismo sociale italiano ha espresso per la costruzione di un cittadino fabbricato secondo i postulati dell’etica borghese”. Sullo sfondo, c’era la costruzione dell’Italia unitaria: si pensa che negli anni dell’uscita del manuale (la prima edizione è del 1891) gli italofoni fossero meno di un milione su una popolazione di venticinque milioni, per cui testi orientati a divenire letture popolari, ma prodotti dal ceto borghese con finalità educative, avevano lo scopo primario di costruire una lingua e una cultura – improntata al buon gusto borghese e al risparmio – comuni; Camporesi definisce infatti Pellegrino Artusi “un economo, un amministratore, un dietista, un precettista”[3].
La fortuna editoriale de La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene dimostra che l’operazione era riuscita: vent’anni di ristampe e decine di nuove edizioni collocano il testo fra i più letti negli anni a cavallo fra i due secoli.
Il carattere propriamente storico – anche e magari perfino soprattutto sotto il profilo della storia civile, sociale, etica: “dell’identità nazionale”, come oggi si amerebbe dire – della lettura camporesiana di Artusi viene soprattutto evidenziato e per così dire sintetizzato nella famosa affermazione di Camporesi, che “La scienza in cucina ha fatto per l’unificazione nazionale più di quanto non siano riusciti a fare I promessi Sposi. I gustemi artusiani, infatti, sono riusciti a creare un codice di identificazione nazionale là dove fallirono gli stilemi e i fonemi manzoniani”[4]. L’elaborazione camporesiana del concetto di “gustema” – al pari dell’indagine relativa alle “strutture del gusto”, che dobbiamo a Jean-Louis Flandrin – era debitrice con ogni evidenza a un altro fatto fondamentale, che si era già verificato da qualche tempo in Francia ma che proprio nello snodo tra Anni Sessanta e Anni Settanta passava in Italia: l’affermazione della “scuola delle Annales” e del suo rapporto privilegiato tra la storia e le scienza umane, soprattutto l’antropologia culturale. È evidente che la nozione di “gustema” venne messa a punto da Camporesi in analogia con quelle di “fonema” e di “mitema”, alla luce dello strutturalismo saussuriano e dell’influenza degli studi di Claude Lévi-Strauss, i grandi saggi dedicati dal quale all’alimentazione erano appunto usciti in Francia a metà degli Anni Sessanta[5].
Ma si trattava di trasferire dalla teoria e dall’epistemologia alla pratica e alla fenomenologia della ricerca questo nuovo concetto. L’averlo applicato all’opera dell’Artusi è stata la grande novità. Per questo si tratta di un passo stracitato, senza dubbio, per la sua geniale e convincente osservazione a proposito della costruzione dell’identità nazionale: che pure era e rimane fondata sul policentrismo e sul municipalismo, se è vero che – a non dir altro – quanto meno il costante e continuo contrasto e la permanente dialettica fra la cultura “dell’olio” e quella “del burro” (e non, si badi, dello strutto: che ad esempio trionfa nella cucina campana tradizionale, per altri versi ben radicata nella “cultura dell’olio”), i cui confini passavano ancora ai tempi dell’Artusi, e avrebbero a lungo continuato a passare prima dell’omologazione attuale, tra le pur prossime e “sorelle” tradizioni toscana e romagnola, avrebbe a lungo ostato a quella “definitiva” unificazione nazionale che oggi, almeno a guardarla dall’estero, sembra essersi compiuta definitivamente solo in anni recenti, nel segno degli spaghetti e, soprattutto, della pizza: unica vera concorrente massmediale e massificata, si direbbe, del Big Mac nella “civiltà occidentale” mondializzata. La propensione della nascente società verso i consumi sembra essere stata colta in pieno dallo stesso Artusi, il quale nella prefazione alla trentacinquesima edizione della sua opera scriveva: “Cieco chi non lo vede! Stanno per finire i tempi delle seducenti e lusinghiere ideali illusioni e degli anacoreti; il mondo corre assetato, anche più che non dovrebbe, alle vive fonti del piacere, e però chi potesse e sapesse temperare queste pericolose tendenze con una sana morale avrebbe vinto la palma”[6].
