Minima Cardiniana 290/2

Domenica 12 luglio 2020, San Gualberto

EDITORIALE
LA CASA DI DIO, LA CASA DELLA NAZIONE, LA CASA DELLA CULTURA
Bentornati a casa, cari amici. Il Coronavirus è passato o forse no, forse si è chiusa solo la prima parte della sceneggiata, forse era tutto quasi un bluff (con parecchi morti, però), forse ci sarà la seconda ondata, forse il peggio deva ancora venire. Intanto ci si prepara a un’estate magra di turisti e di proventi, ricca in cambio di polemiche: con l’autunno arriveranno anche nuove elezioni e sono in molti a prepararsi. La domanda che parecchi politici sembrano farsi è non già come uscire dalla crisi, ma quali slogans trovare per avvantaggiarsi elettoralmente dalla situazione o far sì che ne sia svantaggiato l’avversario.
Si cerca di forgiarsi armi nuove e si riaffilano le vecchie. Xenofobia e antislamismo in primo piano: quelle sono roba evergreen. Un caro amico, illustre studioso, giorni fa è caduto perfino lui nella trappola del gatto arrostito e mangiato da un ivoriano in quel di Campiglia Marittima: e ci sono caduto anch’io. Entrambi gattofili indignati, abbiamo poi appreso che trattavasi di bufala: meno male, in fondo. Non è una bufala invece l’eroico golpe antimusulmano di sindaco e giunta comunale di Pisa, nuovi paladini di Carlomagno in lotta contro i nuovi saraceni. La comunità musulmana di Pisa (formata, si badi bene, anche da migranti ed extracomunitari, ma alla quale appartengono anche cittadini italiani la libertà di culto dei quali è garantita dalla Costituzione) aveva comprato tempo fa un terreno fabbricabile per erigerci la sua moschea: aveva pagato tutto regolarmente, si era procurata le licenze necessarie e si apprestava a dare il via ai lavori. Ma Orlando Sindaco e Oliviero e Turpino Paladini Assessori hanno deciso che quella era Roncisvalle: e hanno bloccato l’avanzata saracena (e il godimento dei diritti civili di alcuni cittadini italiani musulmani) con un’ordinanza che ha destinato l’area a un parcheggio. Ed ecco la sacrosanta motivazione, degna del Carmen in victoria Pisanorum (“Viva il Popolo di Pisa – per la vita e per la morte!”): La città di Pisa ha più bisogno di parcheggi che di moschee.
Ma il diavolo, alleato dei musulmani (lo dice anche l’Orlando Furioso), ci ha messo la coda: e il diabolico TAR è intervenuto dando ragione agli infedeli (…ma dove andremo a finire?).
Per ora le cose sono ferme a questo punto. Ma sapete la valanga di voti che quest’eroico assalto alle mura saracene frutterà al centrodestra pisano e quindi toscano il 20 settembre prossimo? Del resto a Sesto San Giovanni in quel di Milano, l’ex Stalingrado d’Italia, è accaduto qualcosa di simile: da Stalingrado a Roncisvalle.
Ma che strano… lo sapete che al tempo delle crociate, quelle vere, il Comune di Pisa stipendiava regolarmente una cancelleria dove c’erano traduttori di documenti pubblici dall’arabo in latino e dal latino in arabo? E che nel porto di Genova, imbarcandoci dal quale c’era una buona probabilità, giunti all’altezza della Corsica, di cader prigionieri dei corsari barbareschi e di finir la vita remando sulle galee di Tripoli o di Algeri, funzionava regolarmente una moschea per i mercanti saraceni che vi pregavano indisturbati, così come a Gerusalemme, nella moschea di al-Aqsa e sotto la protezione dei Templari, c’era un oratorio a disposizione di chi volesse pregare Allah? E tutto si faceva alla luce del sole, ogni tanto sbudellandosi nel nome della crociata o del jihad, ma anche commerciando e scambiandosi trattati di filosofia, di medicina e di matematica; e né Francesco d’Assisi, né il Saladino, né Federico di Svevia, né Raimondo Lullo hanno mai ritenuto disdicevole parlare di Dio tra seguaci del Vangelo e fedeli del Corano. Oggi, a Siviglia e a Cordoba si prega il Dio cristiano in chiese che sono state moschee; al Cairo e a Damasco in moschee che sono state chiese. Lo si fa da tempo. E allora?