Un’altra geniale intuizione di Piero Camporesi rispetto all’opera dell’Artusi sta nel fugace accenno su come il tranquillo figlio d’un droghiere di Forlimpopoli, quindi banchiere e cambiavalute a Livorno e a Firenze, molto si preoccupasse di suggerire dove a suo avviso era opportuna la sostituzione dell’olio – familiare nella Toscana in cui s’era trasferito – con burro o con carnesecca, ma come non desse segno di essersi accorto del fatto che nel 1898, a Milano, si era risposto con i cannoni del Regio Esercito alla fame dei poveri (altro che conflitto tra olio mediterraneo e burro continentale!): e come quella borghese olimpica indifferenza sia parte essa stessa, eccome, dei “caratteri originari” della storia d’Italia, di come l’Italia era stata fatta e di come si sarebbe tentato a lungo – con mediocre riuscita…- di “far gli italiani”. La fugace osservazione di Camporesi mi pare affiancarsi all’Elogio di Franti di Umberto Eco a proposito del Cuore di Edmondo De Amicis, come detto altro “manuale” borghese di educazione popolare, e insieme con esso costituire uno spunto di critica storico-sociale al processo unitario della nostra nazione che, da solo, vale molto più di tante analitiche e rigorose critiche gramsciane (a parte il gramscianesimo che, in filigrana, si coglie comunque nell’uno come nell’altro scritto).
Dal punto di vista storiografico, insomma, la riscoperta di Pellegrino Artusi passa attraverso la nascita di una storiografia dedicata a una storia sociale dell’alimentazione che in Italia è stata espressa soprattutto da Emilio Faccioli con un raccolta di testi edita nel 1966[7] che fu probabilmente il punto di partenza sul quale si fondò tutta una feconda stagione di studi relativi alla storia della gastronomia, alla tavola, alle strutture del gusto, che dura ancora e che conta fra i suoi migliori specialisti studiosi come Jean-Louis Flandrin, Odile Redon, Allen Grieco, Massimo Montanari Sylvano Serventi, Anna Martellotti, Enrico Carnevale Schianca e molti altri[8].Gli studi in materia condotti nell’ultimo mezzo secolo circa prestano grande attenzione alle fonti documentarie e ai dati sia archeologici, sia filologico-linguistici, sia, e forse soprattutto, antropologico-culturali. Difatti, non erano differenti da oggi soltanto le materie prime, gli ingredienti, e i metodi di preparazione, di conservazione e di cottura: erano diversi gli atteggiamenti mentali e gli orizzonti immaginari di coloro che preparavano e consumavano i cibi; differenti le forme di presentazione; diversissimo il loro rispettivo valore anche simbolico ed estetico, non soltanto nutrizionale; differenti le – diciamo così – “gerarchie dei gusti e dei sapori”, tanto nel mangiare quanto nel bere. Dalla fine del medioevo ad ora, siamo passati attraverso molteplici e notevoli rivoluzioni del gusto: dall’avvento di nuovi cibi e di nuove spezie dal Nuovo Mondo (e si pensi solo all’uso del tè e del caffè, che pure hanno origine rispettivamente asiatica e africana; o alla cioccolata, il “brodo indiano” come l’ha chiamato Piero Camporesi) alla semplificazione-razionalizzazione illuministica, alla grande cuisine bourgeoise francese con la sua rigorosa separazione del salato dal dolce, alla “cucina futurista” o alla nouvelle cuisine (effimere entrambe, ma che hanno messo in crisi la tassonomia fondata dalla Fisiologia del gusto di Anthelme Brillat-Savarin, con il quale entriamo nella tradizione della grande cucina borghese, che in Francia precorreva per ovvie ragioni storiche quella italiana di qualche generazione: Brillat-Savarin (non casualmente politico e gastronomo) era nato nel 1755 e morto nel 1826, sei anni dopo la nascita di Pellegrino Artusi.