Eppure, c’è chi s’indigna o si preoccupa per quel ch’è successo a Istanbul, che una volta si chiamava Costantinopoli. Ebbene, parliamone: che cos’è veramente successo?
Cominciamo dal principio.
Quella che in italiano siamo abituati a chiamare “Santa Sòfia” (per piacere, mettete almeno l’accento sulla “o”…) è un capolavoro dell’architettura imperiale romana del IV-V secolo d.C., cui s’ispirarono in tanti fra i quali, a quanto pare, nel XVI secolo il grande architetto ottomano Sinan, il “Michelangelo dei turchi”. E non c’è dubbio che sia uno dei monumenti-documenti più splendidi dell’architettura religiosa e di quella tout court di tutti i tempi. I veneziani del XIII secolo, che durante la “quarta crociata” del 1204 l’avevano saccheggiata e depredata, vi s’ispirarono per la loro mirabile cattedrale di San Marco; ma non c’è dubbio che, già da prima, essa era stata il modello di Giustiniano per San Vitale di Ravenna e degli architetti greci al servizio del califfo umayyade di Damasco, nell’VIII secolo, per la “Moschea della Roccia” di Gerusalemme. Insomma, l’asse della storia eurasiomediterranea passa per quella che i greci chiamano Hagia Sofia – foneticamente resa dai turchi con Ayasofia – e per noi Santa Sofia.
Sofia, vale a dire Sòphia, la Sapienza divina, la “Seconda Persona” della Trinità, il Figlio. È la cattedrale dedicata alla “Santa Sapienza” divina, vale a dire per la tradizione ortodossa al Cristo in quanto Logos, Sapienza e Verità eterna, la Seconda Persona della Trinità. Ma i cittadini grecofoni della Nèa Ryme, la “Nuova Roma”, la chiamavano semplicemente Megàle Ekklesìa, “la grande chiesa”; ed era considerata la Mater Ecclesiarum e il luogo più santo della Cristianità. Sognata e avviata da Costantino, era stata inaugurata nel 360 dall’imperatore Costanzo II. Ricca di strutture lignee, fu incendiata nel 404. Ricostruita e quindi incendiata di nuovo durante la cosiddetta “rivolta della Nika” del 532, spettò a Giustiniano il ricostruirla. Il grande imperatore non badò a spese e fece arrivare da tutti gli angoli dell’impero i marmi più pregiati; il progetto dell’immensa cupola fu probabilmente costruito sulla base dei calcoli di Erone d’Alessandria. L’imperatore e il patriarca Eutichio inaugurarono la nuova basilica il 27 dicembre 537, festa dell’evangelista Giovanni. Da allora il tempio divenne il luogo più sacro della Cristianità, illustrato anche dalle reliquie della passione del Cristo che l’imperatrice Elena madre di Costantino aveva inviato a Costantinopoli verso il 330.
Poiché i sovrani cristiani sono “figura del Cristo sulla terra”, quella cattedrale dedicata al Cristo dall’imperatore Costantino era edificio imperiale per eccellenza e le molteplici cupole che la coronano simboli delle sfere celesti dell’universo. Ben lo sapeva il doge Dandolo, le insegne del cui potere riproducevano quelle imperiali bizantine, e che dopo averla conquistata a spogliata volle farvisi seppellire. Ben lo sapeva quel khan turcomongolo che gli occidentali chiamavano col generico termine di “sultano”, Mehmed II, che dopo aver conquistato la Nèa Ryme (la “Nuova Roma”: tale il nome ufficiale di Costantinopoli) e averla ridenominata Istanbul – un’espressione greca foneticamente turchizzata che significa solo “Nella Città” – volle prendere il titolo d’origine persiana di Padishah, derivato dal latino Caesar, per sottolineare di aver conquistato l’impero romano. Ben lo sapeva il suo successore del Cinquecento, il grande Solimano, che noi chiamiamo “Solimano il Conquistatore”, ma che nel mondo musulmano è noto come Suleiman al Qanuni, “Solimano il restauratore del Canon”, che altro non è se non il Corpus Iuris giustinianeo che, nell’impero ottomano, fungeva da legge civile per quanto corretta dalla Sharia coranica. Ben lo sapevano gli zar della stirpe dei Romanov (Zar, come Padishah, deriva dal latino Caesar), che contendevano agli ottomani il vanto di potersi dire eredi dell’impero romano: questi per diritto di conquista dopo il 1453; quelli per diritto di fede, essendo cristiani ortodossi, e di sangue, discendendo da una principessa del casato dei Paleologi, gli ultimi basileis bizantini (e volendo occupare militarmente il Bosforo e l’accesso al Mediterraneo). E ben lo sapeva infine un imperatore forse taroccato, ma che si prendeva dannatamente sul serio: Napoleone, secondo il quale quando il mondo fosse stato abbastanza saggio da unificarsi, altra capitale non avrebbe potuto scegliere se non Costantinopoli. Se c’è qualcosa che non vi è ancora chiaro, rileggetevi Chateaubriand, Gérard de Nerval e Loti: capirete tutto.