Ciò senza peraltro dimenticare la dimensione sociale e conviviale, dell’alimentazione, così ben testimoniata dall’episodio dei Tre Invitati da Abramo sotto la querce di Mamre, dove i tre ospiti sono quasi “razionalizzati” dal narratore come il segno della presenza divina e del buon auspicio, ma che rinvia anche all’antichissimo mitema del forestiero che porta la fertilità alla comunità che visita:

“Poi il Signore apparve a lui alle Querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo: ‘Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ di acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Permettete che vada a prendere un boccone di pane e rinfrancatevi il cuore; dopo, potrete proseguire, perché è ben per questo che voi siete passati dal vostro servo’. Quelli dissero: ‘Fa’ pure come hai detto’. Allora Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: ‘Presto, tre staia di fior di farina, impastala e fanne focacce’. All’armento corse lui stesso, Abramo, prese un vitello tenero e buono e lo diede al servo, che si affrettò a prepararlo. Prese panna e latte fresco insieme con il vitello, che aveva preparato, e li porse a loro. Così, mentre egli stava in piedi presso di loro sotto l’albero, quelli mangiarono. Poi gli dissero: ‘Dov’è Sara, tua moglie?’. Rispose: ‘È là nella tenda’. Il Signore riprese: ‘Tornerò da te fra un anno a questa data e allora Sara, tua moglie, avrà un figlio’”[9].

È fin da Platone, o da Petronio, per non parlare dell’Ultima Cena, che sappiamo quanto profondamente spirituale sia l’esperienza del convivio; tutti noi abbiamo fatto almeno una volta nella vita vissuto il “mangiare insieme” come eros travolgente, oppure come fraterna concordia e amorevole condivisione, agapé, scoperta dell’altro-da-sé in noi e di noi stessi in lui; o perfino come esperienza terribile e limitanea, qualcosa come la sublime e spaventevole cena alla quale don Giovanni invita la statua del Commendatore, che accetta anche se “non si pasce di cibo mortale – chi si pasce di cibo celeste”.
Pellegrino Artusi ci ha condotto lontano: fino a limiti archetipici dinanzi ai quali, intimoriti, ci si arresta. Ma il cibo e la nutrizione sono per loro natura sacrali. Nessuna cultura può saperlo meglio di quella fondata sulla carne e il sangue di Dio mangiati e bevuti come cibo salutare.
Franco Cardini

[1] L’Introduzione fu poi rielaborata e ripubblicata in P. Camporesi, La cucina borghese dell’Ottocento fra tradizione e rinnovamento, in La terra e la luna, Milano, Il Saggiatore, 1989.
[2] P. Camporesi, L’uomo e la sua fame. Conversazione con Giorgio Fabre, in “Rinascita”, 23 aprile 1982.
[3] O. Ponte di Pino, Il ponte e il cuneo. Su alcuni libri di Piero Camporesi, “Il Michelangelo”, Anno III, n. 2, maggio-agosto 1998, p. 12.
[4] Camporesi, La cucina borghese, cit., p. 102.
[5] C. Lévi-Strauss, Mythologiques: le cru et le cuit, Paris, Plon, 1964; Idem, Le triangle culinaire, “L’Arc”, 26, 1965; Idem, Du miel aux cendres, Paris, Plon, 1966; Idem, L’origine des manières de table, ivi 1968.
[6] P. Artusi, La scienza in cucina e l’Arte di mangiare bene, BUR Rizzoli, Milano, 2011, p. 970.
[7] Cfr. Arte della cucina. Libri di ricette, testi sopra lo scalco, il trinciante e i vini dal XIV al XIX secolo, a cura di E. Faccioli, Milano, Garzanti, 1956, n.ed. accresciuta, Torino, Einaudi, 1987; si veda anche E. Faccioli, La cucina, in AA.VV., Storia d’Italia, 5. I documenti, I, pp. 983-1030.
[8] L’argomento è troppo ampio perché sia qui il caso di proporne qualche indicazione bibliografica: si rinvia per questo comunque a AA.VV., La cucina e la tavola, tr.it., Presentazione di J.Ferniot e J. Le Goff, Bari, Dedalo, 1987.
[9] Genesi 18,1-8.