Le vicende storiche dell’illustre monumento sono ben note e dal canto mio le ho già qui richiamate. Ci torno sopra con qualche particolare in più. L’imperatore e legislatore Giustiniano affidò agli architetti Isidoro di Mileto e Antemio di Tralle un complesso lavoro di totale ristrutturazione che durò solo cinque anni in quanto sostenuto da un finanziamento colossale. La sua immensa cupola, di circa 30 metri di diametro, crollò nel 555-556 e venne sostituita da un edificio di ridotte dimensioni che tuttavia, con i suoi 61 metri di altezza, 77 di lunghezza e 71 di larghezza, era comunque il più straordinario monumento dell’impero. Marmi e metalli preziosi furono impiegati a profusione per l’edificio, completamente rivestito all’interno di mosaici. Le pietre e le colonne che erano state utilizzate per costruirlo provenivano, a quanto si diceva, da diversi luoghi dell’impero, a cominciare dal saccheggio del grande tempio di Artemide a Efeso.
A partire dal VII secolo l’impero romano d’Oriente, che siamo soliti chiamare Bisanzio, fu scosso dalla crisi iconoclasta; diversi imperatori aderirono al movimento contrario alle immagini sacre, fino a quando il lungo periodo di contese si concluse sotto il regno del basileus Michele allorché una cerimonia in Aghia Sophia, tenuta l’11 marzo dell’843, riaffermò solennemente e definitivamente il dettato del secondo concilio di Nicea, legittimando di nuovo la proskynesis (prostrazione) dinanzi alle immagini: secondo un culto di adorazione per Dio, di venerazione per Maria, gli angeli, i santi.
Simbolo dell’unità religiosa dell’impero, la chiesa fu gravemente minacciata nelle fasi preliminari della conquista latina di Costantinopoli, nel 1204: in quell’occasione un gravissimo incidente avvenne mentre Alessio IV, il giovane principe che i “crociati” avevano rimesso sul trono, insieme al padre dopo un colpo di stato dello zio, in cambio della promessa di ingenti ricompense, era fuori dalla città accompagnato da alcuni dei baroni franchi in una spedizione contro i bulgari. Una banda di fiamminghi, pisani e veneziani mossero un attacco contro il quartiere musulmano per depredarlo: i residenti risposero con l’aiuto dei greci. Le conseguenze furono terribili perché un incendio divampò e il vento spinse le fiamme in profondità, estendendosi per circa 500 metri e arrivando a sfiorare Aghia Sophia. Seguirono settimane di tensione, al culmine delle quali i crociati saccheggiarono e conquistarono la capitale; preventivamente, i capi della crociata si erano riuniti per accordarsi sulla suddivisione del bottino e dell’Impero: al patriarca veneziano andava Aghia Sophia, convertita dalla confessione greca a quella latina che gli occupanti volevano imporre a una capitale recalcitrante. Proprio in quella sede, il 16 maggio del 1204 il conte Baldovino IX delle Fiandre venne incoronato imperatore di Costantinopoli mentre il veneziano Tommaso Morosini ne divenne patriarca. Così, quando con l’aiuto dei genovesi, nemici dei veneziani, i greci riconquistarono la città, o quel che ne restava dopo le devastazioni, il 13 marzo 1261 fu sempre in Aghia Sophia che Michele VIII fu incoronato basileus. Chi vuol saperne di più può leggere adesso il bel libro di Marina Montesano, Dio lo volle?, Roma, Salerno editore, 2020.
L’impero bizantino si trascinò stancamente da allora per un paio di secoli, fino a quando gli ottomani non misero fine all’agonia; tuttavia, non prima che i cattolici imponessero, in cambio dell’aiuto (che comunque non arrivò mai) contro il Turco, un passaggio forzato dei greci sotto la Chiesa di Roma: l’imperatore accettò, mentre buona parte del clero ortodosso e del popolo costantinopolitano si ribellava, e fu ancora in Aghia Sophia che il 12 dicembre del 1452 alla presenza del cardinale Isidoro patriarca latino di Costantinopoli, appositamente giunto da Roma, che si celebrò la fine dello scisma iniziato nel 1054.
Dopo la conquista ottomana del 1453, il sultano Mehmet II convertì la chiesa in moschea: come dicono molti cronisti dell’epoca, fra i quali il fiorentino Cristoforo Buondelmonti, al momento della conquista l’edificio si trovava in uno stato fatiscente; i restauri e gli abbellimenti continuarono sotto i successori del conquistatore; gli ultimi lavori importanti, realizzati verso la metà dell’Ottocento, furono affidati ad architetti italiani.
Dopo lo smantellamento dell’impero ottomano e la rivoluzione nazionalista di Mustafa Kemal Atatürk, nel 1935 si volle trasformare Ayasofya in un “tempio laico”, cioè in un museo, in linea con la politica del governo e a lode della nazione turca rinata a nuova vita, che considerava Santa Sofia un po’ come il suo Partenone. In anni recenti il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha permesso, se non favorito, il ritorno di diversi edifici del paese a luoghi di culto: in Istanbul Chora, un’altra chiesa bizantina di Istanbul che pure era diventata una moschea e poi un museo; e fuori dalla capitale edifici simili a Iznik e Trabzon. Da un paio d’anni a questa parte il presidente promette (o minaccia: secondo i punti di vista) di fare lo stesso con Ayasofya, che tornerebbe al suo ruolo di luogo di culto. Va detto ch’esso è stato tale – cristiano latino, cristiano greco o musulmano – per oltre 1500 anni. Evidentemente Erdoğan intende con ciò ottenere ulteriore consenso da parte della base tradizionalista (se non proprio fondamentalista) del suo partito, cercando di distogliere l’attenzione da una gestione politica non sempre cristallina: ma questa è una questione interna alla Turchia odierna, rispetto alla quale l’Occidente ha ben poco da dire. Di per sé, il suo ritorno alla funzione sacra originaria non deve destare inquietudine: soprattutto alla luce del fatto che, come capitale di due imperi, quello romano e quello ottomano, Aghia Sophia/Ayasofya non è mai stata un simbolo neutro. Lo “strappo” vero, più che nel 1204 quanto il santuario passò dai greci ai latini o nel 1453 quando passò dai cristiani ai musulmani, avvenne durante il regime laicista di Kemal, in tempi nei quali perfino il nominare il nome di Dio in parlamento era considerato un crimine. Oggi, un ritorno parziale al culto – in giorni speciali o attraverso l’organizzazione di uno spazio interno a “sala di preghiera” – non appare cosa che possa davvero urtare o scandalizzare qualcuno.
A meno che… Ma qui bisognerebbe intendersi su molte cose, a cominciare dal valore della tolleranza. Se oggi si profilasse la necessità o l’opportunità di trasformare una chiesa in museo – cosa del resto già accaduta più volte –, è molto probabile che chi vi si opponesse si vedrebbe accusato di oscurantismo e d’intolleranza. Stesse accuse che verrebbero lanciate contro chi intendesse restituire al culto religioso un monumento ormai usato come spazio civico o culturale. Dietro a questi due atteggiamenti c’è un pensiero “a senso unico” che per quanto è in me non ho alcuna intenzione di avallare. Esistono le case di Dio, le case “della nazione” – sacra e una “religione civica” – e le case “della cultura”. Sono dimore che possono anche esser simili; e ce ne sono che, nel tempo, hanno coperto tutte le tre funzioni. In tempo di pluralismo, è opportuno ritenere in linea di massima legittime tutte le opzioni e decidere secondo opportunità, caso per caso. Come credente, posso anche accettare che in alcuni casi un edificio sacro possa essere anche adibito ad altro uso. Ma che addirittura il metro di giudizio si ribalti fino a giungere al paradosso di dichiarare che un edificio riportato alle sue originarie funzioni religiose possa essere accusato di costituire una “profanazione” della “laicità”, questo poi no. La “laicità”, per sua natura, è già “profana” e non può essere se non “profana”. Come credente, posso anche rispettare la laicità. Ma “sacralizzarla”, poi, questo mi dispiace ma non si può. “Per la contraddizion che nol consente”: pericope dantesca da assumersi in questo caso alla lettera.